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lunedì 8 ottobre 2018

L'odore dell'Adriatico e i quattro gol al Brasile

Semplicemente, esistono stagioni nella vita dell'uomo, e nella vita degli imperi e dei reami, quando la cosa migliore è tirarsi da parte, scomparire in qualche luogo oppure passare a un'assenza totale e ottusa.


Anche l'insolita comitiva che compare all'inizio del libro, in marcia verso una sconosciuta località balcanica, sembra rispondere a questa esigenza. Scomparire per cercare pace, per scansare il peggio. Del resto cosa può fare un padre con un figlio condannato da una malattia senza speranza? Tanto più che il mondo intero sembra barcollare sul ciglio del precipizio, in quel giugno del 1938. 

Forse la risposta, se esiste, si potrà trovare solo puntando al sud: verso il mare e poi verso un improbabile hotel nell'entroterra, mentre a Parigi stanno per cominciare i Mondiali di calcio.

Non conoscevo Miljenko Jergović, scrittore di Sarajevo che verrebbe da definire di culto, malgrado in Italia sia ancora poco conosciuto e finora pressoché introvabile. Meno male che ci ha pensato Bottega Errante, editore friulano bravoa splancarci diverse finestre sulla letteratura balcanica, con un libro, Radio Wilimowski, allo steso tempo intenso e spiazzante.

Wilimowski, anzi, Ernest Wilimowski è una leggenda del calcio polacco, perché a Parigi riuscì a segnare quattro gol al Brasile -e mai nessuno è arrivato a tanto in una gara ufficiale. Polacco, ma anche tedesco: uomo della Slesia, per l'esattezza, prima che i successivi eventi recidano legami e identità, sospingendo per una volta per tutte a un'appartenenza piuttosto che all'altra. 

E chissà che cosa succederà di questo padre - un professore in pensione di Cracovia - chissà quanto tempo ancora resterà da vivere a suo figlio David. 

Nel frattempo c'è questa partita che pare ancora più vera ascoltata alla radio che seguita con la batteria di telecamere di oggio. C'è la magia delle parole dello speaker e c'è la sensazione di un'impresa irripetibile. E dopo, dopo c'è anche la sconfitta, come quasi sempre capita: ma intanto si può ancopra sognare, in questo angolo sperduto di mondo. E respirare gli odori dell'Adriatico, abbandonarsi al vento.  


 

domenica 10 giugno 2018

Kaiser e la grande truffa del calcio

Non parlo tanto spesso di calcio in questo blog - benché sia una delle poche passioni che mi porto dietro, quasi senza vergogna, da quando ero bambino, resistente a tutte le tentazioni e mortificazioni. Non ne parlo spesso, ma questa volta faccio un'eccezione. E non perché a giorni comincia il Mondiale - mi intriga assai poco, Italia o non Italia.

No, mi piace di parlare di questo libro perché c'è il calcio, ma con il calcio, anzi direi grazie al calcio, parla di molte altre cose. Perché è scritto bene, senza sfoggiare la scrittura compiaciuta e sovraccarica che è di molti oggi. Perché fa ragionare su diverse cose, senza presunzione, piuttosto con una divertita leggerezza. O più semplicemente, perché è una storia magnifica. Una storia, perdipiù, che uno sarebbe tentato di catalogare come inventata di sana pianta - complimenti per l'inventiva - se non si sapesse, già dalla quarta di copertina, che si ispira a vicende davvero accadute: a ulteriore dimostrazione che la realtà è più splendidamente fantasiosa di ogni fantasia.

Ma andiamo per ordine. Per dire che Kaiser di Marco Patrone, uscito per Arkadia (casa editrice sarda che ne azzecca davvero di titoli felici), gira intorno alla storia pazzesca di quello che sui campi del calcio era detto davvero Kaiser. No, non era Franz Beckenbauer, il mitico capitano della Germania, ma tale Carlos Henrique Raposo, brasiliano dei tempi in cui sembrava che tutti i brasiliani nascessero per indossare la maglia della nazionale verdeoro. Secondo la storia che è diventata anch'essa a suo modo mito, il più grande truffatore nella storia del calcio.

Uno, insomma, che non era né Socrates né Zico, tantomeno un onesto lavoratore del calcio, anche per gli standard brasiliani. Non aveva i piedi buoni, ma sfoggiava altre doti: sorriso e faccia tosta, prima di tutto. Capacità di vendersi e di vendere ad altri secondo le opportunità, i bisogni, i desideri più o meno confessabili.

