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mercoledì 27 gennaio 2016

Nel Giorno della Memoria, ricordando Margherita Hack e la professoressa Enrica

L'ho vista cacciare dalla scuola da un giorno all'altro a causa delle leggi razziali. Questo mi ha aperto gli occhi su cosa può fare una dittatura.

Ecco, Margherita Hack, la grande astrofisica, ricorda così la sua professoressa al liceo, donna innamorata di scienza che ha tanti ha trasmesso l'amore della scienza.  La professoressa Enrica Calabresi. Una donna minuta e taciturna, segnata profondamente dal dolore. Una scienziata cacciata dalla ricerca e dall'insegnamento perché ebrea.

Della sua professoressa - la cui storia racconto in Un nome (Giuntina) - Margherita Hack ha parlato diverse volte, con una fedeltà che trovo commovente. Lei, la scienziata affermata. Vi segnalo in particolare una conversazione con Daniela Gross pubblicata su Pagine ebraiche, con un titolo che forse è la cosa più bella: Ho scelto la libertà nel nome di Enrica.

Margherita Hack incontrò per l'ultima volta la sua professoressa in una via del centro di Firenze, quando ormai si era scatenata la grande caccia all'ebreo. Mi parve un animale braccato. Di lì a poco l'arrestarono e si suicidò nel carcere di Santa Verdiana, alla vigilia di quel treno che la avrebbe dovuto consegnare ai forni di Auschwitz.

Di Enrica Calabresi fino a qualche anno fa era rimasto solo il nome, che non era facile collegare nemmeno all'orrore delle persecuzioni razziali. Sono contento di aver scritto un libro su di lei. Sono contento che Margherita Hack ci abbai dimostrato che scrutare le stelle non è un buon motivo per ignorare le storie degli uomini.

I professori che valgono hanno sempre buoni allievi. E viceversa.

venerdì 10 aprile 2015

Un albero per ricordare Enrica


Un tempo era solo un nome, forse nemmeno quello, certo un nome che nemmeno figurava nel doloroso elenco delle vittime della persecuzione. Enrica si era sottratta a quell'ultimo treno, quello per i forni di Auschwitz. Alla vigilia della partenza aveva scelto di uccidersi nel carcere di Santa Verdiana, così in qualche modo si era cancellata anche dalla memoria pubblica, riconosciuta, di tutte gli uomini e le donne inghiottite nella Shoah.

Un nome, questo era il libro che anni fa, con la casa editrice Giuntina, ho dedicato a Enrica Calabresi, la scienziata che le leggi razziali avevano cacciato dall'insegnamento e dalla ricerca, la professoressa che era andata incontro al suo destino per non lasciare i suoi allievi della scuola ebraica - anche loro espulsi dalle leggi razziali.

Mi fa piacere che oggi non sia più solo un nome. Le hanno dedicato vie e aule e questo è molto bello. Ma la cosa più bella l'ha fatta in questi giorni Castel San Pietro Terme - il comune nel cui territorio c'era (e c'é) la casa degli affetti familiari di Enrica.

A Enrica ha dedicato un albero. Un gesto semplice, ma profondo, come sono profonde le radici che l'albero metterà crescendo. Profonde e invisibili, come possono essere gli insegnamenti. Sono vita e tornano nella vita, anche quando di quell'insegnante non ci si ricorderà
più nemmeno il nome. Come è successo per Enrica che nonostante tutto è rimasta nel cuore di tanti suoi allievi molti e molti anni dopo.

E' bello che la vita di una persona si traduca nella vita di un albero. E non dovrei dirlo, ma mi sembra più importante dei ricordi che possono trasmettere le pagine di un libro.

Un albero, un albero che mi commuove ancora di più, pensando che è stato piantato davanti a una scuola elementare. Sarebbe piaciuto a Enrica. Spero che i bambini passandoci davanti lo chiamino con il giusto nome: l'albero di Enrica. 

lunedì 9 febbraio 2015

La suora e la professoressa ebrea, nel carcere insieme

Ci  sono storie come fili invisibili che solo i libri permettono di scorgere. Ci sono libri che ti prendono in contropiede, prima ancora che per le storie che raccontano, per le storie che suggeriscono, magari lasciandole lì, in quella penombra dove le evidenze e le possibilità danzano insieme fino a confondersi.

Questo è quanto ho provato leggendo un piccolo importante libro di Giovanna Lori, Sia benedetta la sua memoria, che mi sarebbe sfuggito se l'autrice non avesse a sua volta incontrato la storia che racconto io in Un nome: e quindi la storia di Enrica Calabresi, la professoressa ebrea che si avvelenò nel carcere fiorentino di Santa Verdiana per evitare la deportazione.

Prima di uccidersi lasciò un biglietto a una religiosa, affidandole quei pochi beni che le erano rimasti.
Chi era quella religiosa di cui non facevo nemmeno il nome?  C'era una storia dietro?

Ed ecco Giovanna Lori, che mi riporta a quel carcere e a quegli anni. Che con pagine scritte con buona penna ma soprattutto con ila forza delle emozioni mi consegna il nome e la storia che mi mancava: quella di Madre Ermelinda, suora che nel terribile periodo dell'occupazione nazi-fascista fece di tutto per salvare prigioniere o per recare loro un qualche conforto.

