Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone, posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il mondo da lì, mi sembra che sia diverso e non è solo la pedana che mi alza di dieci centimetri.
Sono
a Ferrara lontano però dal Castello, dal Palazzo dei Diamanti, dalle
strade lastricate di giarroni
e dai mattoni ferraresi che nei tramonti d’estate s’incendiano.
No, qui siamo al Foro Boario, casette basse e solo qualche
palazzone all’orizzonte: un bar di periferia, ma diverso da tutti
gli altri perché qui si è fermata la carovana.
Il
bar è del mio prozio che prima di acquistarlo, in un’altra vita,
era un clown, un capo carovana che con il suo piccolo circo ha girato
tutto il mondo. Ho visto cento volte lui e i suoi compagni inciampare
nel bordo della pista mentre mi chiamano nuod,
«nipote, vieni a farti vedere!»
Ma
la magia del tendone, degli animali, degli acrobati si è fermata.
Forse non era neppure stanco, Trento, ma per i suoi figli, Gianni e
la Susy, e per i nipoti voleva qualcosa di stabile, così questo bar
è diventato posto di tappa, come quelli verso Samarcanda, perché
quando un circo passa nei paraggi molte attrazioni vengono a
salutarlo. Hanno un misto d’invidia e di riprovazione negli occhi.
Mi
vuole vicino, vuole che ascolti mentre il bar diventa quello che sono
tutti i bar: un porto delle storie. In decine di lingue o in quella
franca del circo ci si informa su parenti, si rievocano avventure, si
ride e si piange mentre Trento traduce per me, ma non ce n’è
troppo bisogno perché questo è un popolo che gira il mondo da
sempre e non si è mai potuto permettere di non essere capito. Non
hanno calzamaglie, pelli di leone o trucchi di scena – sempre che
non siano arrivati di corsa da uno spettacolo appena finito – ma
quello che sono se lo portano addosso e chiedono a Trento che effetto
faccia stare fermi, l’essere stanziale ed è l’unico momento in
cui lui, fiero come un hidalgo, abbassa gli occhi.
Narrano
come se fossero accanto a un fuoco, a loro agio nei racconti orali
del bar perché hanno lasciato ad altri la parola scritta. Loro sono
solo voce, sembra che le storie abbiamo aspettato quel posto,
quell’ora per manifestarsi di nuovo, così il bar diventa approdo
sperso nelle luci di periferia che perdono consistenza per cedere ai
contorni indistinti dell’acqua o della sabbia.
«Avrai
tempo», mi ripeto ora, aveva ragione e no allo stesso tempo.
Succede. Ho avuto tempo nei bar come in una poesia di Eliot, ho
avuto molti racconti, ma mi sono perso una parte di quelli
accompagnati da una musichetta da circo fantasma sotto il cielo di un
Ferrara periferica che si faceva yurta, stazione di posta di Babele,
però ancora avverto l’eco di applausi spenti e il bisbiglio di mia
madre leggero
come una foglia che si abbatte al suolo.
Io
sto dietro il bar e guardo, si usa ancora la segatura e non i
detergenti per pulire per terra, la stessa che si usava sulla pista
per assorbire il sudore, le paillette e le risate perse, qualche
volta il sangue. Sono quasi sicuro che quando Gianni la passa, un
po’gli manchi il fiato sospeso e l’ooo
di quando saltava, le donne si coprivano gli occhi e gli uomini erano
umiliati dalla sua prestanza fisica. Di certo, me l’ha confessato
lei, a Susy manca l’essere ammirata mentre inguainata in una
calzamaglia saltava in piedi da un cavallo all’altro come se fosse
uscita da un film di cappa e spada.
Ma
è Trento il mio preferito, da sempre. So che è di una razza antica
e lo spiavo nel suo camerino quando si sfilava il naso tondo da clown
e si struccava la bocca grottesca, mi sono sempre chiesto cosa si
possa desiderare di più che far ridere perché è una cosa che ha
del divino, ho imparato dopo che le risate le devi toglierle a te
stesso per darle ad altri, ma questo è un altro discorso.
Di
tanto in tanto lo sento chiamare: «nuod!
Nuod!»
Vuol dire che è arrivato qualcuno del circo e vuole farmelo
conoscere. Mi presenta come quello
che studia
e se mi stringo nelle spalle lui sorride. In fondo è quello che
faccio, mi dice, molto diverso dal reggersi a un trapezio,
ammaestrare animali o fare il clown, e magari a
loro
diverte conoscere qualcuno che fa una cosa normale.
Vedo
mio zio sorridere, è di nuovo capo carovana, giurerei che attorno
alla bocca si è materializzato di nuovo il trucco di scena. Vedo gli
avventori normali a bocca aperta, abbandonare il biliardo, stringere
il bicchiere di lambrusco e avvicinarsi alla compagnia stravagante
restando però in piedi. Vedo mia madre che arriva a
prendermi –
quanto ho sperato che si fosse distratta! - sono ancora troppo
piccolo per fare tardi al bar.
«Avrai tempo, vedrai» mi sussurra
mentre qualcuno mi dedica una smorfia del suo repertorio, un trucco,
un ultimo salto per togliermi dalla faccia quell’espressione delusa
da bambino piccolo.
Chi
l’ha detto? Non lo so, lo so, non voglio dirlo.
Massimiliano Scudeletti
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