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giovedì 14 maggio 2020

I Balcani sono le sue storie

Già, dove iniziano e dove finiscono i Balcani? Comprendono anche la Turchia europea? E che dire di Trieste? 

Potremmo cominciare e non smettere più con domande così, mescolando geografia e storia, rovesciando le complicazioni dell'una sull'altra e viceversa. Sì, non smettere più se non per stanchezza. Per rimanere con un pugno di mosche. 

I Balcani, figurarsi. Tutti più o meno sappiamo ritrovarli su una carta geografica, tranne poi confondersi o lasciarsi sorprendere. Per dire, il sottoscritto ha sempre fatto fatica a rammentarsi che per questa terra non esiste solo su un mare, che dall'altra parte ce n'è un altro non meno intrigante e difficile, anzi. L'Adriatico ma anche il Mar Nero.

Questo per quanto mi riguarda. E sempre per quanto mi riguarda ho tratto conforto e piacere dalla lettura di Dove iniziano i Balcani di Francesca Cosi ed Alessandra Repossi (Ediciclo): due viaggiatrici che da tempo ci portano nel mondo attraverso le storie di viaggio e la buona letteratura.

E' un bel libro, Dove iniziano i Balcani, col titolo senza punto interrogativo, tanto non ce n'è bisogno, tanto la domanda sarebbe piuttosto un'altra: non dove cominciano, ma cosa sono i Balcani.

L'Altro che ci è vicino, l'Oriente sotto casa: così sfuggente che pare una farfalla che si sottrae continuamente al nostro retino e quasi si prende gioco di noi.  

Meglio le storie dunque: si tratti della fortuna turistica di Bled come di Joyce a spasso per Pola, delle ville come delle isole galera di Tito, degli spiedini di carne onnipresenti come delle tracce lasciate da Danilo Kiš, autore che ci dovremmo tutti tenerci stretto, delle città inventate dal regista Kusturica come dei tormenti di Sarajevo, dei gatti del Montenegro come delle folle di Medjugorje....

Nessuna somma da tirare alla fine, nessuna vera conclusione. Tanto le storie bastano a se stesse. Non ne usciremo con confini più chiari, piuttosto con un diverso senso di prossimità. Ed è di gran lunga meglio così. 

  

mercoledì 20 giugno 2018

La Cina con Hugo Pratt per maestro (di Mauro Bonciani)

La città e l'Italia si sono accorti di loro due anni fa quando, dopo un controllo ad un capannone, all'Osmannoro, la zona industriale a cavallo con Sesto, è scoppiata la rivolta. Ma la comunità cinese di Firenze è vecchia di decenni e numerosa. Ed un romanzo giallo, per la prima volta, ci racconta questo mondo e la vecchia e nuova mafia cinese, con una lingua lucida e tagliente, una trama incisiva e appassionante, un'immersione profonda in culture e tradizioni millenarie.

C'è il protagonista sempre un po' fuori posto, mister Onofri, ci sono femmes fatales di hugoprattiana memoria, delitti efferati e misteriosi, le arti marziali, la passione per il gioco di azzardo e le auto di lusso tipiche degli orientali, un gioco di specchi dove praticamente nulla è come sembra, una Firenze inconsueta; c'è la Triade e non solo.

La storia di Little china girl (Betti Editore) - opera prima del cinquantenne Massimiliano Scudeletti, che dopo una zigzagante esperienza lavorativa e un'antica passione per la Cina e l'Oriente si occupa si scolarizzazione di immigrati adulti - inizia proprio in un anonimo capannone all'Osmannoro, zona di confine tra italiani e cinesi, dove si trova quasi nascosta la casa da gioco delle Otto Fortune. E dove Alessandro Onofri perde una fortuna e si trova a non poter dire di no alla richiesta di aiuto per fare luce su un feroce assassinio all'interno della comunità cinese. 

Il thrilling è incalzante, gli omicidi si moltiplicano come gli interrogativi e l'ex video reporter di guerra deve cercare rapidamente risposte, stando attento a salvare assieme la pelle e la faccia, come impongono i rigidi codici della comunità cinese che frequenta senza l'illusione di farne parte, legato alla famiglia dello Zio Hu più di quanto vorrebbe ammettere  a se stesso, agli amici, alla ex fidanzata Lien, alla bella Phoung che gli è stata messa a fianco, più per controllarlo che per aiutarlo.

