
«Che cosa è un vero viaggio?» chiese lui.
«Una follia che ci ossessioni, che ci porti nel mito; insomma una deriva, un delirio traversato dalla Storia, dalla geografia, innaffiato di vodka, una sbandata alla maniera di Kerouac, qualcosa che a sera ci lasci senza fiato, in lacrime, in riva a un fosso…».
Beh, queste poche battute sono un bel condensato della personalità di Sylvain Tesson e della sua filosofia di viaggio. L'allergia al buon senso, la fame di emozioni, la riluttanza a programmare, l'attenzione al passato dei luoghi non meno che al presente, la propensione per la bevuta omerica, il sentimento di amicizia....
Beresina. In sidecar con Napoleone, pubblicato da Sellerio, certamente non tradisce queste premesse. E non potrebbe essere altrimenti per un progetto - progetto? - di viaggio che di per sè non è privo di follia. Ripercorrere la ritirata di ciò che rimaneva della Grande Armata di Napoleone a 200 anni dal disastro di Russia - e fin qui ci si può stare. Farlo di inverno, per provare il morso del gelo che fu di quei poveretti è già un'altra cosa. Farlo con un sidecar di fabbricazione sovietica, poi, è proprio cosa da Sylvain Tesson.
Però dentro questo viaggio c'è soprattutto la sua capacità di far parlare i luoghi di ciò che è successo, anche quando di ciò che è successo non rimane testimonianza. Il massacro di Borodino, il tempo sprecato a Mosca, i morti assiderati, le incursioni dei cosacchi, la scia di cadaveri, gli eroismi e le bassezze, la beffa del passaggio della Beresina, colpo di genio in extremis di Napoleone per salvare ciò che poteva ormai essere salvato....c'è tutto in queste pagine, compreso il nonsense di una catastrofe militare subita dopo aver conquistato la capitale del nemico e non aver perso neanche una battaglia.
Ps: quanto alla crociera da mormoni di cui all'inizio, si trattava di una spedizione in veliero tra i fiordi nel mare di Baffin. A ognuno il suo metro di giudizio, ma l'incipit resta sacrosanto: L'idea di fare un viaggio nasce sempre durante il viaggio precedente. L'immaginazione trasporta il viaggatore lontano dal ginepraio in cui è andato a cacciarsi.
- Io gli Etruschi me li attacco al cazzo. I russi ci porto, altro che gli Etruschi.
E' così che è cominciata.
Originale, curioso, indignato il giusto, a volte divertente, generalmente scritto bene, un po' confuso nella storia e con qualche tassello che sul finire non va al posto giusto, ma tant'è, Come ho perso la guerra (Fandango Libri) di Filippo Bologna, si fa leggere e leggere con piacere.
Storia che arriva dalla Toscana di altri tempi, quando esistevano paesi tagliati fuori da tutto, acque termali senza turisti, fattorie lontani anni luce dall'epoca dell'agriturismo con piscina e massaggi, scodelle di ribollita che si servivano come piatto di contadini, mica come specialità da grand gourmet.
Storia che comincia prima che tutto davvero cominci, con un pezzo di campagna prelevato da un racconto di Fucini e trapianto negli anni della globalizzazione, quando i soldi girano a palate, i russi comprano tutto e la finanza si giustifica con la finanza, mica per come tratta un territorio o un passato.
E poi lo chiamano sviluppo?,domanda che è già un'asserzione, un controcanto, accompagna tutta lo storia raccontata da Bologna. Inventata, ma fino a un certo punto. Inverosimile, ma fino a un certo punto. Forse più digeribile con qualche trovata in meno: ma insomma, si sa, succedono cose dell'altro mondo, ai tempi della globalizzazione. Che ci sia crisi o meno.