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giovedì 2 aprile 2020

In sidecar con Napoleone per sfidare il Generale Inverno

«Bisogna fare un vero viaggio, amico mio» dissi. «Ne ho piene le tasche di questa crociera di mormoni». 
 «Che cosa è un vero viaggio?» chiese lui.
  «Una follia che ci ossessioni, che ci porti nel mito; insomma una deriva, un delirio traversato dalla Storia, dalla geografia, innaffiato di vodka, una sbandata alla maniera di Kerouac, qualcosa che a sera ci lasci senza fiato, in lacrime, in riva a un fosso…».

Beh, queste poche battute sono un bel condensato della personalità di Sylvain Tesson e della sua filosofia di viaggio. L'allergia al buon senso, la fame di emozioni, la riluttanza a programmare, l'attenzione al passato dei luoghi non meno che al presente, la propensione per la bevuta omerica, il sentimento di amicizia.... 

Beresina. In sidecar con Napoleone, pubblicato da Sellerio, certamente non tradisce queste premesse. E non potrebbe essere altrimenti per un progetto - progetto? - di viaggio che di per sè non è privo di follia. Ripercorrere la ritirata di ciò che rimaneva della Grande Armata di Napoleone a 200 anni dal disastro di Russia - e fin qui ci si può stare. Farlo di inverno, per provare il morso del gelo che fu di quei poveretti è già un'altra cosa. Farlo con un sidecar di fabbricazione sovietica, poi, è proprio cosa da Sylvain Tesson.

Però dentro questo viaggio c'è soprattutto la sua capacità di far parlare i luoghi di ciò che è successo, anche quando di ciò che è successo non rimane testimonianza. Il massacro di Borodino, il tempo sprecato a Mosca, i morti assiderati, le incursioni dei cosacchi, la scia di cadaveri, gli eroismi e le bassezze, la beffa del passaggio della Beresina, colpo di genio in extremis di Napoleone per salvare ciò che poteva ormai essere salvato....c'è tutto in queste pagine, compreso il nonsense di una catastrofe militare subita dopo aver conquistato la capitale del nemico e non aver perso neanche una battaglia. 

Ps: quanto alla crociera da mormoni di cui all'inizio, si trattava di una spedizione in veliero tra i fiordi nel mare di Baffin. A ognuno il suo metro di giudizio, ma l'incipit resta sacrosanto: L'idea di fare un viaggio nasce sempre durante il viaggio precedente. L'immaginazione trasporta il viaggatore lontano dal ginepraio in cui è andato a cacciarsi.




lunedì 3 febbraio 2020

Sulle rive del Baltico, le due città che sono una città

E anche a me, che vorrei tener distinte nella memoria le due città, non resta che parlarti dell'una, perché il ricordo dell'altra, mancando di parole per fissarlo, s'è disperso.

Sono parole di Italo Calvino, dalle Città invisibili, capolavoro a cui è utile ritornare sempre, come nave al suo approdo. E tornare soprattutto mentre si attraversa le pagine di questo libro, dedicato appunto a una città che in realtà è due città, separate dal tempo e dalla storia più che da un muro. Senza che nemmeno il nome sia rimasto a unire le sponde del passato e del presente.

Prima c'era Königsberg, la capitale della Prussia orientale, potente porto baltico e tedesco, la città di Immanuel Kant, sulle cui passeggiate quotidiane si poteva accordare l'ora. Poi c'è stata Kaliningrad, città sovietica, tanto da portare il nome del primo capo di Stato dell'Urss, e quindi russa, capoluogo di un'enclave che è Europa e allo stesso tempo è altro. In mezzo la cesura della guerra, la cancellazione di una presenza e di una storia, la ricostruzione di un'altra città dopo che della precedente erano rimaste solo le macerie.

 Ed è in questa città che sono due città che ci accompagna Valentina Parisi nel suo Una mappa per Kaliningrad. La città bifronte, altro bel libro proposto da Exòrma. Ci prende per mano, con la sua narrazione avvolgente e non ci molla mai, perché molte sono le vicende, molti sono i fili di una trama insospettata.

E c'è la grande storia che si accanisce su quella che Curzio Malaparte definiva piccola città dell'Occidente, in riva allo sterminato oceano della pianura slava, storia che fa della città bifronte il frangiflutti in cui si abbattono e si mescolano popoli e culture diverse. Ma c'è anche la memoria famigliare, che fa di questo viaggio - e di questo libro - una promessa mantenuta. 

Perché a Kaliningrad, che era  Königsberg, c'erano i prigionieri italiani dei tedeschi. Perché tra di essi, a patire di fame sotto i bombardamenti, c'era anche un nonno che a ogni Natale saltava fuori coi suoi racconti, che nei ricordi di una bambina si mescolavano al vitello tonnato e ad altre abitudini delle feste comandate. 

Che fine fanno le città che hanno perso il loro nome? Esistono ancora, per lo meno nelle geografie immaginarie? Possono rivendicare qualcosa, benché invisibili?