Scudeletti squaderna situazioni e sentimenti, certezze ed ambiguità, usa la chiave del giallo per un viaggio in un mondo che evidentemente lo affascina, evitando ogni esotismo, ogni luogo comune, qualsiasi scorciatoia o ammiccamento per conquistare il lettore; spostando continuamente il confine tra le due comunità che a Firenze, come a Prato o Milano, sembra invalicabile.
L'idea di Little china girl, il cui titolo riecheggia la famosa canzone di David Bowie, è vecchi di anni ed il lungo lavoro dell'autore è evidente in ogni pagina, in ciascuna frase, nell'assoluta mancanza di cali di tensione, impresa certo non facile per un esordiente che non vive di scrittura. Il romanzo è stato finalista al concorso di Radio Rai1 Tramate con noi e Claudio Gorlier ha spiegato "mi ha conquistato una singolare capacità di fondere l'avventuroso, il realistico e il simbolico, con una naturalezza che mi ha sbalordito. Ho cercato di cogliere l'autore in fallo, ho assunto un atteggiamento aggressivo ma mi sono arreso", sintetizzando il valore dell'opera. 

Perché Scudeletti, come l'amato Hugo Pratt, scrivendo di avventura racconta molto altro.

(Mauro Bonciani)

mercoledì 12 aprile 2017

Creta e l'uomo in cammino, quando un'isola diventa luogo del cuore

Raccogli un sasso sulla spiaggia più a est, lo infili in tasca e inizi il tuo cammino. Nei trenta giorni che seguono non si contano le volte in cui lo tocchi, anzi, lo accarezzi, lasciando scivolare le tue dita lungo la superficie liscia: solo per sincerarti di non averlo perso. Solo per poter arrivare in fondo - al mare più a ovest, quello che guarda la Libia - e lasciarlo cadere dietro di te.

Un gesto così, ma sono gesti così che danno anima a un viaggio. Come un rito che segna l'inizio e la fine. Poi, in mezzo, ci sono le altre cose: e quante ce ne sono in Rapporto a Kazantzakis di Luca Gianotti (Edizioni dei Cammini), uomo che come pochi ha indagato le infine possibilità del cammino.

C'è tutta Creta, prima di tutto, attraversata da Est a Ovest lungo un sentiero che magari non sarà per tutti, ma di cui tutti, già in questre pagine, possono percepire la straripante bellezza, l'indicibile suggestione. Ci sono montagne che sembrano toccare il cielo e squarci di azzurro giù in basso. Ci sono chiese e monasteri di un altro cristianesimo, fatto di liturgie e vicende che non sono le nostre, ma con le nostre sono intimamente intrecciate. C'è l'Oriente e c'è l'Occidente, in mezzo al Mediterraneo. C'è  l'odore della salsedine che si  mescola ai molteplici odori della macchia mediterranea. Ci sono i  paesi e i villaggi dove la gente sa ancora trattare il viandante come un ospite e accoglierlo con generosità. Ci sono gli incontri, i tanti incontri, di un camminatore che come sa abitare con agio la sua solitudine così sa aprirsi, ricevere, restituire.

Quante cose, davvero, soprattutto se ti fai accompagnare dalle parole di uno scrittore che in Italia meriterebbe di essere conosciuto di più e comunque non solo per Zorba il greco: che peraltro è un grande romanzo prima di essere un film con la colonna sonora che ha lanciato il sirtaki.

Nikos Kazantzakis, insomma: e chissà che a tenercelo lontano non sia stato questo cognome così ostico. Scrittore complesso, inquieto, uomo in ricerca come in fondo lo sono i viandanti. Quando scrisse la sua autobiografia la intitolò Rapporto a El Greco, richiamando il pittore dallo sguardo cretese. A sua volta Luca, che ha scoperto Creta come luogo del cuore,ora  fa il suo rapporto a Nikos, lo scrittore.

