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giovedì 18 aprile 2019

Le parole di Valerio, luce sull'Italia più buia

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Bomba ananas.
Ti piace l'unione di questi due termini. Ti dà la sensazione di tenere in mano qualcosa di vivo. O qualcosa che è stato vivo. Un ponte tra la vita e la morte. 

Persino una bomba può essere un ponte, ma quanti altri ponti ci sono in questo libro. 

Valerio Aiolli, per quanto mi riguarda, è una persona amica, che spesso incrocio nelle varie librerie, ma soprattutto è uno scrittore che seguo da molti anni. Riesce a farmi abitare i suoi libri fin dalle prime pagine: c'entro con naturalezza, prendo subito confidenza, avverto che in qualche modo la sua storia parla anche a me e di me.

E sì, è un libro di ponti Nero Ananas, uscito per Voland e autorevole candidatura allo Strega 2019. Per esempio tra la Storia che si compiace della esse maiuscola e le storie di chi la Storia la attraversa o ne è attraversato,  di volta in volta osservatore, comprimario, vittima; tra i grandi eventi - e i crimini - che hanno cambiato il nostro paese nella seconda metà del Novecento e ciò che è potuto succedere tra le mura di casa; tra il passato che ci ha segnato sottraendoci l'innocenza, se c'è mai stata, e un presente dove troppe domande senza risposta ancora ristagnano; tra i sogni di un adolescente e le dure lezioni di una realtà che non si piega ai desideri. 

Dentro ci sono quattro anni nella nostra storia, dal 1969 al 1973: una narrazione che prende le mosse dall'attimo dopo la strage che ci ha cambiato, Piazza Fontana, e che si conclude con un'altra bomba a seminare morte, alla questura di Milano. 

Pochi scrittori hanno saputo dominare questa storia, senza ridursi a scrivere romanzi-saggio o romanzi a tesi. Valerio ce l'ha fatta restituendoci qualcosa di vivo, che palpita capitolo dopo capitolo. Oltre gli intrecci tra pezzi dello Stato e trame nere, oltre i morti per strada e la strategia della tensione: perché qui dentro ci sono destini intrecciati, scelte e traiettorie individuali, valanghe di emozioni.

Perfino nello stragista la cui mano qualcuno ha armato c'è una profondità da scandagliare, un retrobottega su cui fare luce. Figurarsi se poi si tratta di raccontare una famiglia come tante. Magari con gli occhi di un ragazzino - pochi sono bravi come Valerio quando fa suo lo sguardo dell'adolescenza - che cresce in quegli anni. 

Come il sottoscritto. Anch'io, credo come Valerio, ero poco più di un bambino nell'estate delle Olimpiadi di Monaco. Trascorrevo le mattine studiando piazzamenti e classifiche sulla Gazzetta dello sport, per prepararmi all'indigestione di gare delle ore successive - persino l'hockey su prato, persino il tiro a segno - su una tv per la prima volta a colori. Le Olimpiadi mi evocavano il più bello dei mondi possibili. Poi arrivò il giorno del massacro e niente fu come prima per il mondo, così come era successo per l'Italia tre anni prima, a piazza Fontana.

Il bambino di Valerio, il bambino che ero io. A proposito di libri che parlano anche a me e di me.





lunedì 17 dicembre 2018

Sorpresa, la felicità è un viaggio in corriera

Insomma, io prendo gli autobus come se andassi al cinema. Compro il biglietto, mi metto comodo e mi gusto il film.

Come saggiamente dice Claudio Visentin nella sua prefazione, nessuno più di Paolo Merlini aveva  credenziali migliori per un libro quale La felicità viaggia in corriera, ultimo gioiellino di Ediciclo. Nessuno, perché trovatela voi un'altra persona innamorata così dei viaggi sui pullman a lunga percorrenza e capace di spremere da essi gioia fino all'ultima goccia. 

Paolo è uno così, una persona che ama studiare orari, incastrare coincidenze, osservare il via vai delle autostazioni, scegliere destinazioni e ancor più spesso farsi scegliere. Mi piacerebbe sapere quanti chilometri ha macinato in questo modo e se in casa custodisce una carta dell'Italia e dell'Europa aggiornata con le puntine da disegno dei vari colori.

Pensare che la corriera fino a non troppo tempo fa sembrava il mezzo dei pendolari e degli sfigati, di coloro insomma che non potevano permettersi altro. Al massimo c'erano i ricordi di qualche gita scolastica o della parrocchia. E poc'altro, se non una certa mitologia che però, per permettersi di essere tale, riguardava un altro continente: l'America solcata dai Greyhound, i pullman del levriero. Roba da Jack Kerouac e compagni.

A Jack, a dire il vero, si rivolge anche Paolo, proprio all'inizio del suo libro. Ma lui non è in Oklahoma, è sulla linea per Cosenza. E il dialogo affiora dal dormiveglia: 

Vedi Jack, io quando viaggio di notte sugli autobus di linea sogno molto perché mi sento libero come un pensiero fugace, come  la fantasia di un adolescente, come un dejà vu.

Questi viaggi appartengono al presente, sono possibilità che ognuno di noi può cogliere, basta consultare un orario, basta affidarsi a quella lentezza che al viaggiatore è essenziale.