Che personaggio, Raposo: si accreditava come calciatore vero, strappava contratti con tutte le squadre più importanti del campionato brasiliano, senza in realtà mai giocare una vera partita. Una carriera di infortuni procurati e spacciati, di breve comparsate, di discorsi negli spogliatoi e ai bordi campo, di giocate, poche, aggiustate da compagni di squadra per vari motivi complici e conniventi.... Erano tempi, certo, in cui non c'era Internet e dal Sudamerica arrivavano suole comprate a caro prezzo, soprattutto dai club italiani che si accontentavano di qualche immagine in cassetta.

Storia incredibile, certo, che ritrovate anche su Wikipedia, ma che nel libro di Marco Patrone cresce e si fa buona letteratura, narrazione intrigante, punto di vista originale. Perché questa è anche una storia della nostra provincia e di un giornalista che fa sua questa vicenda riprendendola dopo tanti anni, vai a sapere perché, forse solo per riscattarsi dalla routine dei giorni di cronista.

Gioco che si fa più complesso, no? Il calciatore che è menzogna e il giornalista che della verità fa il suo mestiere: e tutto torna, alla fine, o forse no. Perché davvero, chi si è fatto male in questa storia?

venerdì 21 agosto 2015

Maurizio Maggiani e le storie che serbano la vita

Vivono nelle parole gli uomini e le donne, vivono nelle storie che di loro si conservano e si tramandano. Ma perché non se ne perda traccia c'è bisogno di persone che se ne facciano carico. E che le scrivano o le accompagnino a un sorso di vino in un'osteria, sono come maghi, che in qualche modo restituiscono ciò che si può restituire della vita.

Uno di loro è Maurizio Maggiani, grande affabulatore, nei cui romanzi non ho mai cercato una trama compiuta, ma semmai una cascata di storie, che sgomitano, si incrociano, si sovrappongono, si tengono insieme. E questo vale più che mai per Meccanica celeste (Feltrinelli), libro a cui sono arrivato dopo una lunga attesa e con qualche diffidenza.

Un libro che è allo stesso tempo facile e impossibile da raccontare. Siamo nelle terre che Maggiani chiama il "distretto", lembo di terra aspra e isolata tra la Toscana e la Liguria, terra di marmo e ribelli, di emigranti e di santi che non sono nemmeno nel calendario. Il narratore mette in cinta la sua compagna la notte dell'elezione di Barack Obama. Nei nove mesi di attesa ci saranno le storie a preparare la vita che arriva. Storie che affiorano dalla memoria e dalla terra. Storie del narratore e del mondo intorno, con i suoi legami di sangue e di affetto. Avanti e indietro nel tempo, dall'antica Roma alle battaglie sulla Linea Gotica fino alla bomba della stazione di Bologna. E quante storie, quanti volti che emergono dalla folla e si fanno sostanza, cuore pulsante, racconto.

La Duse e la Santarellina, l'Otello e l'Omo Nudo, Don Gigliante  e la Marta, fino al soldato venuto dal Brasile, lui che doveva liberare la Grecia e invece si trovò sotto le Apuane. Staffette partigiane e maestre elementari, suonatrici di fisarmoniche e pastori d'anime....

C'è un filo? Forse no, ma che importa. Il filo è la voce che narra. Il filo è noi che ascoltiamo. Il filo sono i racconti che ci salvano.



giovedì 13 novembre 2014

Una notte senza sonno, la guerra alle porte

Più breve è ora il sonno del mondo, più lunghe le notti e più lunghi i giorni.

Comincia così il primo dei tre racconti di Stefan Zweig che Skira raccoglie in un piccolo prezioso volumetto - intitolato appunto Il mondo senza sonno - che consiglio di cuore a tutti coloro che, particolarmente in questi mesi, si interrogano sulla Grande Guerra e sulle ferite che le tragedie della Storia lasciano sulle persone che a esse sopravvivono.

Che poi è il tema su cui mi sembra giri per intero la scrittura di Zweig, con la sua voce inquieta, evocativa, spoglia di ogni retorica. Si tratti de Il mondo di ieri, un titolo che dice già molto sulle amputazioni prodotte dall'ecatombe mondiale, così come della meravigliosa Novella degli scacchi, dove tutto - l'odio e la follia, la tragedi
a che si è consumata e la tragedia incombente - pare concentrarsi sulle sessantaquattro caselle bianche e nere di una scacchiera.