Come un discepolo che segue le orme del maestro. Ancora incapace di convincersi di tanta meraviglia. 

sabato 13 febbraio 2016

Se Guccini e Aime si ritrovano a conversare sotto i castagni

Che tu sei qui - che la vita esiste, e l'identitità,
che il potetente spettacolo continua,
e tu puoi contribuire con un verso

Sono versi del grande Walt Whitman e mi sembrano perfetti per esprimere le emozioni che mi ha prodotto la lettura di Tra i castagni dell'Appennino (Utet), conversazione, anzi, conversazioni tra un antropologo come Marco Aime e un uomo che non ha bisogno di presentazioni come Francesco Guccini.

Libro che ho acquistato senza saperne niente. Di più: che ho acquistato avendo preso fischi per fiaschi, convinto che fosse un libro che parlava della mia montagna. In realtà è di Francesco Guccini che si parla. E quindi anche dellla montagna, vista da quell'angolo che è Pavana, sull'Appennino tosco-emiliano. Ma parlando di Guccini, è ovvio, è di infinite altre cose, che viene naturale parlare. Di montagne ma anche di pianure, di canzoni da disco e da osteria, di emigranti e di compagni di briscola. Di piccole città, bastardi posti, e di città come Costantinopoli, dove l'Oriente si mescola all'Occidente. Di notti che dal vino sono bagnate e di partenze. E ovviamente anche di eskimi innocenti, di incontri lungo le scale, di amici che non son razza padrona, di locomotive a bomba contro l'ingiustizia...

No, nemmeno un libro sulla storia di un artista, sarebbe riduttivo. Con un intervistatore come Aime, poi, che a lungo dev'essersi intrattenuto in quel di Pavana, dopo averla raggiunta con la corriera. 

Piuttosto un libro con tanta poesia, un libro sul tempo che passa e che confonde, che separa e rovescia nostalgia, ma a volte sa donare anche buone ragioni e una strana pace.

Da leggere. Consigliato anche a chi - ma lo voglio vedere - di Guccini non ha mai ascoltato proprio niente.


 

lunedì 7 settembre 2015

Oltre i confini di Oriente con Balkan Circus

Beh, per me è questo che devono essere i libri di viaggio, mica un itinerario, una meta tracciata su una mappa, una successione di tappe, piuttosto un caleidoscopio di emozioni, un groviglio di storie da provare a dipanare. Proprio così, come in questo Balkan Circus di Angelo Floramo (Ediciclo).

Libro che ti prende alla sprovvista, libro che come tutti i buoni libri non riesce facile definire. Cosa c'è dentro? Racconti? Reportage? Ricordi? Sfuggono a ogni classificazione, le pagine di Floramo, ed è bene così, perché l'unica cosa di cui abbiamo davvero bisogno è quello di lasciarsi andare, liberi da ogni impaccio.

Prima di tutto ci sono i Balcani, in questo libro, ma i Balcani come condizione dello spirito piuttosto che come luogo da rintracciare sulla carta. Un mondo matto fatto di disperata bellezza che non posso fare a meno di amare, dice Floramo, e non ci si può far nulla, ci sono altrove che ti catturano così e non ti mollano, nonostante tutto il veleno che quella bellezza può celare.

Ma non ci sono mica solo i Balcani. Perché i Balcani sono già l'Est.... quell'Est sterminato, che per chi appartiene alla terra di confine di Floramo - all'incirca la stessa di un Claudio Magris o di un Paolo Rumiz - non può essere che inquietudine e seduzione perenne. Confine da varcare, in ogni caso.

L'Est, che richiama e a cui è difficile sottrarsi. L'Oriente che non finisce più. Il mondo slavo, che si spinge fino al Pacifico e che prima o poi bisognerà imparare a conoscere. E le pianure battute dal vento, le frontiere che a ogni giro della storia si sono sgretolate e spostate, il crogiolo dei popoli, delle lingue, delle ambizioni e delle sconfitte. Le pianure gelate, le betulle e il volo dei corvi, le terrificanti bevute di vodka. E i brindisi, perché in queste terre che hanno bevuto troppo sangue, è in compagnia che si beve e si beve sempre per qualcosa. Fosse anche il bicchiere della staffa.