Quante domande mentre queste pagine mi sospingono verso un molo proteso sulla distesa grigia del Baltico, a soppesare ciò che c'è e ciò che non c'è più.






lunedì 2 ottobre 2017

A San Pietroburgo, la città che è uno stato d'animo

Se  San Pietroburgo non fosse esistita, avrei inventato io questa città che sonnecchia sul fiume, come uno stato d'animo che mi corrisponde sempre.

Mi piace come Jan Brokken scrive, mi piace come sa raccontare i luoghi cogliendone l'anima attraverso le storie e le persone e in questo modo raccontando anche se stesso. Senza esibizionismo, senza la presunzione a cui potrebbe cedere un uomo di grande cultura. Con semplicità, piuttosto, la semplicità che sa farsi densità e che è più impresa di tanta complessità.

Nell'ultimo suo libro - Bagliori a San Pietroburgo, sempre per Iperborea - ci prende per mano e ci accompagna in una città straordinaria, che davvero è anche uno stato d'animo.

A ogni passo - dice - mi viene in mente un libro o mi risuona in testa una musica. E' una scoperta continua.

E scoperta continua è anche per il lettore, è anche per il sottoscritto, che tante volte ha frequentato l'arte di San Pietroburgo, magari non sempre riuscendo a collocarla in una mappa della Grande Madre russa.

E via, sfilano le immagini. Anna Achmatova che ogni giorno sosta davanti al carcere che gli ha inghiottito il figlio; Dostevskij che muore mentre si accinge a scrivere il seguito dei Fratelli Karamazov, cercando di recuperare la penna stilografica che gli è caduta sotto la scrivania; Sostakovic che oggi sera alle dieci, l'ora degli arresti, attende che lo vengano a prendere con la valigetta pronta; Rachmaninov distrutto dal fallimento della prima della sua sinfonia; Esenin nell'ultima sua notte all'Hotel Angleterre...

Gesti, immagini, fotografie che fissano un'emozione o che si fanno porta aperta. Glorie e sofferenze in una galleria che mette insieme il principe dandy che scannò Rasputin e fuggì a Parigi con un Rembrandt sotto braccio e le dolenti constatazioni di Osip Mandel'štam sulla poesia in Russia: solo da noi hanno rispetto per la poesia, visto che uccidono in suo nome. In nessun altro paese uccidono per motivi poetici.

Passeggia per San Pietroburgo, Jan Brokken. A volte a colpo sicuro, altre volte lasciandosi guidare dal caso e dalla curiosità. Come si dovrebbe fare in ogni città con le sue storie. O con un libro come questo, che mi ha fatto viaggiare dove non sono mai stato.

Se non con la poesia, i romanzi, la musica. Incontrandola così, nella sua bellezza, nella sua malinconia.

mercoledì 29 giugno 2016

Troppa felicità e quello che succede dopo

E' sempre lei, straordinaria nella dimensione di racconti che per densità e profondità potrebbero essere grandi romanzi, capace di scrivere con la scioltezza di un pittore ispirato,  ogni pennellata una nuova luce sulla nostra umanità. Alice Munro, canadese, premio Nobel qualche tempo fa, per quanto questi riconoscimenti possano contare qualcosa. Per me significano poco, quello che mi importa è la capacità delle pagine di catturarti e non lasciarti più.

Mi mancavano, i dieci racconti della raccolta Troppa felicità (Einaudi). Dieci storie, dieci luci che si accendono su mondi, che irrompono nella quotidianità di famiglie, di comunità di provincia, di esistenze che potrebbero passare per serene, quasi soddisfatte. Qui ci sono persino padri che uccidono i loro figlioletti in un raptus o figli che fanno fuori anziani genitori per una casa. Però potrebbero anche non esserci, perché poi è altro che alimenta la narrazione di Alice Munro, ciò che sta alla superficie ma soprattutto ciò che si agita dentro; illusioni che vengono meno, improvvise prese di coscienza, attimi di straniamento che cambiano tutto, amori che vengono meno non si sa come, pulsioni che incitano alla bugia o a sottili crudeltà.

Racconti da cui ho fatto fatica a separarmi. Più una sorpresa, l'ultimo racconto, quello che dà anche il titolo alla raccolta, inatteso perché con un'ambientazione storica e con una protagonista scovata tra le pagine di una biografia, Sofia Kovalevskaja, donna e matematica russa, con le sue vicissitudini nell'Europa dell'Ottocento.

"La verità è che la matematica richiede molta immaginazione", diceva Sofia. Mi emoziona a pensare alla potenza dell'immaginazione che accomuna quella donna dell'Ottocento ad Alice Munro.

lunedì 17 agosto 2015

Limonov, poeta e teppista nella Russia di Putin

E' stato poeta e teppista, maggiordomo e delinquente. E' passato dalle peggiori periferie dell'Unione Sovietica alla scena underground di New York, dai salotti francesi alle prigioni russe. Negli anni ha goduto di effimere fortune che ha fatto di tutto per rovinare. Nelle guerre dei Balcani si è schierato con il peggio, con quale consapevolezza non si sa. In Russia ha provato in ogni modo a sovvertire il nuovo che avanzava, inventandosi un partito nazionalbolscevico da far rabbrividire.

Ma si può raccontare davvero un uomo così? Risposta affermativa: sì, se sei Emmanuel Carrère, scrittore che sa cibarsi della verità della vita per tradurla in romanzi che non riesci a mollare.

