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martedì 17 marzo 2020

Albert Camus e la peste che ci insegna a essere umani

Da questo momento si può dire che la peste ci riguardò tutti. Finora, nonostante la sorpresa e la preoccupazione suscitata da questi eventi straordinari, ognuno dei nostri concittadini aveva continuato come poteva a dedicarsi alle proprie occupazioni, al proprio posto. E così doveva senz'altro essere in seguito. Ma dopo che furono chiuse le porte, tutti si accorsero, compreso il narratore, di essere sulla stessa barca e di doversene fare una ragione.

Ecco, basterebbe questa frase, solo questa, e avrei già detto molto di quello che c'è davvero bisogno di dire. La peste di Albert Camus (riproposto da Bompiani nella traduzione di Yasmina Malaouah) è uno di quei libri che andrebbero letti sempre, da consigliare anche nelle scuole con la forza di un classico del Novecento. Ma ora, sorattutto ora che l'epidemia non è più una questione cinese, non è nemmeno più qualcosa confinato a Codogno o in qualche altra zona rossa, ora sì che La peste è il libro perfetto da leggere. 

Anche perché più che un libro su un'infezione è un libro sull'umanità alle prese con l'infezione.

La peste che colpisce la città di Orano, che la isola, la affama, la precipita nel dolore e nei lutti, è anche la cartina tornasole di ciò che siamo e di ciò che vogliamo e possiamo essere. E come in una guerra ecco che emerge il meglio e il peggio di tutti, mentre nessuna verità, nessuna convinzione che appartiene ai cieli della religione, della filosofia o della politica pare in grado di aiutarci. 

Albert Camus ci sottrae tutto, ci lascia nudi, inermi di fronte al destino. Ma solo per farci il regalo più bello. Perchè se non c'è davvero niente da capire, c'è sempre un modo per sentirsi uomini anche nei tempi più bui. Uomini che, non potendo essere dei santi e rifiutando di accettare i flagelli, si sforzano tuttavia di essere dei medici. Uomini che non chiudono gli occhi, che non cercano vie di fuga. Che sanno stare insieme nel dolore comune, come su una nave in tempesta.
 

mercoledì 30 ottobre 2013

Se riscrivere un classico non è sacrilegio

Sacrilegio o lavoro sacrosanto perché i classici non smettano di parlarci? Intrigante il dibattito che in queste settimane è stato alimentato da più parti - anche con il servizio di apertura del Venerdì di Repubblica - a proposito della riscrittura dei classici in una lingua più vicina ai nostri tempi, la nostra lingua.
Cosa che diversi editori hanno cominciato a fare, anche con operazioni decisamente ambiziose, basta pensare al Decamerone affidato da Rcs ad Aldo Busi.

Il dilemma non è da poco. Difendere con rigore il testo originale, condannandolo però nei confini della riserva indiana dei pochi specialisti? O permettere che sia liberamente reinterpretato, consegnandolo a una più vasta platea di lettori ma con il rischio di tradirlo?

Ovviamente il dilemma esiste anche perché gli aut-aut in fondo ci piacciono e che pure ci semplificano la vita. Non capisco perché le due cose non possano coesistere, anche nella stessa edizione.

Ma se proprio, sono convinto che anche alle grandi opere debba essere permesso di mettersi in movimento. Di cambiare, come cambia incessantemente la nostra lingua. La penso insomma come Lara Crinò, sul Venerdì:

Dare ai classici nuova vita, nella consapevolezza che un classico, come diceva Calvino, non è solo "il libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire", ma anche quello capace di sopportare trasformazioni, riscritture.

Magari sfuggendo così alla maledizione dei 24 solo 24 lettori. E conquistandone di altri, anche fuori dei recinti dell'obbligo scolastico. 

domenica 18 settembre 2011

Altro che moderni, siamo contemporanei

Cinque righe di Edmondo Berselli, per una riflessione più grande di noi e più amara di quanto vorremmo:

Qualcuno ricorderà un saggio di Roberto K. Merton, intitolato Sulle spalle dei giganti, che chiosava fino alla vertigine l'assunto di Bernardo di Chartres secondo cui i moderni riescono a vedere più lontano, in lungo e in largo, di qua e di là, perché sono comodamente sistemati sulle spalle dei grandi, i classici. Noi invece, altro che moderni, siamo contemporanei: viviamo nei bar, sui treni, in auto, a cena, in salotto. In pratica, sulle spalle dei nani

(da Edmondo Berselli, Il più mancino dei tiri, Biblioteca di Repubblica-Espresso)

sabato 4 giugno 2011

Se è Omero che potrà salvarci

La guerra, per un attimo, era sembrata lontanissima. Molto tempo prima, avevamo bevuto alla stessa sorgente....