Annusa il pane, e sentirai la terra. Poi mangia veloce una fetta di grasso, per ricordarti che non passiamo invano. E butta giù tutto il bicchiere, fino in fondo. Quello che resta, saranno le lacrime.

venerdì 3 luglio 2015

Tuffarsi nella storia antica per capire cosa succede oggi

Nel mio cantuccio universitario per lungo tempo ho coltivato un orticello fatto di crociate, di pellegrinaggi, di leggende e di racconti passati dal cosiddetto Oriente al cosiddetto Occidente....

Poi si dice che studiare la storia di altri secoli non serve, che è roba buona solo per accademici fuori dal mondo, per chi ha ancora la fortuna di vivere tuffandosi tra i libri, senza curarsi troppo di ciò che succede.

Comincia con quelle due righe, tra la giustificazione e lo scatto di orgoglio, L'ipocrisia dell'Occidente di Franco Cardini (Laterza), storico che su ciò che ci sta succedendo sa offrire molte più chiavi di lettura di tanti noti analisti e opinionisti dei nostri media.

 La marea montante del fondamentalismo, le esecuzioni e le vittorie militari dell'Isis, il nuovo califfato che si sta spingendo verso il Mediterraneo.... ma che cosa sta davvero succedendo? Forse è il momento di cominciare a ragionare con la testa piuttosto con le viscere. Di porsi le domande giuste con il coraggio di risposte assai poco piacevoli. E tuffarsi nella storia - fosse anche quella degli antichi califfi Abbasidi o di Saladino - ci può aiutare, come no.

Poi si dovrà davvero capire cosa è davvero successo in Libia o cosa significa parlare oggi di califfato. Si dovrà capire chi è che finanzia e sostiene il nemico alle porte e perché la nostra civiltà ha partorito l'orrore di Guantanamo nascondendoselo agli occhi. Responsabilità, sottovalutazioni, ipocrisie.

 Serve la lezione della storia, come no.

giovedì 26 febbraio 2015

Il grande Kipling e i padri che hanno mentito

Se qualcuno domanda perché siamo morti,
Ditegli perché i nostri padri hanno mentito


Non mi incanta il Rudyard Kipling poeta - assai meno in ogni caso del Kipling narratore del Libro della giungla, di Capitani coraggiosi o di Puck il folletto - non mi incanta anche se i suoi versi sono una finestra spalancata sulla sua vita e su un mondo, quello dell'Impero britannico della regina Vittoria, che di fascino ne ha da vendere.

E sia chiaro, non che fosse un mondo giusto. Però come non perdersi in quelle atmosfere di riti coloniali e di tinte esotiche? Piantagioni e fumerie d'oppio, ricevimenti dal governatore e infamie coloniali. La voglia di dominare il mondo e quella di nascondersi al mondo. Ecco, proprio questa è la poesia di Kipling, che di volta in volta si assume la missione dell'impero - il deprecabile fardello dell'uomo bianco - ma cerca anche una via di fuga; e si fa parola di soldato e fuga di sognatore.

Non mi incanta, la sua poesia. Ma quante suggestioni che riesce a evocare, quello che già ai tempi era catalogato come un buon cattivo poeta.

In ogni caso c'è una parte dei suoi versi che non hanno niente a che vedere con l'India o altre terre dell'Estremo Oriente. Li ho scoperti solo ora, in un'antologia che gira intorno a If, la sua poesia più famosa - e che ancora una volta non mi incanta. Sono i versi che ha composto come lapidi immaginarie - ma poi non tanto - per i caduti della prima guerra mondiale. Una sorta di Spoon River europea, non per un cimitero di una piccola cittadina americana, ma per i morti ammazzati della grande ecatombe europea.

Niente retorica, niente fascino esotico. Ma forse le parole di un padre che in guerra ha perso suo figlio. E che da allora lavorò constantemente non per inventarsi altri capolavori, ma per alimentare la memoria. Dei tanti, degli innumerevoli come suo figlio.


venerdì 25 aprile 2014

Freya Stark, la viaggiatrice di genio

Le distanze riempiono la vita. Non so chi l'abbia detto, però sono parole perfette per una donna come Freya Stark, grande viaggiatrice, grande scrittrice, un secolo di vita che non le è bastato per fare tutti i conti con le inquietudini e l'incapacità di fermarsi una buona volta.