E si può addirittura innamorarci, di un uomo così? Domanda più complessa, ma risposta ancora affermativa: sì, si può, e non solo grazie alla penna di Emmanuel Carrère, capace di donarci un personaggio da romanzo di altri tempi. Il fatto è che Limonov - questo il suo nome e allo stesso tempo il titolo del romanzo - è così vero che sembra fatto apposta per un romanzo. O al contrario così romanzesco che fa bene scoprire che abbia fatto irruzione nella vita vera e ci sia rimasto. 

 Limonov, concentrato di pensieri sbagliati, azioni deprecabili, eccessi di ogni tipo. Ma anche uomo che si è messo in gioco, con coraggio, pagando sulla sua pelle. Uomo di passioni e, bene o male, di visioni. E' caduto, si è alzato, è caduto di nuovo: grande soprattutto nelle sconfitte. Concentrato di vita, anzi, di vitalità. E anche di possibilità, quasi sempre sprecate.

Ha incrociato la storia, ha provato a non farsi trascinare. Nostalgico di un'Unione Sovietica a cui è sopravvissuto contro ogni pronostico: senza l'aura del dissidente, ma piuttosto con i segni del deliquentello di provincia. Hooligan ai tempi di Breznev, scrittore da scandalo in altri tempi - un suo titolo: Il poeta russo preferisce i grandi negri. Punk - o qualcosa del genere - nella Russia di Vladimir Putin - non a caso ha eletto a suo eroe uno come Johnny Rotten. Mistico - o qualcosa del genere - nelle steppe dell'Asia centrale o negli spazi angusti di una prigione.

Anna Politovskaja di lui aveva capito più degli altri. In fondo se lo era trovato a fianco, prima di essere fatta fuori, nelle battaglie dei pochi per dare diritto di pensiero e di opinione a tutti in una Russia ubriaca di facili ricchezze.

E noi, noi possiamo immergerci nella singolare grandezza di Limonov. Perdonargli ciò che possiamo perdonargli, come faremmo con un poeta di avangua
rdia o con un cantante punk che troppe volte ha camminato rasente alla morte.

Forse farselo addirittura amico.





venerdì 17 luglio 2015

In Estonia, per scoprire ciò che abbiamo alle spalle

Un piccolo paese lontano, affacciato sul Baltico, uno di quei paesi di cui sa poco e che verrebbe da pensare tagliati fuori dalla Storia. E invece la Storia qui è passata e ripassata più volte, non ha fatto sconti, ha inflitto cara armati e campi di concentramento, ha presentato il conto con invasioni e dittature.

Estonia, un estremo lembo di Europa, un'identità di confine, una possibilità di libertà che si è dovuta fare largo nell'eterna contesa tra Russia e Germania. I tre racconti di Jaan Kross raccolti de La congiura (Iperborea) fotografano altrettanti momenti del secolo delle tragedie, il Novecento.

Tallinn, 1939: i sovietici si apprestano a occupare porti e basi militari, mentre gli estoni di lingua tedesca salgono sulle navi di Hitler. Pochi anni più tardi, l'Estonia è annessa alla Germania nazista. Ma la Liberazione significa solo 6 giorni di indipendenza: Stalin invade e annette. Cambiano i padroni delle carceri, ma nelle carceri finiscono sempre i dissidenti, gli oppositori, quelli che hanno anche solo inconsapevolmente intralciato il cammino.

Jaan Kross, grandissimo scrittore che ci spalanca una finestra su un mondo pressoché sconosciuto, tutto questo lo ha ben appreso sulle sue spalle, visto che è stato arrestato dai nazisti e poi, nel 1946, anche dai sovietici.

Ma questo libro non è solo autobiografia, assolutamente no. E' anche penna felice, che inventa, racconta, insegue i destini individuali, tenta di riacciuffarli nei buchi neri della storia. 

domenica 29 dicembre 2013

Con quella foto cucita dentro la giacca

Ma adesso Franz Tunda era un giovane senza nome, senza credito, senza rango, senza titolo, senza soldi e senza professione: non aveva né patria né diritti.

Si era cucito dentro la giacca le sue vecche carte e una foto della fidanzata. Gli sembrava più opportuno girare per la Russia con il nuovo nome, che gli era familiare come il proprio. Solo oltre il confine avrebbe ripreso a usare le sue vecchie carte. 

Sul petto Tunda sentiva, solido e rassicurante, il cartoncino su cui era ritratta la sua bella fidanzata. la foto veniva dal fotografo di corte, che forniva ritratti di signore della buona società ai giornali di moda. Anche la signorina Hartmann era apparsa in una serie di "Fidanzate dei nostri eroi", come la fidanzata del valoroso tenente Franz Tunda; il giornale gli era arrivato appena una settimana prima che finisse prigioniero.

Dalla tasca della giacca Tunda poteva estrarre facilmente il ritaglio con la foto, ogni volta che gli veniva voglia di contemplare la fidanzata.

La compiangeva prima ancora di averla guardata. L'amava due volte: come una meta e come una cosa perduta.