E così ecco un altro modo di viaggiare, ecco un'altra Italia, di posti che nemmeno sapremmo collocare su una mappa. Ecco un'altra geografia e con essa anche una possibilità di poesia: nelle infinite strade solcate, anche di notte, dal popolo delle corriere. Chi per necessità, chi per quella strana felicità che, grazie a questo libro, mi sforzerò anch'io di ricercare un po' di più.


giovedì 5 ottobre 2017

Buone scarpe per raccontare l'Italia che c'è già

Non basta denunciare quello che non va, dobbiamo essere capaci di promuovere quello che c'è di buono. Così sono partito, con lo zaino in spalla e un motto in tasca: raccontare il bello per costruire il bello.

Non sono molti i giornalisti che si caricano lo zaino in spalla e partono.  Pochi sono oramai anche quelli che si staccano dal computer in redazione. Jacopo Storni è tra questi pochi: uno che prende e va a vedere. Che incontra e racconta le storie che raccoglie. Il buon cronista si vede dalle scarpe che consuma, si diceva una volta. Lui credo ne abbia consumate diverse paia.

Di giornalisti che prendono e vanno ce ne sarebbe bisogno soprattutto per fare luce sull'Italia che cambia e magari non fa notizia. Succede con molti grandi cambiamenti, perché, come si dice in Oriente, un albero che cade fa più rumore di una foresta che cresce.

Ce ne sarebbe bisogno soprattutto per quanti ancora non riescono a misurarsi con un futuro che è già presente, che è un dato di fatto piuttosto che una paura da esorcizzare: quello di un paese necessariamente multetnico, plurale.

E ha ragione Jacopo, il problema è tutto qui: in quello che si racconta e che è anche giusto continuare a raccontare, sempre che non lasci in ombra il resto, che il cono di luce non resti solo dov'è.

Tradotto per il tema dei temi, l'immigrazione: dici immigrato e pensi ai barconi, ai naufragi, agli schiavi dei campi, ai disperati in giro per le città, alle file in questura. Tutto qui?

L'Italia siamo noi, il titolo del libro di Jacopo (Castelvecchi editore), basta a rovesciare la cosa. Perché c'è un'Italia che è un'Italia di immigrati che si sono inseriti nell'economia e nella scoietà, che lavorano e che fanno lavorare, che addirittura  sono protagonisti di storie di successo.

In questo viaggio per l'Italia di storie così ce ne sono diverse.  Fuad, il primario africano che ha salvato la vita anche a chi non si immaginava che lui potesse mai essere un medico. Liliam, la baby prostituta brasiliana diventata la regina delle torte a Torino.  Jean-Jacques, il prete africano che trascina le folle e il maggiore Pala, eritreo che gira per il mondo al servizio dell'esercito italiano.... Personaggi anche noti, come Thuram, campione di calcio e di vita, oppure Idris, lo stesso di Quelli del calcio...

Pesonaggi, storie, ma soprattutto l'idea di un'altra Italia, di un'Italia che c'è.... raccontata in un libro che non è un saggio, ma un ottimo reportage. Perché ci vogliono anche buone penne, non solo sguardi puliti, per raccontare questa Italia.

lunedì 16 gennaio 2017

L'Italia raccontata in compagnia dei postini

Ci sono le dita di un postino oggi in Italia che si prenderanno cura delle mie parole - così cantava Claudio Lolli - Ci sono dita di un postino oggi nel mondo che ci faranno sentire più vicini del vero.

Sì, così cantava Lolli e con le sue parole disegnava un'Italia dove le lettere erano ancora importanti, le novità arrivavano per posta e c'era attesa, a volte persino trepidazione, per ciò che ogni giorno il postino ci poteva consegnare.

Oggi magari ciò che arriva è solo un verbale di contravvenzione, il bollettino per un pagamento e tanta pubblicità: ma prima delle mail e dei social c'erano le cartoline spedite da mondi lontani, c'erano le parole di amore e di amicizia, c'erano vite che si tenevano vicine grazie alla carta e all'inchiostro. E tutto questo, certo, era possibile grazie al lavoro di uomini che ogni mattina si mettevano in movimento, con qualsiasi tempo e fino all'ultima casa: i postini, che per la posta rappresentavano - e in parte rappresentano ancora - ciò che le maestre sono per le scuole.

Ci sono ancora e ogni giorno ancora passano di strada in strada, con il loro carico di telegrammi, lettere, avvisi. Magari ne abbiano meno percezione, magari non li attendiamo più come un tempo. Però ci sono ed è bello che qualcuno abbia pensato a loro per raccontare l'Italia.

Lo ha fatto Angelo Ferracuti, scrittore che peraltro a lungo ha fatto questo lavoto. Per mesi  ha girato l'Italia dei borghi, dei paesi di campagna e di montagna, solo di tanto in tanto anche delle grandi città: comunque l'Italia dove ancora la posta è importante e dove il postino rimane persona di riferimento, come il parroco, il carabiniere, l'insegnante.

L'ha girata, questa Italia, affidandosi allo sguardo e alle parole dei postini. Persone che consegnano la corrispondenza, ma che non sono solo corrieri, giorno dopo giorno entrano nella nostra vita, condividono qualcosa, si fanno presenza, testimonianza, memoria.