Lei, la figlia di eccentrici inglesi - forse è necessario essere eccentrici e inglesi per segnare un destino così - che a solo otto anni aveva annunciato di voler scrivere il seguito dell'Isola del tesoro. E che presto non si accontentò di cercare l'altrove con le parole, perché c'era tutto un mondo da scoprire, a piedi, a cavallo, perfino a dorso di mulo.

Lei su cui nessuno avrebbe davvero scommesso, da ragazzina. E che pure ai tempi in cui una donna sola non andava nemmeno al pub si lasciò incantare dall'Oriente e girò a lungo e in largo per i deserti. Imparò l'arabo, amò le oasi e le rose. Seppe inebriarsi di silenzio e lontananza.

Viaggiatrice di genio, così la onorò la Royal Geographical Society. E per quanto mi riguarda ammetto la mia ignoranza. A lungo non ho saputo chi fosse, Freya Stark. Solo ad Asolo, in Veneto, all'ingresso della villa abitata per molti anni, ho incontrato per la prima volta il suo nome. Me lo voglio tenere stretto, ora. Voglio leggere i suoi libri. Non può che meritare una scrittrice, anzi, una viaggiatrice che il piacere del viaggio lo spiegava così:


Si arriva, con un piacevole senso di gratitudine, a realizzare quanto ampiamente siano sparse nel mondo la bontà e la cortesia e l'amore per le cose immateriali, che fioriscono in ogni clima, su qualsiasi terreno. 

lunedì 22 luglio 2013

Quando l'Oriente era il sogno delle Mille e una notte

Quando l'Oriente non era ancora la Cina o il Giappone ma, con l'occhio dell'europeo, il continente affacciato su un mare comune. Quando l'Oriente era ciò che rimaneva del potente impero ottomano, spoglie che si contendevano le cancellerie europee, eppure anche immensamente di più, destinazione per pochi e eccitazione esotica per molti. Quando l'Oriente prima ancora che un luogo era un desiderio e un'invenzione letteraria sospinta dai racconti delle Mille e una notte e i viaggiatori erano prima di tutto mercanti di sogni.

E' proprio in questo mondo sospeso tra il viaggio e il sogno che ci accompagna Attilio Brilli con il suo Il viaggio in Oriente (Il Mulino), libro importante, libro imperdibile per chiunque voglia coltivare il senso del cammino tra i luoghi e i tempi.

Brilli, si sa, è uno dei più autorevoli esperti di letteratura di viaggio che ci siano in giro. Ma questa opera, benché poderosa e corredata da tutto quello che ci vuole - note e ampia bibliografia - non è solo per gli studiosi. Leggerla è come tuffarsi in un oceano di storie, di vite, di emozioni.

I paesaggi inondati di sole e le ombre delle antiche città arabe. I muezzin e le odalische. Le voci dei suk e i silenzi degli harem. Le carovane che arrivano dal deserto e i mari solcati dai pirati. E per gli europei, un frullato di emozioni, aspettative, esperienze raccontate e dicerie: l'Oriente misterioso, l'Oriente che si fa moda e arte, l'Oriente erotico e dispotico, molle e crudele. E poi i viaggiatori che si fanno essi stessi mito, per appartenere alla nostra storia: da Lord Byron a Francois-Renè de Chateaubriand, solo per ricordare i primi che mi vengono in mente.

Vita e arte che si intreccia con quell'enigma che per noi è stato e forse è l'Oriente.

giovedì 11 ottobre 2012

Quando lo zucchero attraversò l'oceano

Raccontano che nelle stive della sua nave ci fosse una canna di color biancastro raccolta in una piccola piantagione alle isole Canarie. Durante le settimane della traversata aveva assunto tonalità violacee. Ne aveva cura un galeotto esperto di erbe: bagnava con amore la terra dove quella canna così preziosa era stata trapiantata.

In Sicilia, a Cipro, a Creta, nelle terre arabe della Spagna già si coltivava quella pianta che cresceva fino a quattro, cinque metri di altezza. In Oriente la chiamavano sakkara. 

Era arrivata nel Mediterraneo grazie ai navigli veneziani e genevosi, ai loro commerci con i credenti della religione di Maometto. I musulmani l'avevano piantata attorno a Granada. Gli arabi amavano quel succo dolce che rendeva un piacere mangiare e bere. 