(Joseph Roth, Fuga senza fine, Adelphi)

sabato 10 agosto 2013

Era una bella giornata d'agosto, era il 1913


Sull'Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord. 

Le isoterme e le isòtere si comportavano a dovere. La temperatura dell'aria era in rapporto normale con la temperatura media annua, con la temperatura del mese più caldo come con quella del mese più freddo, e con l'oscillazione mensile aperiodica. 

Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi della luna, di Venere, dell'anello di Saturno e molti altri importanti fenomeni si succedevano conforme alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo nell'aria aveva la tensione massima, e l'umidità atmosferica era scarsa.

Insomma, con una frase che quantunque un po' antiquata riassume benissimo i fatti: era una bella giornata d'agosto dell'anno 1913.

(Robert Musil, incipit de L'uomo senza qualità, Einaudi)

sabato 9 febbraio 2013

La rivoluzione che dissipò i suoi poeti

E prima di Maiakovskij toccò a Esenin, il grande Esenin, il poeta visionario e alcolizzato, il marito di Isadora Duncan, altro naufrago degli affetti e degli ideali. S’impiccò ai tubi del riscaldamento della sua camera all’hotel Astoria di San Pietroburgo. Poche ore prima, la notte del 27 dicembre, si era tagliato un polso e aveva scritto una poesia d’addio con il suo stesso sangue.

“Morire in questa vita, non è una novità – aveva scritto – Ma più nuovo non è certamente vivere”. Majakovskij lo aveva corretto: “In questa vita non è difficile morire - Vivere è di gran lunga più difficile”. Però chissà quali riflessioni gli strappò, solo il titolo di quell’ultima poesia: “A presto, amico mio, a presto”. Chissà.

Ti ringrazio, Tito, perché è merito di questo tuo viaggio tra le macerie dell’Unione Sovietica, se ho finalmente riaperto il cassetto dei miei ricordi, restituendo la luce ai miei poeti. Li avevo messi via, come si fa con una crisi adolescenziale di cui stentiamo a non vergognarci. Come l’album di fotografie che si abbandona a prendere la polvere.

Ora posso ritornare a uno dei libri che tra tutti mi hanno più emozionato nella vita. Pensa, un saggettino di poche pagine, uscito in quella collana dell’Einaudi con il quadrato rosso in copertina che negli anni Ottanta andava per la maggiore tra gli intellettuali di sinistra. Testi importanti e spesso anche decisamente pallosi.

Beh, a giudicare dal suo autore, pure questo libretto poteva essere classificato ad alto rischio di noia e indecifrabilità. Si tratta di Roman Jacobson, linguista di origine russa, maestro del pensiero che si definisce formalista e strutturalista – e pensa, Tito, ogni volta che nella cultura sento una parola che si chiude in –ismo, io propendo per la fuga.

Però il titolo è “Una generazione che ha dissipato i suoi poeti” e dentro c’è tutto quello che Majakovskij, ed Esenin, e tutti gli altri, mi hanno dato e poi tolto. C’è la bellezza della rivoluzione e il suo disastro. 

C’è la poesia che ha cantato una nuova epoca per essere poi da quest’ultima divorata, annichilita. La speranza e la disperazione. La vita che fa a pugni con la politica più alta, più generosa di ambizioni, quella che la vita la vorrebbe mutare dalle fondamenta. I versi che non ti possono salvare e che pure ti riscaldano il cuore. Preziosi. Insostituibili.

Non mi piacciono le citazioni troppo lunghe, lo sai, però questo brano di Jakobson te lo voglio trascrivere per intero. Dice esattamente quello che vorrei dirti, Tito, ma lo dice assai meglio di quanto potrei fare io.

In queste parole ci sei tu, e forse ci sono anch’io.

“Ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato. S’è spezzato il legame coi tempi. Abbiamo vissuto troppo del futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto, e per noi non c’è un’attualità autosufficiente: abbiamo perso il senso del presente.
Siamo i testimoni e i compartecipi di grandi cataclismi sociali, scientifici e d’altri ancora. La vita quotidiana è rimasta indietro. Secondo una splendida iperbole del primo Majakovskij, “l’altra gamba corre ancora nella vita accanto”. Sappiamo già che i più intimi pensieri dei nostri padri erano in disaccordo con la loro vita quotidiana. 

Ma i nostri padri avevano ancora dei residui di fede nel suo carattere confortevole e universale.

Neppure il futuro ci appartiene. Tra qualche decennio ci affibbieranno duramente il titolo di “uomini dello scorso millennio”. Quando i cantori sono uccisi e le canzoni trascinate al museo e attaccate con uno spillo al passato, ancora più deserta, derelitta e desolata diventa questa generazione”.

(Da Tito Barbini e Paolo Ciampi, Caduti dal Muro, Vallecchi editore)

mercoledì 6 febbraio 2013

Non dimenticate le mogli dei grandi scrittori russi

C'è Nadezda, l'amata moglie di Osip Mandelstam, che salvò i versi del marito, perseguitato da Stalin e deportato in un gulag, imparandoli a memoria. E c'è Sofia Tolstoi che, rimasta vedova, ebbe il merito di salvare parte del manoscritto di Guerra e pace. Ma non furono soltanto questo, le donne dei grandi della letteratura russa. Senza di loro, senza il loro lavoro nell'ombra, forse non ci sarebbero stati alcuni dei capolavori che oggi riconosciamo come tali. O non ci sarebbero così come noi possiamo leggerli.