Che straordinaria occasione nel bel mezzo del massacro, quel giorno sotto il sole di Creta,  lo sguardo a scendere giù per le rocce fino al mare che era stato lo stesso mare di Odisseo. Il generale nazista e l'uomo che lo ha fatto prigioniero. E in mezzo una manciata di versi che arrivano dal mondo classico e che, per un istante, segnano la possibilità di una tregua.

E' con questo ricordo da Tempo di regali di Patrick Leigh Fermor (Adelphi) che comincia una bellissima pagina su Tuttolibri di Silvia Ronchey, titolo Omero, solo tu ci salverai. Dice, Silvia Ronchey:

L'antico sospende il tempo, l'eterno sconfigge la storia
Il classico, spiega Silvia Ronchey, sconfigge quelle che Braudel chiamava le increspature di superficie, le mode passeggere, gli appetiti più o meno devastanti, gli eventi che sembrano cambiare tutto e che invece svaniscono, lasciando quello che c'era prima.

Per Marguerite Yourcenar amiamo il passato perché è il presente sopravvissuto nella memoria dell'umanità. Per Walter Benjamin un classico è tale e resiste lungo i secoli poiché in qualunque tempo sia stato scritto usa sempre la lingua del presente.

Dice ancora Silvia Ronchey:

I veri classici non fuggono, sfidano e sono sempre pericolosi. Un classico è sempre eversivo, sempre trasgressivo, sempre anticonformista... Non ha quindi senso chiederci se i classici antichi abbiano un futuro. Pe definizione, ci aiutano a scavalcare il presente, le sue effimere ideologie, i suoi dibattiti, gli schemi del nostro pensare. E in questo senso ci avvicinano, più ancora che al passato - a noi in effetti sempre inconoscibile - al futuro. 

Non  so se ne sono completamente convinto, ma anch'io voglio crederci


sabato 11 settembre 2010

Ma voi sapete cos'è un classico?

Quante volte c'è capitato di sentirlo e anche di dirlo: è un classico.  Come dire, su questo autore, su questa opera non si discute. E' un classico: e tanto basti.

Così perentoria, questa affermazione, da impedire qualsiasi ragionamento anche a monte: ma insomma, cosa si intende per classico?

Ecco, io non ho mai ben capito cosa sia un classico, anche se so che ci sono libri che per forza lo sono, che non riesco a non considerare tali, basta la parola per evocarli. Zola, Tolstoi, Dickens, Verga... I promessi sposi, ma anche Delitto e castigo...

Magari chi studia queste cose sa dare risposte fondate. Personalmente mi verrebbe da escludere che la definizione di classico abbia a che vedere automaticamente con la qualità e piuttosto la collegherei alla sua “durata”, alla sua capacità di parlare alle persone al di là delle epoche e delle circostanze. Cosa che tra l'altro aiuta a coltivare qualche legittima perplessità sull'etichetta di classico assegnata disinvoltamente a opere di ieri e dell'altro ieri.

Però non so, davvero.

Mi sa che un tempo era anche più facile capire quali libri potevano essere annoverati tra i classici (e che io abbia qualche idea a proposito dice qualcosa anche sulla mia anagrafe). Anche questo oggi è più complicato, sicuramente più complesso.

Per dire: possibile che i classici siano tutti francesi, o russi, o tedeschi, italiani naturalmente, sporadicamente inglesi o spagnoli?

La geografia della letteratura e quella della storia che vanno a braccetto, come quegli atlanti che ti mostrano due volte lo stesso pezzo di pianeta, il primo con i rilievi montuosi, il secondo con i colori che staccano uno Stato dall'altro.

Ma possibile che non mi venga in mente un classico che viene dalla Cina o dalla Turchia, e nemmeno dai paesi nordici? Possibile che ci debba perlomeno pensare? 

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...