Colombo aveva assaggiato lo zucchero. Ebbe uno dei suoi istinti improvvisi e ordinò che quella canna che si moltiplicava con facilità fosse stivata fra le sue merci personali. 

Era un genio inconsapevole, l'Ammiraglio: le isole del caldo soffocante erano terre perfette per coltivare canna.

Ma Colombo fu stupido: pensò più all'oro che allo zucchero. E sbagliò. Sarà l'"oro dolce" e non il metallo giallo a scrivere la storia dell'isola lontana dal mare. 

(da Andrea Semplici, L'isola lontana dal mare, Terre di Mezzo editore)

lunedì 6 febbraio 2012

Il nobile inglese che incontrò il mistico persiano

Quanti  straordinari personaggi si incontrano, sulle pagine de Gli anelli di Saturno, il libro con cui W.G.Sebald racconta un suo viaggio a piedi attraverso la contea del Suffolk. Viaggio nello spazio, ma anche viaggio nel tempo, grazie a pagine di libri e tracce che il tempo ha consegnato al presente, come onde che vanno a morire sulla battigia dei nostri giorni.

Un personaggio è senz'altro Edward FitzGerald, poeta inglese dell'Ottocento, discendente di una nobile famiglia anglo-normanna che non cercò onori e privilegi, ma che per gran parte della vita si accontentò di abitare in un modesto cottage, vivendo di poco o niente, leggendo sregolatamente nelle più diverse lingue

Viene ricordato, da chi lo ricorda, come un poeta, però l'unica cosa che riuscì a dare alle stampa in vita fu la sua straordinaria traduzione delle quartine di Omar Khayyam, il grandissimo poeta di Persia. Dice Sebald:

FitzGerald definì le interminabili ore che aveva dedicato alla versione dei duecentoventiquattro versi del poema come un colloquio con il poeta morto.

Non era stato solo un faticoso lavoro di traduzione. Con quelle interminabili ore si era costruito un ponte di parole tra due continenti, due civiltà, tra l'Oriente medievale e l'Occidente che ancora non sapeva intravedere il suo tramonto.

Ma prima ancora un colloquio tra due poeti capaci di infondere vita alle loro parole. Il mistico persiano e il nobile che non credeva più ai suoi quarti di nobiltà. Bello.




giovedì 22 dicembre 2011

Quel bambino con naso piantato in un atlante

Un viaggio non ha bisogno di motivi. Non ci mette molto a dimostrare che si giustifica da solo. Pensate di andare a fare un viaggio, ma subito è il viaggio che vi fa o vi sfa.

Non conoscevo La polvere del mondo di Nicolas Bouvier, che in Italia ha pubblicato Diabasis solo qualche anno fa, ma che in Francia è ormai da molto tempo un caposaldo della letteratura di viaggio, storia del primo viaggio in Oriente dell'autore, anno 1953 e dici poco, un viaggio da Ginevra a Samarcanda a bordo di una vecchia Fiat Topolino.

Non lo conoscevo e debbo il primo incontro a un gran bel saggio di Luigi Marfè sulla fine dei viaggi e i resoconti dell'altrove nella letteratura contemporanea di cui prima o poi dovrò parlare.

Intanto un pugno di citazioni di Bouvier mi bastano e avanzano, perché dicono già molto di quello che è, dovrebbe essere il viaggio.

Viaggio che, guardate un po', non è accumulazione, ma sottrazione, alleggerimento, esperienza in cui si dovrebbe diventare riflesso, eco, corrente d'aria.

E viaggiatore che c'è prima del viaggio, di ogni viaggio:


E' la contemplazione silenziosa degli atlanti, su un tappeto, a pancia in giù, tra i dieci e i tredici anni, che dà la voglia di piantar tutto.

E per quanto mi riguarda, non è che ho viaggiato molto, o forse sì. Ma in definitiva sono sempre quell'adolescente disteso su un atlante, il naso dentro a una pagina del mondo.

mercoledì 7 dicembre 2011

Tiziano Terzani e il poeta con i sandali

Ogni volta che ripenso a Tiziano Terzani e in particolare a Un indovino mi disse mi ritornano in mente alcune parole di Basho, un poeta giapponese che vagabondò senza requie, camminando con i suoi sottili sandali di paglia:

A mia volta sono stato tentato dal vento che sposta le nubi, colmo com’ero da tanto tempo dello stesso desiderio di errare anch’io

Ecco, in questo libro c'è tutta l'esperienza e il bisogno del viaggio, ben oltre le circostanze che hanno prodotto il viaggio di cui ci racconta Terzani (la profezia dell'indovino).