Decisamente intrigante il libro per ora uscito solo sull'altra sponda dell'Atlantico - traduzione italiana del titolo: Le mogli: le donne dietro i giganti della letteratura russa - opera di Alexandra Popoff, giornalista e scrittrice russa trapiantata in Canada, assolutamente convinta che tutte le mogli degli scrittori fossero coinvolte nel lavoro creativo del marito tanto quanto lo era la madre.

Come per il grande Nabokov: perché se è vero che sarebbe difficile scrivere della moglie Véra a prescindere dal marito, è decisamente vero anche che sarebbe impossibile scrivere di Vladimir senza fare riferimento a Véra.

E che quello della moglie di scrittori così sia quasi un mestiere, un mestiere difficile e ingrato, in fondo ce lo prova una battuta di Anna Dostoevskij, rimasta anche lei vedova:

Ma chi mai potrei sposare, dopo Dostoevskij? Solo Tolstoi! 

lunedì 12 novembre 2012

Napoleone e la sua partita nell'inverno russo

Non era facile nemmeno capire se quella guerra la stava vincendo o perdendo.

La decisione che ripetutamente dovette prendere fu se fermarsi e dichiararsi vincitore, o continuare ad avanzare fino a che lo zar non si dichiarasse sconfitto. Sapeva che qualsiasi cosa avesse deciso, doveva deciderla in fretta perché l'inverno russo lo aspettava, come una trappola micidiale. 

Intorno a lui aveva solo gente che riteneva una follia andare avanti, e che mai si sarebbe tirata indietro se lui avesse deciso di essere folle.

Mi riesce difficile immaginarmelo nella sua tenda, chino sulla scacchiera. Ma conosco uno dei suoi principi, che ho sempre trovato, nella sua semplicità, geniale: non esistono piani giusti e piani sbagliati e non esistono regole migliori di altre.

Esistono piani che vincono, e quelli stabiliscono le regole che gli altri, ingenuamente, adotteranno come regole giuste.

Applicate alla vita quotidiana, e scoprirete che non aveva affatto torto.

(Alessandro Baricco, Per i russi combattere contro Napoleone era come giocare contro il Barcellona di Guardiola, da Repubblica)

venerdì 21 settembre 2012

I russi ci porto, altro che gli etruschi

 - Signor Gattai, sono Carlo Benelli, presidente dell'Azienda Promozione Turismo. A quanto mi pare di capire, la sua, nel bene e nel male, è un'ottica prettamente imprenditoriale che non rende giustizia del fenomeno termale nel suo complesso. Le terme, oltre che una risorsa economica, sono in primis un antichissimo patrimonio culturale, antico come antichi sono gli insediamenti umani in questa zona. Basti pensare all'uso che delle terme facevano gli etruschi...
 

- Io gli Etruschi me li attacco al cazzo. I russi ci porto, altro che gli Etruschi.
 

E' così che è cominciata.

Originale, curioso, indignato il giusto, a volte divertente, generalmente scritto bene, un po' confuso nella storia e con qualche tassello che sul finire non va al posto giusto, ma tant'è, Come ho perso la guerra (Fandango Libri) di Filippo Bologna, si fa leggere e leggere con piacere.

Storia che arriva dalla Toscana di altri tempi, quando esistevano paesi tagliati fuori da tutto, acque termali senza turisti, fattorie lontani anni luce dall'epoca dell'agriturismo con piscina e massaggi, scodelle di ribollita che si servivano come piatto di contadini, mica come specialità da grand gourmet.

Storia che comincia prima che tutto davvero cominci, con un pezzo di campagna prelevato da un racconto di Fucini e trapianto negli anni della globalizzazione, quando i soldi girano a palate, i russi comprano tutto e la finanza si giustifica con la finanza, mica per come tratta un territorio o un passato.

E poi lo chiamano sviluppo?,domanda che è già un'asserzione, un controcanto, accompagna tutta lo storia raccontata da Bologna. Inventata, ma fino a un certo punto. Inverosimile, ma fino a un certo punto. Forse più digeribile con qualche trovata in meno: ma insomma, si sa, succedono cose dell'altro mondo, ai tempi della globalizzazione. Che ci sia crisi o meno.

sabato 14 luglio 2012

Dalla Russia dello zar il più metodico dei carnefici

Di lui si diceva che era l'erede di Gengis Kahn e che era al comando di un esercito di demoni, che lui stesso era una maledizione, un castigo divino, una resa alle forze del male. Sicuramente era un visionario, un guerriero, un massacratore. Uno di quei personaggi che lasciano dietro di sè una tale serie di rovine che non sembrano veri, piuttosto li diresti presi di peso da un'avventura di Emilio Salgari o da una storia di Hugo Pratt.

E invece no, Roman Nikolas Max von Urgern-Sternberg, davvero buono per un romanzo gotico, è esistito davvero, semmai era un libro su di lui che mancava. Ora c'è, lo ha scritto Vladimir Pozner, è uscito per Adelphi con un titolo che la dice già lunga, Il barone sanguinario.