Zweig, lo scrittore che un giorno fuggirà dalla Germania delle leggi razziali ma che anche in Brasile sentirà l'orrore del mondo impazzito. Tanto che un giorno del 1942 metterà fine alla sua vita.

Sono da leggere questi racconti che invece ci portano dalle parti del primo conflitto mondiale, l'avvio del secolo breve della lunga guerra. Da leggere soffermandosi proprio su queste prime righe, sul sonno che non arriva in una notte d'estate, afosa, inquieta; su una notte della prima estate di guerra, quando ancora sono più i "si dice" che le certezze; su questo tempo dilatato, appesantito dai sogni, dalle premonizioni, dalle attese, complicato dai grovigli di un destino che forse altrove si sta decidendo. 

mercoledì 15 maggio 2013

In Brasile, tra futuro e nazismo

Laddove, in questi nostri tempi difficili, scorgiamo una speranza per un futuro migliore in zone semi-sconosciute, è nostro dovere additarle, indicandone le possibilità. E' per questo motivo che ho scritto questo libro.

In questo modo Stefan Zweig, l'autore della Novella degli scacchi e di altri splendidi libri, presentava il suo ultimo libro, così impastato, fin da queste parole, dal senso della fuga e dalla speranza di una nuova vita in un accogliente altrove.

E già questo fa pensare. Stefan Zweig è tra gli scrittori che più di tutti sembrano legati alla cara vecchia Europa sul ciglio della catastrofe. Anzi a quel sogno incastonato dentro un continente, che fu la Mitteleuropa. Un mondo forse già finito con la Grande Guerra ma che poi il nazismo annichilì con la sua barbarie.

Per Stefan Zweig, ebreo di Vienna, rimase appunto solo la possibilità della fuga, l'ipotesi di una nuova vita. Per esempio in Brasile, terra tutto sommato ancora semisconosciuta dagli europei, dove forse avrebbe potuto reinventarsi.

Speranza che vibra ancora nel titolo di un libro che ora la casa editrice Eliot ripropone al lettore italiano: Brasile, terra del futuro.

E in effetti terra del futuro il Brasile lo è stata per tanti. Non per Stefan Zweig, però. Uomo che apparteneva al passato, uomo che così aveva scritto in Il mondo di ieri, titolo quanto mai eloquente.

 Inerme e impotente, dovetti essere testimone della inconcepibile ricaduta dell'umanità in una barbarie che si riteneva da tempo obliata e che risorgeva invece col suo potente e programmatico dogma dell'anti-umanità.

In Brasile, il 23 febbraio 1942, si suicidò, insieme alla sua giovane moglie. 

mercoledì 3 ottobre 2012

Se un bambino scrive dei suoi eroi

Dalla Spagna dove nell'estate 1982 la nazionale azzurra mise in riga Argentina, Brasile e Germania conquistando la Coppa del Mondo all'Italia devastata dalla occupazione nazifascista. Dal Piemonte dei vigneti e delle colline all'Unione Sovietica di Breznev, quando il comunismo ancora era un'idea e una speranza per qualcuno.

Quante cose, in La stilografica di Piazza del Cavallo di Alberto Guasco (Mauro Pagliai editore), che unisce mondi e anni che sembrano appartenere a pianeti diversi, non fosse che a unirli c'è proprio la parola, anzi, le parole di un bambino di sei anni, a cui la maestra, come tema per le vacanze, ha chiesto di raccontare un eroe.

E chi sono gli eroi, per un bambino, magari per un bambino cresciuto, che molti anni più tardi si trova ancora a scrivere quel tema? Forse anche Paolo Rossi, con i suoi gol da leggenda. O forse il nonno, militare e partigiano durante la seconda guerra mondiale. O forse il padre, che appunto, da neolaureato, fu catapultato in Unione Sovietica.

La parola come ponte. Il filo della memoria. E per fermare l'una e l'altra qualcosa che rimane e passa di generazione in generazione: quella stilografica con l'inchiostro verde che il nonno, durante la guerra, adoperò per scrivere le sue lettere d'amore.

Può passare inosservata, una stilografica. Può perfino essere persa. Ma che bello che ci sia ancora.

E qualcosa del genere vale anche per questo libro, per questa voce originale che è bene non passi inosservata.