Il viaggio che non è mai turismo, che non è quasi mai fuga, che qualche volta può anche non coincidere con uno spostamento fisico, da un luogo all’altro.

Il viaggio che è vero viaggio solo se è anche maturazione, cambiamento, disseppellimento di quanto si cela nel nostro cuore e nella nostra testa.

C'è tutto questo - e naturalmente c'è tutto l'Oriente, c'è tutta l'Asia nel suo incanto e nei suoi drammatici cambiamenti - in questo libro che mi ha regalato emozioni rare e ancora me le regalo ogni volta che lo scorgo sullo scaffale della mia libreria.

martedì 18 gennaio 2011

Il turista nudo e il suo ovunque

E dunque, bisognerà arrivare fino in Papua Nuova Guinea per trovare un posto davvero lontano, che non abbiamo ancora reso uguale a tutto il resto e anche a noi? Bisognerà fare così per smettere i panni del turista universale - che è sempre lo stesso come sono sempre gli stessi gli hamburger di McDonald's - e sentirsi un po' più viaggiatore?

E comunque, quanto durerà anche in Papua Nuova Guinea?

Sono queste le domande che accompagnano Lawrence Osborne in Il turista nudo (Adelphi), storia di un viaggio che approda a un fazzoletto di giungla e di mondo primitivo al termine di una sorta di cammino di espiazione attraverso un Oriente che non è più Oriente, semmai simulacro di Oriente a uso e consumo dei tour-operator.

Ed ecco dunque Dubai che è un grande shopping-centre dove anche la sabbia sembra finta; ecco Calcutta giungla di asfalto e traffico; ecco Bangkok con il suo straripante mercato del sesso; ecco Bali che prima di tutto è invenzione riuscita di tanta buona cultura europea....

Può piacere o non piacere, ma niente sembra salvarsi. Un tempo c'erano i continenti, c'erano terre diverse ed estranee. Oggi c'è l'Ovunque. E in questo ovunque troviamo gli stessi resort, le stesse merci, le stesse attrazioni per orde di vacanzieri....

Oppure no... Chi può dire, in effetti? Questo è un gran bel libro, ma non sarà che c'è anche un po' di puzza sotto il naso?

Certo, si può perdonare tutto a uno come Lawrence Osborne, che se la prende con gli scrittori di viaggio ma poi è un grandissimo scrittore di viaggio... Uno straordinario scrittore che sa narrare alla grande il suo viaggo... e in questo modo smonta proprio la sua tesi.

Perché l'ovunque sarà ovunque, ma poi quello che conta è il nostro modo di guardare e raccontare i posti. Di viverseli.

E per questo nemmeno importa arrivare in Papua Nuova Guinea. Una valle dell'Abruzzo, un canale di Olanda, può essere già molto, molto lontano.

martedì 2 novembre 2010

L'India del signore delle lacrime

Le strade che abbiamo percorso, anche non tante volte ma avendo la piena consapevolezza piena di quel che facevano, si impregnano di noi. Il nostro fantasma continua a batterle, anche se non siamo morti, anche si siamo vivi altrove

Da un grandissimo editor - un punto di riferimento per l'editoria italiana - un libro che non mi attendevo, che è molte cose insieme.
 
Proprio così: Signore delle lacrime di Antonio Franchini (Marsilio) è un libro di viaggio che non è solo di viaggio, è riflessione alta, dialogo con se stessi, tuffo nella spiritualità. Reportage narrativo dall'India che non dimentica la vita quotidiana a casa propria. Abitudini e vizi del turista, ma anche autobiografia. Pantheon induista e materialismo nostrano, con diverse sorprese però. Occidente e oriente e tanto altro ancora.