Figura infernale, quella del barone, che ebbe per palcoscenico le steppe asiatiche negli anni del crollo della Russia degli zar. Il suo esercito dilagò seminando ovunque terrore e distruzione. Non fumava, non beveva, ignorava le donne, il Barone. A suo modo un asceta, un mistico, ma con le mani zuppe di sangue. Non obbediva a nessuno, se non ai suoi imperscrutabili impulsi. Era la Morte in cammino, non un progetto della Storia.


Il più disinteressato degli assassini, il più metodico dei carnefici, così ne parla Pozner. Uno spaventoso cammino di redenzione attraverso l'annientamento di tutto ciò che è vita.

Finì come doveva finire, il Barone. Divorato dalla sua stessa fame di massacro che spingeva la sua soldataglia, sotto le bandiere con teschi e tibie incrociate. Ma perché stendere su di lui un pietoso velo?

Ci sono enigmi che hanno bisogno delle nostre parole. E anche di libri come questo.

sabato 30 giugno 2012

Odessa è molte cose, naturalmente. In primo luogo un nome che evoca un fascino lontano, qualcosa di esotico, direi, se poi non fossimo abituati a localizzare i luoghi dell’esotico in qualche altro angolo del pianeta.


Odessa è un crogiuolo di popoli affacciato sull’immensità asiatica, è la culla di un cosmopolitismo per predilezione, prima ancora che per vocazione, è la memoria della vecchia Russia bianca che guardava all’Europa, con i tè all’aperto e le dame con le crinoline, è il porto da cui salpavano le navi cariche di cereali con i suoi rudi lavoratori, avvezzi alla fatica e alla vodka. Le terme frequentate dall’aristocrazia e il sogno del riscatto sociale.


Isaac Babel, figlio di Odessa, quel sogno se lo fece suo per intero e prima ancora che scrittore fu militante bolscevico. Negli anni eroici della rivoluzione prestò servizio nel controspionaggio, lavorò come traduttore per la Cheka – cioè per la polizia politica istituita da Lenin – e si occupò della requisizione dei viveri. Nel 1920, quando ancora infuriava la guerra civile fu assegnato all’armata a cavallo che provò a esportare la rivoluzione fuori dalla Russia e arrivò fin quasi a Varsavia, per essere poi ricacciata indietro.


Da questa esperienza venne fuori il suo capolavoro, L’armata a cavallo, appunto. Oggi è giustamente considerato uno dei libri imprescindibili del Novecento, ma allora la pubblicazione gli costò cara. C’era troppa verità, nella guerra che raccontava, ovvero troppa brutalità.


Altro che romanticismo rivoluzionario, ideali che volano alto: nelle sue pagine c’erano lo sporco e il sudore, i corpi sbudellati e i rivoli di sangue, la ferocia gratuita e la follia dei comandi.


Si fece molti nemici, il povero Babel, ma dopo fu assai peggio. Arrivò Stalin, arrivo il plumbeo terrore degli anni Trenta. Gli orrori della guerra lasciarono il campo agli orrori di una collettivizzazione di un regime che aveva tradito se stesso.


Babel si distaccò ogni giorno di più dalla vita pubblica e dalla speranza che l’aveva animato negli anni precedenti. Ma questo ritrarsi non bastò a procurargli la quiete. Cominciarono a criticarlo per il suo “estetismo”. E’ un’accusa che oggi potremmo prendere per un complimento e in ogni caso accogliere come un legittimo esercizio di critica letteraria. Ma in Unione Sovietica, in quegli anni, essere bollati come “esteti” non era lieve: entravi di diritto nella poco raccomandabile schiera dei borghesi decadenti e irredimibili.


Nel 1934, al primo congresso dell’Unione degli scrittori sovietici Babel si strappò dalla bocca parole pesanti. Stava diventando il “maestro di un nuovo genere letterario”, proclamò: il “genere del silenzio”.


Poi ci volle poco perché tutto precipitasse.


“Ora verranno a cercarmi”, scrisse dopo la morte di Maksim Gorkij, lo scrittore nelle grazie del regime che finora era riuscito a proteggerlo. E così fu. Babel venne arrestato nella sua casa di campagna, portato alla Lubianka, processato, condannato.


Lo fucilarono agli inizi del 1940, anche se ufficialmente lo si disse morto in un campo di prigionia in Siberia: la vedova ci mise 15 anni per scoprire la verità


Dopo la morte di Stalin venne completamente riabilitato: per quanto potesse significare, a quel punto. Quanto ai suoi manoscritti, sequestrati dalla polizia segreta, non vennero mai più restituiti.


Che cosa c’era tra quelle carte? Qualche altro capolavoro?


Nessuno, temo, ci potrà più rispondere. Però una cosa è sicura: è solo un potere criminale, quello che ruba le vite, e con le vite la bellezza della vita, quella bellezza che emerge anche da una pagina scritta.


E pure questi sono crimini contro l’umanità.