Nell'estate del 1982, nei giorni del trionfo azzurro ai mondiali di Spagna, un bambino di prima elementare si trova a fare i conti con il tema assegnato per le vacanze: deve cercare, tra i propri familiari, un "eroe" di cui raccontare le avventure. Ascolterà i racconti del nonno, militare e partigiano durante la seconda guerra mondiale, e quelli del padre, neolaureato catapultato nell'Unione Sovietica di Breznev alla fine degli anni Sessanta. Il risultato è un racconto in forma circolare sul filo della memoria: una lunga lettera, piena di ricordi e pervasa da una sottile ironia, che il protagonista consegnerà alla maestra delle elementari soltanto trent'anni dopo.

martedì 10 aprile 2012

Lo scrittore che si uccise inseguendo Amerigo Vespucci

Rassegniamoci a constatare: il Vespucci era soltanto un uomo mediocre... Nondimeno l'America non deve vergognarsi del suo nome di battesimo. E' il nome di un uomo onesto.

Così scriveva di Amerigo Vespucci uno dei grandi scrittori del Novecento, Stefan Zweig, nel suo Amerigo (ristampato ora da Elliott). Scriveva così e ci restituiva per intero la straordinaria vicenda del mercante di Firenze che diede il nome  quel Nuovo Mondo che secondo logica avrebbe dovuto chiamarsi Cristoforia o Colombia.

Straordinaria vicenda, che ci dimostra che per scoprire non basta tracciare nuove rotte e toccare nuove terre, bisogna maturare nuove consapevolezze. Scoprire, anzi, significa dare nuovi nomi.

Però che storia anche quella di Stefan Zweig, che proprio a Amerigo volle dedicare l'ultimo suo libro, nel 1942, uomo (ed ebreo) in fuga dall'Europa in fiamme e dalle persecuzioni. In Brasile, dove aveva trovato rifugio, finì di raccontare il suo Amerigo e poi si uccise con il sonnifero.

Pare che fosse una bella giornata di sole. La data - il 22 febbraio - era la stessa della morte di Amerigo Vespucci, secoli prima. Vietato credere alle coincidenze. Come se quell'uomo mediocre, quell'uomo onesto gli fosse entrato dentro invitandolo all'ultimo viaggio.



giovedì 2 febbraio 2012

L'aeroporto di Schipol, un tratto al di là del mondo


La mattina dopo all'aeroporto di Schipol regnava un'atmosfera così meravigliosamente ovattata da farti credere d'essere già per un tratto al di là del mondo terreno.

A passi lenti, come sotto l'influsso di sedativi o come si stessero muovendo in un tempo dilatato, i viaggiatori vagavano per le diverse sale o si dirigevano, fermi sulle scale mobili, verso le loro destinazioni ai piani alti o nei sotterranei. 

Sul treno che mi aveva portato lì da Amsterdam, sfogliando il libro sui Tristi Tropici, mi ero imbattuto in una descrizione dei Campos Elyseos, una strada di San Paolo, dove chalet e castelli di legno, che un tempo dei riccastri avevano fatto costruire e dipingere a colori vivaci in una sorta di stile svizzero di pura fantasia - così ricorda Lévi-Strauss gli anni trascorsi in Brasile -, cadevano a poco a poco in rovina mentre attorno i giardini erano invasi da alberi di eucalipto e mango.

Forse è per questo che quel mattino l'aeroporto, attraversato da un tenue brusio, mi era parso l'anticamera del paese ignoto dal quale nessun viaggiatore fa ritorno.

                                         (W.G. Sebald, Gli anelli di Saturno, Adelphi)

giovedì 2 giugno 2011

Incontrando Giuseppe Garibaldi, morto il 2 giugno

(da Paolo Ciampi, Miss Uragano, Romano editore)

Garibaldi è una leggenda che mette in movimento le fantasie e riscalda i cuori di molti. Lo puoi seguire senza tentennamenti perché è più di noi e allo stesso tempo uno di noi: uno senza ricchezze e senza quarti di nobiltà; uno che dimostra che tutto è davvero possibile.

Ripercorri la sua storia e scopri un’adolescenza trascorsa tra il porto di Nizza e i primi imbarchi come mozzo. Settimane, mesi interi, a spazzare i ponti, pelare patate, rammendare reti, a dividere con altri ragazzi le fatiche e le avventure del mare.

Garibaldi è il marinaio che uno strano destino e un bisogno di giustizia consegnano a una causa; il giovane che brama di iniziarsi ai misteri del Risorgimento, che cerca ovunque libri sulla libertà italiana e individui consacrati ad essa; il giramondo che incrocia sognatori francesi, carbonari in esilio, e un giorno, in un porto sperduto del Mar Nero, il credente ligure che gli svela il programma di Mazzini e della Giovine Italia.

