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giovedì 1 settembre 2016

Annie e il padre che non l'aveva mai fatta vergognare

Mi portava da casa a scuola sulla sua bicicletta. Traghettatore tra due sponde, con la pioggia e con il sole.
Forse il suo più grande motivo di orgoglio, o persino la giustificazione della sua esistenza: che io appartenessi a quel mondo che l'aveva disdegnato.

Bastano righe come queste per far emergere l'intera vita di una persona senza storia, tra le tante: prima contadino, poi operaio, infine gestore di un bar-drogheria della provincia normanna, uomo del popolo, uomo senza istruzione e modi da cittadino, vita sottomessa alla necessità. Per rappresentare lui e per illuminare la relazione con la figlia, che lui ha fatto di tutto perché potesse studiare e fare una vita diversa, senza per questo mai immaginarsi che un giorno sarebbe perfino diventata scrittrice.

Di Annie Ernaux avevo già letto Gli anni, opera stupefacente, capace di mettere insieme autobiografia e storia collettiva, lettura che mi aveva conquistato fin dalla prima pagina. Ma che dire allora di quest'altro libro, Il posto (L'Orma edizioni)? Oserei parlare di capolavoro, se la parola non fosse logorata dall'uso.

Un libriccino in fondo, che si può leggere in due ore. Vai a sapere però quanto rimarrà dentro, vento di emozioni e di riflessioni che non viene meno. Quante cose, che ci sono: due generazioni a confronto che non sanno riconoscersi ma che si scoprono negli affetti, la fedeltà alle proprie radici e il bisogno di voltare le spalle a ciò che c'è di più caro, la famiglia e il mondo, gli immensi tesori di umanità nascoste in vite di lavori umili, di giorni che scorrono sotto gli eventi.  I silenzi, la forza del sentimento, le cose che resistono e che si mettono in moto comunque, basta avere occhi per guardare.

 Racconta suo padre, Annie Ernaux, parole, gesti, gusti,  racconta i mestieri più difficili del mondo, quelli di genitore e quello di figlio. Entra nel terreno più difficile per una scrittura che non inventa e non si sottrae - ci ho messo tanto perché riportare alla luce fatti dimenticati non mi veniva così facile quanto inventarli - e prima ancora che le storie di famiglia mette a nudo quei nodi emotivi che più di tutti è un'impresa sciogliere, sarà che ci sono troppi rimpianti. Distacchi, parole che si sono fatte mancare, incomprensioni, piccole crudeltà quotidiane.

Parabole di vita che a volte si cristallizzano in uno sguardo, in una frase.

La madre: "E' un uomo di campagna, cosa volete farci".

Il padre: Un giorno, con sguardo fiero: "Non ti ho mai fatto vergognare".

Mondi distanti. Mondi che i sentimenti, come la legge di gravità, riportano insieme. Nel tempo, col tempo. 

domenica 5 giugno 2016

Inseguendo l'ombra di Stevenson e della sua asina

Poi dicono che la letteratura di viaggio è finita, tanto tutto è stato già visto e raccontato. Meno male che si sbagliano e si sbaglieranno fino a quando ci sarà qualcuno che si mette in gioco con se stesso e sa usare non solo le gambe, ma anche una certa dose di immaginazione, la capacità di interrogare i posti, la buona compagnia di libri e di ombre del passato.

In cammino con Stevenson di Tino Franza (Exòrma edizioni) è un libro che tutti questi ingredienti li possiede in abbondanza. 

Non ci consegna un altro continente eppure ci porta molto lontano, in una Francia che non è la Francia delle consuete rotte turistiche, Normandia o Costa Azzurra per non dire di Parigi, ma la Francia rurale, montanara, selvaggia delle Cévennes, che sarebbe come dire a un francese di lasciar perdere Roma e Venezia e concentrarsi piuttosto sul nostro Aspromonte.

Ci porta lontano anche nel tempo, perché al viaggio di oggi intreccia il viaggio che il grandissimo Robert Louis Stevenson qui fece più o meno un secolo e mezzo fa, giovane che ancora doveva scrivere i suoi capolavori e decidere davvero cosa fare della sua vita. 

E inseguendo l'ombra di Stevenson - lungo il sentiero che oggi furbescamente si chiama Le chemin di Stevenson - sono molte altre le ombre che spuntano fuori. Briganti e ribelli, carbonai e contadini, osti e bestie feroci. Perché è questo - più volte l'ho sperimentato anch'io - che viene dato in dono ai camminatori: di spremere l'invisibile dalla terra che attraversano. Spesso si tratta proprie delle vite di chi ci ha preceduto.