E da tutto questo è venuto fuori Andare camminare lavorare. L'Italia raccontata dai portalettere (Feltrinelli). Un libro bello e originale, per un viaggio nell'Italia che non aspetti. Nell'Italia che, malgrado tutto, c'è ancora. E che è bello pensare che ci sia ancora.

giovedì 8 settembre 2016

Inghilterra, la piccola grande isola di Bill

Mentre me ne stavo lì, mi venne in mente che una delle cose della Gran Bretagna che mi piace veramente, ma proprio sul serio, è questa: è inconoscibile.

E dunque, eccomi di nuovo a godermi un libro di Bill Bryson, nemmeno tre mesi dopo aver viaggiato in Australia sulle sue pagine: di questo passo rischia di diventare una sorta di dipendenza, ma tanto non è come per le bibite gassate o per i gelati, non fa male e se ingrassa è solo per accumulo di intelligenza e buon umore. Mi piacerebbe scrivere libri di viaggio alla maniera di Bill: e lo dico così, con tutta l'umiltà.

Ho appena finito di leggere anche Piccola grande isola. Come il postino che suona sempre due volte, Bill torna a raccontare nel paese a cui 20 anni fa dedicò Notizie da un'isoletta. Nel frattempo il giovine di improbabili speranze che un giorno sbarcò in Inghilterra è diventato autore affermato, ha messo su casa, famiglia e presumibilmente anche diversi chili di troppo. Ma nel frattempo, è evidente, qualcosa è successo anche a questo paese, che pure tra tutti è il più incredibilmente tenace  nel voler rimanere uguale a se stesso.

Bill prova a raccontarcelo in Piccola grande isola (Guanda), seguendo il filo di un viaggio più strampalato degli altri, perché l'idea è questa: prendere una mappa della Gran Bretagna, un righello e una matita; tracciare la più lunga linea retta tra due località; e quindi mettersi in viaggio, seguendo quella linea da sud a nord.

La Bryson Line congiunge Bognor Regis, cittadina sulla manica che ha visto tempi migliori, a Capa Wrath, in Scozia, faro sbattuto dalle onde atlantiche. Ma in mezzo c'è tutto il resto, compreso un numero esorbitante di divagazioni. E con esse storie, incontri, riflessioni, aforismi fulminanti. 

Il tutto sorretto da alcune convinzioni: che quest'isola di nebbia e pioggia che a volte sembra volerci punire con la monotonia sia in realtà il posto con maggiore concentrazione al mondo di cose da vedere (in realtà anche l'Italia non scherzerebbe, ma volete mettere con l'amore britannico anche per il più modesto dei dettagli?); che in fondo sia un paese fondamentalmente saggio (il voto sulla Brexit qualche dubbio me lo ha instillato); e che tuttora registri una sorprendente qualità della vita o comunque una capacità di contentarsi di quello che ha: unico popolo al mondo davvero capace di illuminarsi di fronte a una bevanda calda e a un semplice biscottino. 

Magari sarà anche per il clima, che insegna pazienza e stoicismo. Che dire, meglio lasciare l'ultima parola al vecchio Bill.

  Un britannico che si trovi in un campo minato, e al quale sia saltata in aria una gamba, ma che possa comunque dire “Te l'avevo detta che sarebbe andata a finire così”, è veramente un uomo felice. E questo, in un popolo, mi piace moltissimo. 

mercoledì 27 luglio 2016

I misteri della vita nei giardini di Italia


Non ho parole per descrivere la bellezza del mondo...

Così afferma nell'introduzione del suo nuovo libro Tiziano Fratus, poeta, scrittore, ma soprattutto cercatore di alberi, viaggiatore nei misteri e negli incanti della natura. Più che manifestazione di modestia credo si tratti di consapevolezza delle possibilità comunque limitate della lingua che abbiamo a disposizione, di fronte agli spettacoli della natura e di certi lavori. Ma in ogni caso le parole le usa e le usa bene in L'Italia è un giardino (Laterza), serie di passeggiate in alcuni dei più straordinari luoghi di bellezza della nostra penisola.

Come era prevedibile per un uomo che nei paesaggi cerca le connessioni spirituali e negli alberi dei maestri di vita, è tutt'altro che una semplice guida. Piuttosto un vero libro di viaggio, con suggestioni particolari, come l'indicazione di un brano musicale per ognuno dei luoghi visitati (per esempio la Suite numero 1 per violoncello di Bach per il giardino di Boboli o il Requiem in re minore di Mozart per la reggia di Caserta).

Nulla più delle ore passate a contatto in giardino mi ha avvicinato alla comprensione delle leggi della vita o, dal mio punto di vista, ad accettare il suo mistero, ha scritto Gian Lupo Osti, appassionato di camelie e autore del De senectute in horto.

Fratus ci prende per mano con questa stessa visione. In ciascun luogo che ha raccontato in questo libro, confessa, ha provato a mettere alla prova il bambino che gli si nasconde dentro. Ha mischiato gioie e nozioni, passi e contemplazioni. E come l'adulto ha ritrovato il bambino, così nelle stagioni e nell'età delle piante dei giardini ha scovato gli indizi e forse anche il senso del tempo che tutto consuma.

lunedì 4 luglio 2016

Tutti dormono sulla collina, come a Spoon River

Tutti, tutti dormono sulla collina.

