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giovedì 19 dicembre 2013

Un futuro per le nostre librerie

Sono librerie come la Belforte di Livorno, dove ero sabato per presentare Il babbo era un ladro e dove appena si entra si respira subito l'orgoglio di uno dei mestieri più belli del mondo - quello del libraio - a dispetto delle tante mortificazioni e dei conti che non tornano mai.

Sono luoghi di cultura coma la Libreria dei Lettori - un nome che dice già molto - aperta solo pochi mesi fa a Firenze, con una scelta per cui non mi basta di parlare di coraggio, perché poi è assolutamente vero quanto i suoi animatori hanno dichiarato in un intervista al Fatto quotidiano:

Sentiamo nell'aria il bisogno di spazi veri per le idee e per il dibattito. E se questo spazio non è la libreria, quale dovrebbe essere?

Sono librerie, non di catena, che in questi anni ho imparato a conoscere e a frequentare, soprattutto a Firenze e in Toscana, ma non solo. L'Orsa Minore a Pisa, Librorcia a Bagni Vignoni, la Forma del Libro a Padova, la Roma a Pontedera, Puntifermi o la Menabò a Firenze... solo le prime che mi vengono in mente, e per fortuna la lista è ancora lunga.

Di alcune di esse magari racconterò qualcosa nelle prossime settimane - qui e nel mio sito -  però ora mi veniva solo da ringraziarle: per quanto stanno facendo, per il fatto di esistere. Mi piace pensare a ognuna di esse come a un presidio di cultura. Non solo posti dove si vende un genere molto particolare di prodotti, ma posti dove si può vivere la cultura, dove si può costruire socialità intorno alla cultura.

Non è retorica: mi sento un po' più ricco solo a indugiare davanti alle loro vetrine, in cui quasi sempre i libri rappresentano una scelta che va ben oltre i "suggerimenti" dei talk-show tv e dei "mi piace" su Facebook.

 Quante librerie indipendenti ci saranno nel futuro? E quali sono le condizioni perché vivano - e perché no, vivano bene, non solo per uno spirito di servizio che oggi non si esige nemmeno da uno statista? Da un po' mi faccio queste domande, che credo non implichino nessuna nostalgia per un vecchio assistenzialismo di Stato. Ma che piuttosto hanno molto a che vedere con le politiche culturali di un paese che si pretenda civile.

Sarebbe bello cominciare a discuterne tutti insieme.






 

mercoledì 24 marzo 2010

Il miracolo della poesia nella Shoah





Auschwitz, ho sentito che sei di moda.
Bella gente di te dice grandi cose.
Presto ti tappezzeranno tutta di fogli di carta,
vi sarà fruscio in te come su neve immacolata,
tutto sarà candido, eccetto i caratteri di stampa,
reggimenti con la mano alzata e il passo cadenzato.

(Meir Wieseltier)

E dunque, questo è un libro straordinario. Straordinario perché sono straordinarie le poesie che raccoglie, figlie di una tragedia che a rigore ammette solo il silenzio, il dolore muto, l'assenza di parola.

La notte tace, antologia di poesia ebraica della Shoah edita da Belforte, editori librai livornesi, non è una lettura facile, piuttosto è lettura che mette a nudo, scava dentro, riapre ferite che non si sono mai cicatrizzate.

Lettura che mescola sorpresa e sofferenza, anche. Lettura che spiazza in ogni caso, perché la memoria della Shoah sembrava potesse essere affidata solo alla testimonianza oppure alla preghiera. Perché c'è una domanda che precede ogni parola, una domanda che sfida il senso stesso di questi versi: come è possibile che la bellezza della poesia possa convivere con l'orrore di Auschwitz?

E' la poesia stessa - e se volete l'uomo nelle sue infinite possibilità, nel male ma anche nel bene - che in queste pagine ci offre la risposta. Scrive Sara Ferrari nell'introduzione: Persino nell'abisso infinito della Shoah l'uomo non abbandonò mai l'arte. Sappiamo che si cantava anche camminando verso la morte e di nascosto si scrivevano appunti, poesie.

E la poesia aiutò a non perdere la ragione, dette conforto, restituì dignità, preservò memoria. Senza addolcire, senza falsificare, perché c'è una poesia che non maschera, non imbelletta.

E può essere ancora di più la poesia, spiega David Meghagi. Può essere atto religioso, parola sacra che si fa azione, che è azione: Prendendo corpo a contatto col dolore più profondo, la parola restituisce all'anima la forza per illuminare il buio e ridare voce alla speranza.

Quando il buioè più fondo, abbiamo bisogno della luce delle parole, per quanto fragile e incerta sia.

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