Se qualcosa manca al viaggio di Franza mi sembra che sia solo un asino. Anzi, un'asina come quella Modestine che accompagnò Stevenson nei suoi giorni a piedi e dalla quale alla fine si separò a fatica. Problema dell'autore non del lettore, che per l'appunto sa confortarsi con l'ombra di Modestine, sempre presente in queste pagine.

martedì 30 luglio 2013

Parole e silenzi nei luoghi di Marguerite Duras

Potrei parlare per ore di questa casa, del giardino. Conosco tutto, so dove sono le vecchie porte, tutto, i muri dello stagno, tutte le piante, il posto di tutte le piante, conosco anche il posto delle piante selvatiche, tutto.

Buono per quanti almeno una volta si sono imbattuti in una pagina di Marguerite Duras e si sono fatti catturati dalla sua scrittura, dalle sue storie che scavano fino in fondo e danno parola a ciò che di solito di parola è privo. Buono anche per quanti la Duras non l'hanno mai amata - non è un autore che si lascia conquistare facilmente, nonostante i successi editoriali di altri anni - e che tuttavia ora hanno la possibilità di esplorare il mondo segreto di una grande del Novecento.

Non so bene come definire I miei luoghi, ora pubblicato da Clichy. Un libro-intervista certo, con la Duras che, conversando con Michelle Porte, racconta i luoghi della sua vita, dalla giungla del Vietnam alla casa affacciata sulla sabbia e le maree della Normandia. Eppure non è solo questo. O meglio il gioco delle domande e delle risposte si fa molto altro: racconto intimo, parola evocativa, silenzio che sembra impregnare i luoghi stessi della Duras e farsi più eloquente di molti discorsi.

Un libro sul filo della memoria, della nostalgia, del ricordo che si fa strada e chiede cittadinanza al presente. Un libro anche da toccare, sfogliare, vedere, perché parla pure attraverso le sue pagine bianche e le tante fotografie.

giovedì 5 luglio 2012

Il cronista che non dimenticò mai per chi scriveva

Ernie Pyle aveva un nome buono per un film di Hollywood di Billie Wilder o Frank Capra e una storia davvero americana, di uomo che si fa dal niente.

Ernie Pyle entrò nel giornalismo dalla porta di dietro, cominciando a scrivere per riviste di aviazione: si diceva che se un pilota si lanciava col paracadute per un'emergenza, lui riceva una telefonata prima che il pilota toccasse terra.

Ernie Pyle amava girare per l'America e raccontare le persone e i posti che incontrava per strada. Non ho una casa, diceva, la casa è dove si ferma l'automobile, dove di volta in volta ricevo la posta. La mia casa è l'America.

Ernie Pyle, all'apice della sua carriera, inviava articoli che venivano pubblicati in contemporanea su 400 quotidiani e 300 settimanali. La gente attendeva le sue parole, le parole di un uomo che non aveva casa.

Quando l'America entrò in guerra contro Hitler - ci racconta splendidamente David Randall in Tredici giornalisti quasi perfetti - anche Ernie Pyle partì.

Una delle prime cose che raccontò all'America fu un bombardamento su Londra e iniziò così:

Quando la pace sarà ritornata in questo strano mondo, un giorno o l'altro voglio venire di nuovo a Londra, affacciarmi su un certo balcone in una notte rischiarata dalla luna e guardare la pacifica curva argentea del Tamigi con i suoi ponti al buio.

Per anni Ernie Pyle raccontò di uomini comuni come lui, scaraventati nell'inferno della guerra. Fu anche fortunato. La scampò diverse volte, divenne il corrispondente di guerra più letto. Era importante che raccontasse di uomini, non di reparti, battaglioni, divise. Raccontò anche il D-Day:


Era un bel gorno per passeggiare sulla riva del mare. Degli uomini dormivano sulla spiaggia, alcuni di loro per sempre....

Era un uomo, un uomo che come tutti aveva paura. Se avessi sentito un altro sparo o visto un altro uomo morto, scrisse, sarei andato fuori di testa. Sapeva che la sua fortuna non sarebbe durata ancora a lungo. Ma quando, dopo la Normandia, avrebbe potuto rimanersene in America a mietere il frutto del suo lavoro, non se la sentì. Ripartì, per il Pacifico.

Ernie Pyle rimase ucciso poche settimane prima della fine della guerra. In tasca gli trovarono un ultimo pezzo:

Nella gioia dell'euforia è facile per noi dimenticare i nostri morti...

E ha ragione David Randall, per cui Ernie Pyle fu semplicemente, magnificamente, il cronista che non dimenticò mai per chi scriveva.





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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...