No, non sono le poesie di Edgar Lee Masters e nemmeno li versi di un indimenticabile disco di Fabrizio De Andrè. Sono le parole di un libro che fa paura da quanto è grande e massiccio, pare un mattone, eppure può entrare nei vostri giorni come l'acqua del rubinetto, tenervi compagnia fino a pretendere un posto sul comodino accanto al letto.

Dormono sulla collina di Giacomo di Girolamo (edizioni Il Saggiatore): non fatevi impaurire dalla mole, dalle milleduecento pagine e più. Scivolano via, le pagine, come le vite che provano a fermare per un istante, le vite dopo la morte, le vite dopo che i riflettori si sono spenti.

Centinaia di storie che si incrociano, sulla collina. Centinaia di persone che provano a prendere la parola e a raccontare quello che sono stati, il destino che hanno avuto in sorte. Di loro ciò che rimane è questo, le parole che potrebbero occupare una lapide, una frase o due strappata al silenzio, la manciata di minuti che possono pretendere dalla nostra attenzione.

Eppure c'è tutta la storia di Italia che abbiamo appena dietro di noi, sulla collina. Storia prevalentemente tragica, quando non ridicola. Bombe, trame, esecuzioni. Misteri e vergogne. Una lunga terrificante striscia di sangue e tanti nomi inghiottiti come corpi che spariscono in una tempesta, senza che dopo ne rimanga niente.

Anch'io, quante cose, quante persone, ho dimenticato negli anni. Di quante forse non ho saputo nulla nemmeno ai tempi.  Ritrovo tutto qui, sulla collina.

Opera enciclopedica, si è detto. Non so se sia la definizione più giusta, in fondo è solo il colpo d'occhio che è facile sulla collina, dove tutti finiscono prima o poi, i giusti e gli gli ingiusti, i poeti e gli assassini.

Però davvero, non fatevi spaventare. Questa è la nostra Spoon River. Non c'è conclusione, sulla collina. Non c'è ordine. Tenetevelo accanto, questo libro. Ogni tanto apritelo, a caso. E' da lì che si ricomincia, sempre.


mercoledì 20 aprile 2016

L'Italia che torna alle cascine e alle masserie

Dalle serre della piana di Albenga alle coltivazioni di radicchio rosso di Chioggia, dalle risaie della Lomellina alle ciliegie della Puglia: c'è tutto questo nell'ultimo libro di Giorgio Boatti, che pure non è la solita guida ai buoni prodotti della tavola. E' qualcosa di più, di diverso, che spazia per le nostre campagne, ma guarda dentro la nostra storia; che ci permette di girovagare per l'Italia intera, ma che sa anche di viaggio interiore.

Il titolo dice già tutto: Un paese ben coltivato (Laterza). E che non sia nemmeno un saggio di scienze agrarie ce lo chiarisce definitivamente il sottotitolo: Viaggio nell'Italia che torna alla terra e, forse, a se stessa.

Boatti, certo, ormai è specializzato in viaggi che ci restituiscono una visione diversa dell'Italia. Lo aveva fatto con il suo girovagare per i monasteri della penisola, realtà di silenzio e raccoglimento che resistono malgrado tutto. E ora ecco un'altra Italia rispetto a quella che tante volte è stata raccontata in questi anni, l'Italia delle campagne abbandonate, della cementificazione, del cibo da fast-food.

Tra cascine e masserie, c'è un'Italia diversa che non solo sopravvive, ma che forse disegna l'idea di un futuro diverso: soprattutto quando sono i giovani che alla terra ritornano, con aziende che coniugano radici e innovazione.

Quel forse l'ho scritto e per cautela non lo cancello. Tanto un forse anche Boatti lo adopera, perfino nel sottotitolo. Ma val la pena di giocarsela, questa idea di futuro. Val la pena di raccontarla.

lunedì 11 aprile 2016

Se sono i numeri a condannare il Belpaese


I numeri parlano e raccontano. Così le statistiche ci consegnano la storia di un Paese che, da decenni, arretra e finisce ultimo anche laddove era primo.

Comincia con queste due righe che sanno di sentenza senza appello il nuovo libro del giornalista e scrittore Antonio Galdo, uscito per Einaudi. Verdetto esplicito nello stesso titolo, Ultimi, per non dire del sottotitolo: Così le statistiche condannano l'Italia. E con queste premesse è facile ipotizzare che si tratti di lettura piuttosto sconfortante.

Vero. Però però ogni tanto è salutare non alzare le vele di un viaggio immaginario, non partire sul tappeto volante delle narrazione, ma piuttosto adoperare un libro per tenere gli occhi ben aperti sulla nostra realtà. Fa bene sfatare luoghi comuni e mettere in discussione alibi. Non fosse che è solo così che si può cominciare a disegnare un altro orizzonte.

Com' è possibile che questo nostro paese sia finito come è finito? Galdo qualche risposta prova a darsela e prima di tutto si sforza di fotografare la situazione qual è: mica con l'invettiva e la lamentela, piuttosto con la forza delle cifre.

