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giovedì 9 febbraio 2012

Il viaggiatore che parlava solo di se stesso

Parlo eternamente di me

Così afferma perentoriamente Francois-Auguste de Chateaubriand nell'introduzione al suo Itinerario da Parigi a Gerusalemme, pubblicato nel lontanissimo 2011, libro che molti indicano come inizio della letteratura di viaggio moderna, capostipite di una genealogia che nel tempo ci regalerà i Chatwin, i Bouvier, i Leigh Fermor.

E come nota Stenio Solinas nel suo bel libro (Da Parigi a Gerusalemme, Vallecchi) su questo nobile fuori dal tempo e dalla storia, che seppe essere diplomatico della Francia reale e vagabondo senza una meta, Chateuabriand era certo uno molto pieno di sè. Di lui il perfido Talleyrand assicurava:


Da quando non sente più parlare della sua gloria, si è convinto di essere sordo

Eppure la nostra letteratura di viaggio nasce proprio da lì, da quel parlo eternamente di me, somma vanità dell'uomo che si mette in viaggio. E che si permette di parlare dei paesi che incontra parlando solo di se stesso.

Eppure è così: prima c'erano i diari di bordo, i resoconti scentifici, i cataloghi naturalistici, le relazioni. Dopo c'è l'uomo, c'è lo scrittore, che sta nel mondo che attraversa, che lo racconta attraverso i suoi sguardi e le sue emozioni.

Perché il viaggio è questo: scoprire incidentalmente il mondo scoprendo se stessi.

martedì 18 agosto 2009

Travel, travail, travaglio: viaggiare è fatica


Dunque, con la canicola di giorni come questi, oggi non ho fatto proprio fatica ad assecondare la mia propensione a rinchiudermi in casa e a fantasticare di viaggi che non farò mai.

Per l'appunto lo sguardo mi è caduto su un articolo - credo di Jean Starobinski - che ricordando la figura di un viaggiatore-fotografo come Nicolas Bouvier si soffermava sull'etimologia dell'inglese to travel, viaggiare.

Forse voi lo sapevate già, io non ho ci avevo mai pensato. To travel ha la stessa radice del francese travail, che sta per lavoro. Esisterebbe un'origine comune, una parola latina di uso non molto frequente, tripalium, che era l'attrezzo con cui si soggiogavano i buoi e gli asini ribelli.

E questo mi ha dato da pensare: perché passando dal francese al latino non c'è solo l'idea di fatica, c'è anche quella di una violenza necessaria (?) per domare, per riportare all'ordine, magari per placare un istinto.

L'articolo non rammentava un'altra parola, questa volta italiana, che aggiunge altri argomenti: travaglio. Parola che associamo alla sofferenza del parto e che almeno si accompagna all'idea di una nascita o di una rinascita.

Scriveva Nicolas Bouvier: "Se non si concede al viaggio il diritto di distruggerci un poco, tanto vale restare a casa".

Allora ho pensato: forse con me tante volte ha prevalso il "tanto vale restare a casa". Leggere di viaggi, immaginarsi viaggi, invece che viaggiare sul serio.

Col tempo, con poche eccezioni, sono diventato un viaggiatore di carta: e mi chiedo se anche voi, di tanto in tanto, non siate caduti in questa tentazione... Perché non si apre una discussione sulle gioie e i dolori dei viaggiatori di carta?

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