(da Caduti dal Muro, scritto con Tito Barbini, Vallecchi editore)

martedì 18 ottobre 2011

L'esploratrice che rinnovò il passaporto a 99 anni


Ci sono molti buoni motivi per leggere India formato famiglia (Guanda) di Andrea Bocconi, ma uno è senz'altro la possibilità di incontrare su queste pagine alcuni personaggi e alcune storie che fa bene conoscere. Come quella di Alexandra David-Néel, donna straordinaria di cui, lo ammetto, non ho ancora letto il Viaggio di una parigina a Lhasa, il libro che le dette meritata fama.

Alexandra fu una straordinaria viaggiatrice francese, che negli anni Venti del Novecento, travestita da mendicante, riuscì a entrare a Lhasa, allora città proibita. Di lei il presidente della Società geografica affermò che il più grande esploratore francese era in realtà un'esploratrice. Da non credere, considerato i tempi.

Ma il particolare che più mi prende - e che scopro sul libro di Andrea Bocconi - è questo. Con tutto quello che aveva fatto Alexandra non si era stancata di viaggiare. A 99 anni si dette da fare per rinnovare il suo passaporto. Progettava un viaggio con la sua vecchia Citroen, dalla Francia attraverso tutta l'Europa fino alla Russia e di lì, oltre lo stretto di Bering, fino all'America.

Non importa che poi non ce l'abbia fatta. L'importante è questo e solo questo: rinnovare il passaporto a 99 anni. 

mercoledì 13 luglio 2011

L'autunno dei Mille, dopo l'impresa


Ci fu chi salpò per i Mari del Sud, come Nino Bixio, che arrivò fino a Sumatra per arrendersi al colera: i suoi uomini lo seppellirono su una spiagga, il corpo avvolto nel tricolore.

Ci fu chi si tolse la vita, come Raffaele Piccolo, che quando gli tolsero la pensione riconosciuta ai Mille aspettò che la moglie e i cinque figli si addormentassero per conficcarsi un chiodo in testa.

Ci fu chi finì deportato in Siberia, dopo aver combattuto dalla parte dei polacchi, combinando così nella stessa vita i colori della Sicilia e le disrese ghiacciate della grande Russia.

Ci fu chi lasciò la camicia rossa per la tonaca, come il salesiano Fagnano, che da missionario si spinse fino alla Terra dei Fuoco e fu testimone del massacro degli indios

E ci fu chi finì in galera o in manicomio.

Con la storia che si impara a scuola è sempre così, conta la data dell'evento, la battaglia, l'impresa. Poi cala il buio sugli uomini e vai a sapere come andò a finire. Cosa se ne sa dei Mille dopo i Mille? Cosa se ne sa delle mille storie che a un incrocio della Storia divennero i Mille? Cosa successe dopo?

Dice Giorgio Boatti su Tuttolibri, presentando La lunga notte dei Mille di Paolo Brogi (Aliberti editore):

Della primavera dei Mille, anzi dei 1089 che sbarcarono con Garibaldi a Marsala nel maggio 1860, si conosceva tutto o quasi. Prima che Paolo Brogi scrivesse La lunga notte dei Mille, ben poco si sapeva del loro autunno

E ben vengano i libri che gettano uno sguardo oltre, ritessendo il filo delle storie individuali dopo che si è consumato il grande appuntamento con la Storia.

sabato 26 febbraio 2011

Se la scuola diventa inutile

Perché oggi tutti pensano che studiare sia inutile. E' questo il sottotitolo di uno degli articoli più belli che negli ultimi tempi ho letto di Piero Citati, pubblicato qualche giorno fa sul paginone centrale di Repubblica. Ed è scritto proprio così, senza nemmeno l'attenuante di un punto interrogativo.

Ed è così: oggi è sempre più diffusa l'idea che la scuola sia inutile. E che tra le materie più inutili di una scuola inutile ci siano magari la letteratura, o la storia, o la geografia.

Non si tratta del solito legittimo j'accuse contro la riforma Gelmini. Si tratta di qualcosa che sta succedendo anche altrove, e che da noi magari si fa in modo più ipocrita e cialtronesco. Ma che riguarda la Russia - dove forse non si studierà più nemmeno Tolstoi - come l'Inghilterra, dove il governo ha reso facoltativo lo studio delle lingue straniere, come se studiare il francese o il tedesco o l'arabo fosse solo questione di curriculum per un lavoro, e non un grande investimento in cultura, fantasia, intelligenza.

E dunque conclude Citati:


Non sappiamo più leggere, né scrivere, né conoscere le lingue straniere, né comporre un lavoro qualsiasi. Un tempo, l'Occidente era il luogo dell'esperienza e dell'avventura. Oggi siamo diventati quello del niente e del vuoto

Possibile? Anche nel cuore della cara vecchia Europa, con tutta la sua storia, la sua civiltà? Possibile? Attendo smentite. Ho bisogno di smentite.

martedì 8 febbraio 2011

Il paese che vorrebbe liquidare Tolstoi e Cechov

E dunque, dalla Russia di Putin arrivano notizie così.

Pare che anche da quelle parti si stia preparando una bella riforma della scuola. Il governo avrebbe già idee piuttosto chiare.