E' vero, i  numeri parlano, raccontano. A saperli interrogare. E se si riesce a farli parlare può venire fuori anche un bel libro, mica un saggio da esame di statistica. Figurarsi, persino un libro che non è tutto nero, che sa indovinare uno spiraglio, che sa intravedere un domani migliore.

lunedì 7 marzo 2016

Sulle strade del silenzio, di monastero in monastero

Perché girare l'Italia di monastero in monastero, se non sei alle prese con un naufragio esistenziale o non ti trovi nel bel mezzo di una crisi mistica? Perché bussare a quelle porte, in cerca di ospitalità e raccoglimento, se non stai maneggiando l'ipotesi di diventare anche tu monaco?

Eppure è proprio questo che ha fatto per un anno intero Giorgio Boatti, scrittore e giornalista che in altri libri si è occupato della strage di Piazza Fontana, del terremoto di Messina oppure dei professori che ebbero il coraggio e la dignità di sottrarsi al giuramento di fedeltà a Mussolini. Ha girato da un capo all'altro di Italia, mangiando nei refettori, ascoltando le varie liturgie delle ore, smarrendosi con i propri pensieri nei chiostri e negli orti dei monaci.

Poi ha raccontato tutto questo in Sulle strade del silenzio (Laterza), un libro avvincente, che mi ha regalato uno dei più singolari e affascinanti viaggi di cui abbia mai letto. Un viaggio non in altre latitudini, ma in un altro tempo, verrebbe da dire, non fosse che molte di queste esperienze sono ben piantate anche nella nostra epoca. Non fosse che attraverso queste isole di pace e bellezza si snoda, per contrasto, anche il racconto di questa nostra Italia.

Perché la risposta alla domanda iniziale forse sta proprio qui: in quel senso di spaesamento rispetto a un'Italia cambiata in fretta e male; in quel bisogno di ritrovare altri ritmi, altri gesti, altre profondità.

E' questo che ha fatto Boatti, scommettendo sul silenzio, sull'ascolto, sull'interiorità. Al termine del libro non ho nemmeno capito se è credente e di quale tipo. Però ha ragione lui: si può vivere l'esperienza dei monaci anche senza esserlo. Puntando semplicemente alla sottrazione di ciò che non è essenziale per la nostra vita.


mercoledì 3 febbraio 2016

Goethe e lo stupore per le librerie dove ci si incontra

Cercano un libro, lo domandano, lo consultano, lo posano liberamente. Vi trovai riunite una mezza dozzina di persone che quando mi sentirono chiedere le opere del Palladio rivolsero tutta la loro attenzione su di me.

E' Goethe, in una pagina del suo Viaggio in Italia. Racconta la sua esperienza in una libreria italiana - non so quale - che ebbe modo di visitare il 26 settembre 1786 e sono molte le cose che di essa racconta, alcune curiose.

E' un brano che ho incontrato leggendo lo splendido Librerie. Una storia di commercio e passioni di Jorge Carriòn (Garzanti), più che una storia, in realtà, un incredibile e invidiabile viaggio nelle librerie del mondo. Trabocca di citazioni, ma è proprio questa pagina di Goethe che mi porterò dietro.

Il grande tedesco è  stupito: ma come, i libri sono tutti rilegati (allora non era uso) e sono accessibili a tutti i visitatori. Ma soprattutto ci sono i visitatori: si intrattengono in libreria, si rivolgono la parola, conversano abilmente tra loro e tra loro e i libri.

Incredibile: la conoscenza può arrivare non solo attraverso i libri, ma anche attraverso le persone che amano i libri. Perfetti sconosciuti, magari, di cui si è solo incrociato lo sguardo che accarezzava il dorso di un libro.

 Conclude Goethe:

Conversai a lungo con molte altre piacevoli persone e dopo essermi bene informato sulle cose notevoli della città mi congedai.

La libreria come casa, come piazza, come salotto. Da allora sono passati oltre 200 anni. Chi è che può dire lo stesso delle librerie on line?

giovedì 17 settembre 2015

Dalla Libia agli Italia dei soliti intrighi

Diffido sempre dalle trilogie e in genere dai protagonisti di gialli e noir che saltano di romanzo in romanzo, spesso più per la forza dei calcoli editoriali che per autentica ispirazione. E' anche per questo che ci ho pensato parecchio, prima di avventurarmi nella lettura di Alle radici del male di Roberto Costantini (Marsilio), sulle orme del commissario Michele Balistreri.

Così ho messo le mani avanti, giusto per saltare subito alle conclusioni e per dirvi: non sarà un capolavoro, questo, piuttosto un libro che si legge tutto di un fiato. Soprattutto aggiunge qualcosa, non si limita a campare di rendita.

E dunque, non un sequel, ma nemmeno un prequel, anche se dalla Roma degli anni Ottanta facciamo un bel balzo indietro fino alla Libia della fine degli anni Cinquanta, prima della rivoluzione di Gheddafi e dell'espulsione della comunità italiana. Non un prequel, anche se la storia del commissario Balistreri arriva davvero alle radici, al suo passato più torbido e inconfessabile.

Però poi questa storia - e in genere è proprio così che è la vita - non procede in modo lineare - passato, presente, futuro - e non è nemmeno un cerchio che tende a chiudersi. Piuttosto è fatta di  linee spezzate che si incrociano, si confondono, si sovrappongono. Di cerchi che, senza mai chiudersi, si intersecano tra di loro.