È il cospiratore che nel 1833, nei sobborghi di Marsiglia, viene presentato proprio a Mazzini e senza esitazioni si mette al suo servizio, per rimediare già l’anno dopo, conseguenza di un piano appena abbozzato e subito fallito, una condanna a morte in contumacia.

È l’esule che abbandona la sua terra per ben tredici anni, che si trascina per il mondo e tenta di tutto, fa di tutto: il marinaio al servizio del bey di Tunisi e il volontario in un ospedale di Marsiglia durante un’epidemia di colera, il viaggiatore di commercio e l’insegnante di storia e matematica, il corsaro e il soldato. Un po’ Byron e un po’ Robin Hood.

È l’avventuriero idealista che approda in Sudamerica e lì comincia a scrivere la straordinaria epopea del Generale. Il Rio Grande do Sul e i tre anni di combattimento contro il Brasile, le scaramucce nei pantani e la carne arrostita all’aperto, i corpi dilaniati dai cannoni e i canti con i compagni, l’impresa pazzesca sul fiume Paranà e le trame dei politicanti di sempre.

E poi la Repubblica di Montevideo, l’Uruguay difeso dalle mire della più potente Argentina, i combattimenti a fianco degli umili, degli schiavi neri, dei farrapos, cioè dei pezzenti. Lo sguardo che insegue i gauchos a cavallo, la loro libertà nella pampa senza confini assaporata e invidiata. E quel giorno che da un qualche magazzino di Buenos Aires spuntano gli indumenti destinati ai macellai: le prime camice rosse.

È il rivoluzionario che nel Quarantotto scorge la possibilità di combattere al servizio della sua Italia, finalmente, e non se la lascia scappare, l’afferra e se la tiene stretta. Non confidate che in voi. Chi vuole vincere, vince, non si stanca di ripetere ai suoi uomini. E in questo modo scrive altri capitoli della leggenda: la guerra in Lombardia e soprattutto la strenua difesa della Repubblica Romana, con il coraggio e la determinazione che tutti gli riconosceranno.

È l’uomo che si dimostra più forte degli eventi che precipitano.

Guardatelo il giorno che lacero e sfinito arriva in Campidoglio; tutta l’assemblea della Repubblica in piedi per omaggiarlo e lui ad ammettere, prima di tutto a se stesso, quello che né il suo cuore né le sue orecchie avrebbero mai voluto ascoltare, cioè che difendere Roma è ormai impossibile: perché poi è maledettamente vero quanto afferma Mazzini, le monarchie capitolano, le repubbliche muoiono.

Però poi andategli dietro subito dopo la resa, in piazza San Pietro, quando si rivolge ai suoi volontari perché non lo abbandonino. Non offro né paga, né quartieri, né provvigioni. Vi offro solo fame, sete, marce forzate, battaglie e morte. Sembrano le parole di Churchill del maggio 1940: e lo statista inglese, si sa, su Garibaldi avrebbe voluto perfino scrivere una biografia. In quattromila lo seguono, per combattere sugli Appennini.

E così è il ribelle braccato che si destreggia tra cinque eserciti che gli danno la caccia. Bivacchi e spostamenti notturni. La piccola armata che si dissolve. La morte per stenti di Anita, la moglie sudamericana che lo aveva voluto seguire in questa scorribanda per l’Italia, in questa causa persa in partenza, cavalcando a suo fianco, lei già incinta di cinque mesi, gli splendidi capelli neri tagliati e una divisa da ufficiale indosso.

E poi l’incredibile fuga resa possibile solo dall’aiuto disinteressato dei più umili: contadini, mugnai, barcaioli, poveri pescatori, artigiani che non lo tradiscono, nonostante i rischi, la taglia sul suo capo, le bande di soldati croati sguinzagliate dietro l’infamo Caripalda. L’addio alla madre, che non rivedrà più, e poi altri anni di esilio, tra New York e il Perù, tra Panama e Hong Kong, lontano persino dai bambini che ha avuto con Anita.

Ora, dopo tanto vagabondare, dopo oltre quattro anni e mezzo di assenza, Garibaldi è ritornato nella sua Nizza.

Ed è questo l’uomo, è questo il mito, che Jessie sta per incontrare.

domenica 9 gennaio 2011

Quando un musicista è alle prese con l'ungherese

Sfuggente, spiazzante, allergico a ogni classificazione, perchè come fai a classificarlo un libro così?

