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sabato 20 giugno 2020

Jack London e il mondo dopo il virus

Chi avrebbe pensato, una volta, che sarei vissuto abbastanza a lungo da vedere un tempo in cui sarebbe stato un pericolo per la vita circolare nel territorio della stazione balneare di Cliff-House?

 2073: è questo l'anno - lo stesso de L'ultimo uomo di Mary Shelley - in cui si colloca la vicenda de La peste scarlatta di Jack London. Siamo in California, che non è più la California che abbiamo negli occhi e nella testa, così come il mondo non è più quella di una volta. Una terribile epidemia ha cancellato la nostra civiltà, lasciando pochi superstiti ridotti a uno stato primitivo.

2013: nel racconto di Jack London è l'anno in cui la malattia distrugge ciò che siamo stati, come un colpo di cimosa sulla lavagna. Ciò che rimane è il racconto dell'ultimo sopravvissuto ai suoi nipoti. Tra vuoti di memoria e parole di cui ormai si è perso l'uso sembra il vaneggiamento di un anziano.

1912:  è l'anno di pubblicazione di questo impressionante racconto lungo. Jack London ha 35 anni e poca vita davanti a sè. Morirà nel 1916, tradito dal fisico e dagli abusi. Non farà in tempo a vedere la grande peste del Novecento, la febbre spagnola che dal 1918 mieterà in tutto il mondo milioni di vittime. 

Quasi profetico, il grande Jack. E comunque sia La peste scarlatta, riproposto da Tarka edizioni, è un gran bel racconto che non richiama solo gli scenari da Day After. Non meno rilevante, a mio parere, è il tema della memoria che non si trasmette, della testimonianza che fa fatica a essere creduta. Tema che, per inciso, vale anche per diversi crimini di massa della nostra epoca.

Però, certo, è impossibile leggere questo libro senza pensare a ciò che in questi mesi è successo e succede al nostro pianeta. Impressionanti alcuni riferimenti, per esempio sui ritardi con cui viene data notizia dell'epidemia - Voglio dire che era stato impedito che al resto del mondo arrivasse parola che Londra aveva la peste - oppure sulla solitudine che accompagna l'agonia dei contagiati - Spedivamo le persone colpite in quelle stanze segretate. Li costringevamo a andarci da sole, in modo da evitare di toccarli. Era una cosa straziante

Così London entra a pieno titolo nella biblioteca della peste, assieme ai grandi quali Tucidide, Manzoni, Camus (su questo leggete la bella prefazione di Virginio Sala). E complimenti a Tarka, che dopo Il viaggio intorno alla mia camera di Xavier de Maistre ci ha regalato un altro libro perfetto per i nostri giorni al tempo del coronavirus.  

domenica 23 dicembre 2012

Rembrandt, l'artista che restituì vita al figlio

Le mani di un pittore sono la chiave della vita: con il segno di un pennello, con l'impasto dei colori, con una sola traccia veloce possono far nascere dal nulla un intero universo. Fin da giovane Rembrandt ha provato lo sgomento e il brivido di questo potere divino, ha intuito la straordinaria energia e la terribile responsabilità del suo talento.

Cosa sono le mani per Rembrandt se non uno strumento della creazione, il dono che permette di porgere altri doni attraverso il lavoro dei pennelli e dei colori? Quante volte, grazie alle mani, si è sentito davvero pieno di una potenza che non è degli uomini, o forse sì, perché evidentemente è degli uomini creare bellezza, spargere bellezza per il mondo, solo che appartiene a momenti così rari che sembrano il frutto di una grazia piuttosto che della capacità.

Rembrandt, il figlio del mugnaio di Leida, l'eretico della pittura, il grandissimo a cui non è bastata l'arte, se è vero che in molti gli hanno voltato le spalle, che è fallito e ha perso la casa, che le malattie gli hanno falciato un affetto dopo l'altro, non solo Saskia, ma anche Tito, il figlio che è un pensiero costante, il bambino ritratto in tanti quadri, ogni quadro un prodigioso atto di amore.

Non basta l'arte, ma l'arte è comunque speranza e consolazione, è l'orizzonte cui guardare, ostinatamente, è la nave che scioglie gli ormeggi dopo la tempesta. Non basta alla vita, ma è la vita che può andare oltre.

Emerge tutto questo in Lo specchio infranto di Stefano Zuffi (Longanesi), il libro che racconta gli ultimi anni di Rembrandt, la sua storia di perdite e sofferenza nell'Olanda del Secolo d'Oro che è anche l'Olanda delle terribili epidemie di peste.

Fermatevi soprattutto sul rapporto con il figlio e sulla sua sfida più temeraria che un artista possa concepire: adoperare le forme, i colori, la luce per restituire vita alla persona amata che non c'è più. Quante cose ci sarebbero da dire, anche se le domande più importanti restano senza risposta.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...