E quindi c'è qualcosa, anzi molto, che unisce la Libia di quegli anni all'Italia che abbiamo imparato a conoscere, con i giochi della politica, gli intrecci affaristici, le carriere all'ombra dei potentati. E più di un filo collega passato e presente nella storia di uno dei personaggi più controversi e complicati del noir italiano, quel Balistreri che oltre il confine del male ha abitato a lungo e che forse non ha mai saputo o voluto davvero redimersi.

Così sbagliato che si finisce per ritrovarlo dalla parte della ragione, dopo avergli dato infinite volte torto. Così autentico che non si può non volergli bene.



mercoledì 26 agosto 2015

L'Italia di Paolo Rumiz, sui treni dimenticati

Si stringe il cuore, a vedere come si sono ridotte le ferrovie italiane: mica quei missili sparati nelle gallerie dell'Alta Velocità, ma i treni che un tempo sugli orari erano detti locali, linee secondarie che generazione dopo generazione hanno accompagnato i cambiamenti del nostro paese, tirando su a bordo pendolari e famiglie dirette in villeggiatura. Si stringe il cuore, perché tra tagli, linee cancellate, stazioni abbandonate non è solo un pezzo dell'Italia del passato che se ne va, è anche un pezzo di futuro.

Però no, L'Italia in seconda classe di Paolo Rumiz (Feltrinelli) non è un atto di accusa contro lo stato comatoso, con poche lodevoli eccezioni, dei nostri treni. Magari è anche questo, ma è soprattutto un viaggio, un grande viaggio nato da un'"idea corsara": percorrere con quei treni 7.480 chilometri, la stessa lunghezza della mitica Transiberiana dagli Urali a Vladivostoc
k. Un viaggio in seconda classe, in un'altra Italia, senza fretta e in effetti anche senza una vera meta, se non quella di volta in volta consentita da (mai facili) coincidenze.

Incontri e pensieri lungo i binari. L'Italia che non è mai come vorremmo e l'Italia che riesce ancora a sorprendere per le sue riserve di bellezza e gentilezza, malgrado tutto. Il treno, dice Rumiz, è una grande macchina della verità. Entra nei luoghi sempre dal retrobottega, li svela impietosamente. Più di tanti saggi documentati, più delle inchieste dei giornali.

Che poi non si tratta solo di capire un paese, guardando da un finestrino. Mi viene in mente  Strade blu di Least Heat Moon, straordinario libro di viaggio attraverso un'America percorsa attraverso le strade minori. Allo stesso modo i trenini di Rumiz: un viaggio per capire qualcosa della stessa arte del viaggio e delle sue possibilità.


sabato 24 gennaio 2015

Storia quasi vera di un incontro impossibile con Pasolini

C'è Pier Paolo Pasolini, che oggi tutti dicono di conoscere, ma secondo me è come la Recherche di Proust, non si può non dire di conoscerlo, di sentirne la grande lezione che arriva fino a noi, però.... C'è un romanzo incompiuto, Petrolio, impervio e in odore di scandalo, che è stata la sfida estrema di un autore che già ai tempi era in odore di scomunica. E c'è una Laura Betti abbondantemente sul viale del tramonto, ma anche (legittima) erede spirituale di Pier Paolo, bisbetica, intrattabile, imprevedibile, donna che è nitroglicerina pura e che pure ha ancora la forza di un inspiegabile magnete.... E c'è anche un giovane scrittore che all'inizio degli anni Novanta, nel bel mezzo di quella rivoluzione antropologica dell'Italia che aveva presagito e annunciato il grande Pier Paolo, si trova a lavorare all'archivio di quest'ultimo e nelle grinfie della diversamente grande Laura.

Ecco qui, i quattro soggetti - perché nella lista includo anche Petrolio - che in qualche modo si muovono nelle pagine di Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi, storia quasi vera di un incontro impossibile con Pier Paolo Pasolini, come recita il sottotitolo.

Libro complicato, libro assolutamente non lineare, perché così è la storia di questo mancato incontro. Libro che cresce come una marea bretone e si allarga fino a inondare i nostri anni, con le parole del poeta friulano che risuonano come quelle di una Cassandra, nella desolazione di una letteratura arrivata al capolinea e di intellettuali ridotti al ruolo di intrattenitori o di mascotte, magari a uso e consumo televisivo.

Libro complicato, certo, e nemmeno gradevole (facile che non lo voglia nemmeno essere), libro di cui mi sfugge la felice combinazione che lo ha portato a un passo dall'affermazione allo Strega. Libro da leggere anche solo per pagine come rivelazioni.

Per esempio verso la fine, con un sorprendente viaggio all'antica Eleusi, che è in realtà un viaggio dentro i misteri più profondi e indicibili, della morte e della vita, della creazione, fino all'audace accostamento tra la voce di Pasolini e quella di Eschilo... difficile, lo so, ma che emozione.

lunedì 12 gennaio 2015

Con Fausto e Gino è una storia italiana


Ecco un libro da consigliare anche a chi di ciclismo mastica poco o niente, così come a chi non ne può più della storia degli eterni rivali, Fausto Coppi e Gino Bartali: ma come, un altro libro, non bastavano tutti quelli che anno dopo anno sono già usciti, promettendo rivelazioni o almeno particolari inediti?