Dentro Budapest di Chico Buarque ci sono molte cose, tutte piuttosto inconsuete, perchè la storia raccontata non è solo la storia di una crisi di identità che si consuma in un'altalena esistenziale tra due mondi completamente diversi perfino nei nostri tempi globalizzati, Rio de Janeiro e Budapest. O perché, se volete, la crisi di identità non gira intorno alla metafisica dell'esistenza, come di solito accade, ma si interroga sulla lingua, anzi, sulle lingue, sulle lingue che ci affidano e a volte ci sottraggono anche la nostra identità.

E allora qui c'è la storia di un'ossessione linguistica - per una delle lingue più impossibili, poi, il magiaro - e c'è anche la storia di un ghost writer - cioè di uno che presta la sua parola e la sua creatività - e la storia del suo rapporto con i libri e con i loro sedicenti autori...

Forse con qualche caduta nel ritmo della narrazione, ma originale e affascinante come ci si può aspettare da un grande della musica brasiliana come Chico Buarque.

venerdì 11 giugno 2010

Al Maracanà, dalla parte degli sconfitti


C'è quel pallone beffardo, un tiro sbagliato che va dove non deve andare, anzi, che non è nemmeno un tiro, così fiacco, sbilenco, inoffensivo. C'è quel portiere che si gira e lo vede troppo tardi, quel pallone, quando ormai ha superato la linea di porta per regalare il più sorprendente e il più inatteso dei gol. E ci sono molte vite che cambiano, con quel tiro finito proditoriamente in rete e che condanna il Brasile alla più cocente delle sconfitte, la sconfitta con l'Uruguay ai Mondiali del 1950, davanti ai duecentomila del Maracanà.

Cambia soprattutto una vita, che Darwin Pastorin ci racconta in L'ultima parata di Moacyr Barbosa, un libro inaspettatamente poetico, dolce come il ricordo delle figurine Panini e dolente come può esserlo un'ingiustizia che affonda la lama nei sentimenti.

Moacyr Barbosa (a lato nella foto), e chi lo ricorda oggi in Italia? In Brasile ancora oggi è l'uomo della sconfitta, il disgraziato che si distrasse e rese possibile l'impossibile, ovvero che il Brasile - quel Brasile - potesse perdere una partita che non aveva storia. Figurarsi era anche nero, in un ruolo che finora aveva visto in nazionale solo bianchi. E se fino al giorno prima Moacyr era stato accolto anche nei ristoranti più esclusivi - la pelle contava meno - figurarsi dopo.

E avanti così, fino alla morte, senza un gesto di indulgenza, senza nemmeno il soccorso dell'oblio. Per un solo, misero gol.

Ci voleva un poeta del giornalismo sportivo come Darwin Pastorin, per me un Guido Gozzano applicato alle care vecchie cose del calcio, per pagine come un atto di riparazione. E diciamolo: Moacyr Barbosa, il portiere messo in croce e dannato in eterno, è stato anche il più grande portiere mai avuto dal Brasile.

C'è spazio per un'altra straordinaria figura in questo libro, di cui hanno parlato anche Eduardo Galeano e diversi altri scrittori. L'uomo che quel giorno portò alla vittoria il suo Uruguay, il capitano Obdulio Valera. Che personaggio... Quando la sua squadra entrò nella bolgia dello stadio disse ai suoi, che tremavano come un gregge, di non alzare nemmeno lo sguardo, come se il pubblico non esistesse. Lottò, imprecò, strattonò i suoi, li prese per mano e li spinse avanti.

La sera, quando tutto era finito, si stancò dello champagne, lasciò l'albergo e i festeggiamenti, iniziò a girare per le strade di Rio de Janeiro, metropoli di un paese dove in parecchi infartarono per la sconfitta o si tolsero persino la vita (non mi sembra vero, ma ho letto che fu addirittura proclamato il lutto nazionale). Si dice che entrò in un bar e cominciò a bere con i tifosi brasiliani. Che abbia passato la notte con gli sconfitti.

Storie di calcio, storie di umanità che fanno bene in questi giorni di Mondiali. Cultura del rispetto. Rispetto prima di tutto per gli sconfitti.

E' un bel libro, quello di Darwin Pastorin, un libro che dimostra che alla fine non conta cosa si scrive - può essere bello parlare anche di un gol fortuito di 60 anni - ma come, con quale cuore.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...