Un libro che è ricchezza e contaminazione e allergia a ogni schema precostituito. Un libro che non fa sconti e che per questo è ancora di più da leggere.

venerdì 23 luglio 2010

Omero, il poeta cieco che è in noi

Lo diceva Victor Hugo:
Il mondo nasce, Omero canta. È l’uccello di questa aurora

Omero, dunque. O meglio, l’uomo che abbiamo imparato a chiamare Omero. L’antico greco che ci ha regalato i poemi con cui inizia la storia della nostra letteratura e forse della nostra bellezza. Il poeta cieco, che non aveva occhi per guardare, ma che proprio per questo sapeva guardare più lontano di chiunque altro e staccare dal suo silenzio parole che risuonavano a lungo nel cuore degli uomini.

Tutto questo è Omero: la grandezza dei versi dell’Iliade e dell’Odissea e, nel ricordo di molti di noi, il busto di un anziano dall’espressione saggia e solenne, e poi magari le traduzioni e gli studi dei tempi di scuola.

Penso spesso a lui, credo che si sia in diversi a farlo. Eppure, cosa si sa davvero di Omero?

Già nell’antichità si erano moltiplicate le biografie, le vite immaginarie, le leggende. E già allora non si contavano le città che si contendevano il vanto di avergli dato i natali, da Atene a Rodi, da Argo a Chio e Smirne. Città, per inciso, quasi tutte dell’Asia Minore, tanto per destarci il sospetto che la nostra poesia in effetti sia arrivata da lontano, dall’Oriente.

Qualcuno assicurava che Omero era nato pochi anni dopo la guerra di Troia, altri che era nato parecchio dopo. Anche sul significato del suo nome ci si accapigliava: discendeva da una parola con cui i greci si riferivano ai non vedenti o dalla parola che indicava, più misteriosamente, un ostaggio?

Ce n’è voluta per iniziare a convincersi che forse Omero non è mai esistito. Anzi, che non è mai esistito perché in realtà di Omero ce ne sono stati centinaia, migliaia.

Infiniti Omero prima di Omero che hanno raccontato di Achille e di Ettore, del re Agamennone e dell’astuto Ulisse. Infiniti poeti che hanno cantato nelle feste e nei banchetti, hanno improvvisato versi che poi sono passati di bocca in bocca, hanno tramandato la memoria delle gesta, delle imprese e delle miserie dei loro eroi.

Così la più grande poesia della nostra letteratura è nata dalla parola leggera, imprendibile, evanescente di tanti poeti senza volto e senza nome.

Ed è bello pensare a tutto questo e poi pensare ai nostri nonni e ai nostri bisnonni, alla nostra Toscana contadina dove si passava le sera a veglia alzandosi in piedi per una rima, per un’ottava improvvisata da chi non sapeva né leggere né scrivere. Credo che sia per questo che qualche tempo fa mi è venuto di scrivere Beatrice: un modo per provare a saldare qualche debito di gratitudine.

È bello pensare a tutto questo, perché permette a ognuno di noi di ritrovare il dono della parola. Perché aiuta ognuno di noi a sentirsi un po’ Omero.

Pensate, ognuno di noi come il grande poeta cieco.

giovedì 1 ottobre 2009

Per scoprire cose da turchi

More about Cose da TurchiUna giovane giornalista free lance lascia l’Italia per una borsa di studio di otto mesi in Turchia che le offre la possibilità di indagare a fondo su un paese “dietro l’angolo” che troppe volte seppelliamo sotto una valanga di luoghi comuni: la realtà ovviamente è un’altra, più complessa e sfumata. Anche più variegata, perché non è che la Turchia è solo Istanbul, che peraltro di per sè è già un mondo.

Ed è così che viene fuori "Cose da turchi", un libro a metà strada tra il reportage e il saggio, un libro brillante, coinvolgente, efficace nel raccontarci questo paese in tutte le sue contraddizioni, possibilità, difficoltà.

La Turchia divisa tra Oriente e Occidente, non solo geograficamente, la Turchia volta volta ponte e muro: i nostri vicini che presto busseranno di nuovo alle porte dell’Europa e che intanto incrociamo di tanto in tanto sul pianerottolo senza che da una parte o dall’altra si faccia niente per conoscerci un po’ di più e per vincere la valanga di diffidenze.

Questo libro, senz’altro più riuscito nelle parti in cui l’esperienza dell’autrice è messa in primo piano, dà una mano per tutto questo: ci lascia persino la voglia di saperne di più. E non è poco.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...