E invece sì, è qualcosa di diverso Gino e Fausto. Una storia italiana, romanzo di Franco Quercioli pubblicato da Ediciclo. Diverso perché diverso è lo sguardo, il linguaggio, la voce, anzi, le voci che prendono la parola.

Occhio al sottotitolo: una storia italiana. E attraverso queste due vite intrecciate, raccontate non da uno storico dello sport ma da un narratore di storie, è tutta un'altra Italia che passa sotto gli occhi. Oltre le imprese sportive, oltre l'epopea dei due campioni, oltre la successione dei Tour, dei Giri di Italia, delle grandi classiche sulla strada.

C'è tutta la nostra storia, lì dentro. Quello che eravamo e da cui forse poteva discendere anche un'Italia diversa. Quello che è successo, i fatti, le parole, i sogni.

Con la forza di uno stile che mi riporta ai grandi scrittori di un tempo della mia cara vecchia Toscana, uno stile che è semplicità, esattezza, emozione, Franco Quercioli sospinge verso la cima la bicicletta del mia immaginazione. In alto, magari fino a un traguardo sui Pirenei: dal quale è più facile scorgere il senso di due vite e di un paese intero.

mercoledì 10 settembre 2014

L'Italia dell'altrove, ripresa dai margini

Ma sì, ci sarebbe un'idea quanto mai vaga di tornare a raccontare l'Italia meno italiana. Meno ovvia e meno vista. 

Un esperimento che già feci negli anni Ottanta, quando giravo con le corriere e andavo in posti minuscoli, sconosciuti, dove non va mai nessuno. 

Un'Italia dell'altrove, ripresa dai margini, dai confini. Raccontata in modo quanto più possibile semplice, elementare. Rasoterra.

 Ma ammesso e non concesso che io sia ancora in grado di accollarmi un compito del genere, capisco sempre meno per chi poi si scrivono quelle eventuali pagine. 

Gli editori, sa, si lamentano perché i miei libri non vendono abbastanza. Vorrebbero da me un romanzo ben strutturato, ordinato e pulito, mentre al contrario a me piace sparpagliare le parole, accettare il loro disordine creativo. 

Mi piace partire da una certa vaghezza, o da barbagli di luce, dal sentito dire, per poi concentrami e ascoltare le più diverse voci: interne ed esterne. E recuperare così l'idea della letteratura come pensiero anonimo e collettivo. 

Ma gli editori non vogliono queste cose, per loro sono all'antica. Loro vogliono l'ebook! Si, buonanotte!

(Gianni Celati, da un'intervista a Franco Marcoaldi su Repubblica)

sabato 17 maggio 2014

Cosa ci può insegnare l'Islanda

Non esiste un luogo fisico che incarna il nostro ideale. E per quanto l'ammissione sia dolorosa, è necessario farci i conti fin da subito. In questo lavoro mi sforzerò di non proiettare sulla vicenda islandese i desideri di una società più giusta, di una rivalsa popolare sulle istituzioni finanziarie mondiali; cercherò di essere il più oggettivo possibile, pur senza la pretesa di essere imparziale.

Ecco, così mette le mani avanti Andrea Degl'Innocenti, nelle prime pagine del suo Islanda chiama Italia (Arianna editrice), per mantenere poi la promessa: così che ci sa raccontare una delle storie più straordinarie -e per quanto ci riguarda ignorate - degli ultimi anni, senza fare dell'Islanda una sorta di di Paradiso in terra riscattato dopo il Purgatorio del crack finanziario, o anche soltanto di paese modello, dato che da molto tempo siamo rimasti decisamente a corto di paesi modello.

Non è l'Ultima Thule, l'Islanda, e non è il nemmeno la terra felice di un popolo beato tra i ghiacci, i banchi di pesce e le acque calde dei geyser.  Piuttosto è il paese che non troppo tempo fa è stato occupato da una nuova generazione di Vichinghi, spregiudicata e famelica. Predatori che non sono arrivati da altre isole con i loro drakkar, ma dai territori del Far West della finanza.

In poco tempo hanno saccheggiato un intero paese, primo nel mondo a fare bancarotta. Erano i tempi in cui dell'Islanda si parlava solo per quel vulcano dal nome impossibile che mise in ginocchio il mondo intero. Nel frattempo gli islandesi reagivano con la loro "rivoluzione silenziosa". Mandarono a casa tutti i responsabili del disastro e respinsero con ben due referendum la tentazione di far pagare a tutti i cittadini le malefatte delle banche, più forti anche dei diktat dei poteri forti internazionali. Scrissero una nuova costituzione, con un metodo senza precedenti.

Islanda chiama Italia: solo il titolo, auspicio che faccio mio ma che temo difficile, si sottrae al rigore e alla forza di questo libro, che è molte cose insieme, forse anche più di quanto pronosticasse lo stesso autore: saggio sull'economia dei nostri tempi, reportage, ma anche bel libro di viaggio.




mercoledì 30 aprile 2014

Con Daniel Tarozzi, un viaggio che sa di aria buona

Le persone che ho incontrato vivono, per scelta, in modo completamente diverso, e seppur tra mille difficoltà, con una burocrazia che strangola e con la pura di fallire, hanno una luce negli occhi e una dterminazione nei movimenti che manca a quell'altra Italia: quella rappresentata dai reality show, dai talk show e dai telegiornali. 
 