Delle svariate materie che un tempo erano croce e delizia degli studenti di Mosca o Vladivostock non ce n'è più nemmeno una obbligatoria. Solo a tre - nuove e, diciamocelo, francamente curiose - non si potrà assolutamente rinunciare: l'educazione fisica, la "sicurezza nella vita pratica" e la "Russia nel mondo".

Non chiedetemi dettagli - ho appreso tutto questo da un illuminante articolo di Nicola Lombardozzi sul Venerdì. Ma la cosa che più salta agli occhi è che la letteratura diventa in toto materia opzionale. Capite? Il paese di Tolstoi, Cechov, Gogol....

Pare insomma che su quei banchi di scuola sarà più facile apprendere nozioni sulla cura del corpo, sulle norme antiterrorismo o sulle operazioni di Borsa che annusare qualcosa di Guerra e Pace o dei Fratelli Karamazov.

E sapete? Non è sempre vero che l'erba del vicino è sempre più verde. Questa volta l'italica scuola, per quanto maltrattata, riesce a farci un figurone.

Questo mi sono detto. Prima di pensare che uno come Putin non manca di amici anche in Italia....

mercoledì 21 luglio 2010

Le storie di Odessa, crocevia della Russia

Odessa è molte cose, naturalmente. In primo luogo un nome che evoca un fascino lontano, qualcosa di esotico, direi, se poi non fossimo abituati a localizzare i luoghi dell’esotico in qualche altro angolo del pianeta.


Odessa è un crogiuolo di popoli affacciato sull’immensità asiatica, è la culla di un cosmopolitismo per predilezione, prima ancora che per vocazione, è la memoria della vecchia Russia bianca che guardava all’Europa, con i tè all’aperto e le dame con le crinoline, è il porto da cui salpavano le navi cariche di cereali con i suoi rudi lavoratori, avvezzi alla fatica e alla vodka. Le terme frequentate dall’aristocrazia e il sogno del riscatto sociale.


Isaac Babel, figlio di Odessa, quel sogno se lo fece suo per intero e prima ancora che scrittore fu militante bolscevico. Negli anni eroici della rivoluzione prestò servizio nel controspionaggio, lavorò come traduttore per la Cheka – cioè per la polizia politica istituita da Lenin – e si occupò della requisizione dei viveri. Nel 1920, quando ancora infuriava la guerra civile fu assegnato all’armata a cavallo che provò a esportare la rivoluzione fuori dalla Russia e arrivò fin quasi a Varsavia, per essere poi ricacciata indietro.


Da questa esperienza venne fuori il suo capolavoro, L’armata a cavallo, appunto. Oggi è giustamente considerato uno dei libri imprescindibili del Novecento, ma allora la pubblicazione gli costò cara. C’era troppa verità, nella guerra che raccontava, ovvero troppa brutalità.


Altro che romanticismo rivoluzionario, ideali che volano alto: nelle sue pagine c’erano lo sporco e il sudore, i corpi sbudellati e i rivoli di sangue, la ferocia gratuita e la follia dei comandi.


Si fece molti nemici, il povero Babel, ma dopo fu assai peggio. Arrivò Stalin, arrivo il plumbeo terrore degli anni Trenta. Gli orrori della guerra lasciarono il campo agli orrori di una collettivizzazione di un regime che aveva tradito se stesso.


Babel si distaccò ogni giorno di più dalla vita pubblica e dalla speranza che l’aveva animato negli anni precedenti. Ma questo ritrarsi non bastò a procurargli la quiete. Cominciarono a criticarlo per il suo “estetismo”. E’ un’accusa che oggi potremmo prendere per un complimento e in ogni caso accogliere come un legittimo esercizio di critica letteraria. Ma in Unione Sovietica, in quegli anni, essere bollati come “esteti” non era lieve: entravi di diritto nella poco raccomandabile schiera dei borghesi decadenti e irredimibili.


Nel 1934, al primo congresso dell’Unione degli scrittori sovietici Babel si strappò dalla bocca parole pesanti. Stava diventando il “maestro di un nuovo genere letterario”, proclamò: il “genere del silenzio”.


Poi ci volle poco perché tutto precipitasse.


“Ora verranno a cercarmi”, scrisse dopo la morte di Maksim Gorkij, lo scrittore nelle grazie del regime che finora era riuscito a proteggerlo. E così fu. Babel venne arrestato nella sua casa di campagna, portato alla Lubianka, processato, condannato.


Lo fucilarono agli inizi del 1940, anche se ufficialmente lo si disse morto in un campo di prigionia in Siberia: la vedova ci mise 15 anni per scoprire la verità


Dopo la morte di Stalin venne completamente riabilitato: per quanto potesse significare, a quel punto. Quanto ai suoi manoscritti, sequestrati dalla polizia segreta, non vennero mai più restituiti.


Che cosa c’era tra quelle carte? Qualche altro capolavoro?


Nessuno, temo, ci potrà più rispondere. Però una cosa è sicura: è solo un potere criminale, quello che ruba le vite, e con le vite la bellezza della vita, quella bellezza che emerge anche da una pagina scritta.


E pure questi sono crimini contro l’umanità.

(da Caduti dal Muro, scritto con Tito Barbini, Vallecchi editore)

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...