Provo una certa invidia per Daniel Tarozzi, perché ha saputo trovare quello che in questo tempo di scarse motivazioni e molte delusioni è cosa rara: un'Italia pulita e generosa, un'Italia che non dispera ma si è aperta un varco per il futuro, un'Italia che non si piange addosso, ma prima di tutto prova a fare.

Provo invidia per questo giovane collega che ho avuto modo di conoscere qualche settimana fa, in una serata organizzata dalla Fondazione Baracchi in Casentino, tranne poi dirmi che l'invidia non va bene, che in realtà dovrei provare solo gratitudine. Perché Daniel prima ancora di saper trovare, ha dimostrato di saper cercare. Anche andando contro il senso comune, contro i sentimenti e le visioni che hanno messo radici dentro di noi.

Ha saputo cercare, ha saputo trovare, Daniel. Scommettendo su se stesso e su un camper piuttosto malandato con cui per sette mesi ha girato in lungo e in largo per l'Italia. Alla ricerca di idee, progetti, pratiche. Di persone, soprattutto, in grado di dire qualcosa oltre la rassegnazione.

Ne è venuto fuori questo libro, Io faccio così (Chiarelettere). Un libro a suo modo di viaggio, come indica anche il sottotitolo: Viaggio in camper alla scoperta dell'Italia che cambia. Viaggio necessario, perchè sarà pure l'epoca del web 2.0 e dei social che mettono tutti in rete, ma poi per capire davvero il cambiamento devi partire dai volti, di più, devi cogliere quella luce negli occhi.

Daniel ci riesce benissimo. E ai più depressi tra noi - a quelli dell'"E' l'Italia, bellezza" - io questo libro lo consiglio sul serio. Per leggerlo mica come un saggio. Ma come un libro di viaggio, appunto, capace di regalarci finalmente un po' di aria buona da respirare.

lunedì 25 novembre 2013

Incredibili, 70 anni di censura per Furore

Incredibile, è uno dei grandi romanzi del Novecento e come tale da sempre ne parliamo anche in Italia, direttamente o indirettamente, perché anche se non si è letto c'è sempre quel film straordinario, c'è sempre quella canzone del Boss - The ghost of Tom Joad. Facile che a scuola ce lo abbiamo perfino consigliato, sempre di un Nobel per la letteratura si parla, sempre di un romanzo anzi "del" romanzo sulla Grande Depressione si tratta. Eppure in Italia Furore di John Steinbeck non l'abbiamo ancora mai letto: letto così com'è, così com'è stato scritto.

Non lo avrei mai saputo, non fosse stato per una pagina di Simonetta Fiori di qualche giorno fa su Repubblica, titolo già eloquente: Il vero Furore. Da oggi sarà diverso perché è finalmente disponibile una nuova edizione Bompiani, nel segno della fedeltà al testo originale. Ma la cosa incredibile è che siano passati 70 anni senza averla a disposizione.

Tanti anni sono passati da quando, sotto il fascismo, Mussolini consentì la pubblicazione del capolavoro di Steinbeck. Che arrivò nelle librerie italiane nel gennaio 1940, alla vigilia della guerra. In fondo il libro poteva ancora servire nel contesto della battaglia alle "demoplutocrazie". Poco tempo dopo gli scenari sarebbero radicalmente cambiati.

Ma anche così, con il via libera fascista, Steinbeck andava bene fino a un certo punto, Andava tagliato, modificato, cloroformizzato in diversi passaggi. Quella prima traduzione doveva essere addomesticata. E così fu, nel segno della censura.

Non mi stupisce. Mi stupisce che sia durata 70 anni.

giovedì 29 agosto 2013

Camminando per l'Italia con i grandi della letteratura


Dov'è finita l'Italia dei grandi della nostra letteratura? Quali sono i fili, più o meno sottili, più o meno invisibili, che legano Dante Alighieri,  Boccaccio, Foscolo - ma anche Pascoli, Ungaretti, Pasolini, per arrivare più vicino a noi - alle nostre città, alle nostre terre, alla nostra vita di gente di Italia che vive un'epoca complessa, fatta di poca letteratura e molti scempi?

Sono gli interrogativi che accompagnano la lettura di Peregrin d'amore di Eraldo Affinati, libro denso, libro di molti movimenti da una capo all'altro dell'Italia (e non solo) e di molte letture (ma direi anche di molte esperienze che ruotano attraverso le letture che accompagnano l'insegnamento a scuola). 

Un libro che forse è prima di tutto un cammino che connette epoche, pagine, luoghi, perché ogni viaggio può e deve essere in primo luogo una rivelazione, cioé deve mettere a nudo connessioni che per miopia o arroganza avevamo tralasciato.


E così può capitare di spiegare San Francesco a una giovane prostituta nigeriana, di condividere le avventure di Marco Polo con gli adolescenti afghani, di incontrare a Lampedusa. il paladino Orlando. Questo e molto altro, tra questi quaranta grandi della nostra letteratura, compagni di viaggio che ci sono e non ci possono non essere, perché la letteratura è viaggio che richiama ed esige altri viaggi.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...