Con la forza delle emozioni, necessariamente: perché dietro questa religiosa dal fare burbero ma dal cuore grande come una casa spuntano anche le figure di un direttore del carcere che, insieme a lei, rischiò la pelle per non rassegnarsi agli ordini dei vari aguzzini. E insieme di una giovane figlia che, insospettata, riuscì perfino a comunicare con la Resistenza fuori. Rispettivamente il nonno e la figlia di Giovanna Lori.

Ecco, i fili invisibili che vengono allo scoperto. Le tessere del mosaico che compongono una storia, in attesa che altre vadano al posto giusto. Vite che balzano fuori dalle pagine di due libri, che si mescolano con vite di oggi, che lasciano intravedere perfino ciò che non potremo mai davvero sapere.

E ora quasi riesco a scorgerle insieme, Enrica e madre Ermenegilda, insieme sul ciglio della tragedia conclusiva. Sguardi e parole, umanità prima del veleno. 




martedì 27 gennaio 2015

Per il Giorno della Memoria: il nome di Enrica, il nome di tutti





Penso ai numeri dell'ecatombe. Quanti sono stati? Sei milioni? Qualcuno meno, qualcuno di più?

Troppi zeri: è una cifra così enorme da perdere di consistenza. Il suo significato si smarrisce. Non riesco a contare sei milioni di uomini, di donne, di bambini. Non posso vederli. Non posso immaginarmeli uno accanto all'altro.

Ma sarebbe lo stesso, e sarebbe sempre troppo, con uno zero in meno, con due zeri in meno, con tre zeri in meno. Anche mille sono inconcepibili, anche cento...

Lo so, c'è un solo numero che mi consentirà di comprendere.

Uno.

Uno, perché una sola la persona. Quella persona. Proprio quella e non altre. Lei che ho scelto per accompagnarmi. Lei, purché ne riesca a cogliere la vita prima della morte.

Enrica.

Quel volto.


                                                                           (Paolo Ciampi, Un nome, Giuntina)

mercoledì 17 dicembre 2014

Modiano e la storia di Dora, che di sé non ha lasciato traccia

Sono persone che si lasciano dietro poche tracce. Quasi anonime. Non si distinguono da certe strade di Parigi, da certi paesaggi di periferie dove ho scoperto, per caso, che avevano abitato. Ciò che sappiamo di loro si riassume spesso in un semplice indirizzo. E questa precisione topografica contrasta con quanto ignorammo per sempre della loro vita... con quel vuoto, con quel grumo di ignoto e di silenzio.

Ecco, forse è tutto in queste righe il senso ultimo di un piccolo grande libro del premio Nobel Patrick Modiano, Dora Bruder (Guanda): persone inghiottite dall'oblio, tracce evanescenti e ombre che forse abitano le strade e le piazze delle nostre città, grumi di silenzio, vuoti che si spalancano come se ci stesse per franare il terreno sotto i piedi.

Si legge in un lampo, Dora Bruder, ma poi è uno di quei libri che non se ne vanno, che continuano a interrogare come dovere della memoria, come necessità di riparazione, come vita che è stata cancellata dalle nostre mappe. Molti altri libri, molte altre storie, lascerò passare prima di non avvertire più lo sguardo addosso, enigmatico ed esigente, di quella ragazza in copertina.

Qualcosa del genere è successo anche a me, con la storia di Enrica Calabresi, che anni fa ho cercato di raccontare in Un nome (Giuntina), onestamente concedendo a me stesso che non c'era molto da raccontare, o forse c'era da raccontare più un bisogno di verità, una ricerca, che la storia di una persona.

Con Un nome la professoressa ebrea suicida prima della deportazione e una foto di tempi sereni in copertina. Con Dora Bruder un ritaglio di giornale in cui due genitori ebrei chiedono notizie della figlia scomparsa nella Parigi occupata da Hitler. Vuoto e silenzio appunto. Anche se poi la fine di Dora è, almeno burocraticamente, nota. Un treno per il lager senza ritorno per questa adolescente che non ha lasciato praticamente niente dietro di sé. Ma prima, prima che è successo? Che vita è stata quella di Dora?

Un mistero che non cambierà la nostra vita. E che pure dà un senso al nostro modo di stare al mondo e di interrogare la storia.

lunedì 20 gennaio 2014

Pensando a Enrica, la scienziata che 70 anni fa disse no

E' un silenzio diverso, quello che avvolge Enrica.

Ed ecco, io riesco ancora a vederla. Posso immaginarmi un'altra vita.

Proprio ora Enrica sta scrollandosi di dosso l'ultimo indugio. Un'ultima occhiata dietro, allo spicchio di sole che si distende sulle facciate di via Romana, poi avanti, su per le scale.

A ritrovare i suoi coleotteri. A studiare il mondo dell'infinitamente piccolo che mormora la voce dell'universo.

Le miserie dell'uomo, l'infinitamente grande, sono rimaste fuori.

(da Paolo Ciampi, Un nome, Giuntina)

martedì 3 dicembre 2013

Ritrovando Enrica Calabresi nella sua scuola

Oggi sarò a Ferrara, al liceo Ariosto, la stessa scuola dove tanti tanti anni fa, all'inizio del Novecento, studiò Enrica Calabresi. Ovviamente parlerò di Enrica e di Un nome, il libro che tempo fa ho pubblicato con Giuntina per raccontare la sua storia.

In questi anni sono state tante le occasioni in cui mi è capitato di parlare di Enrica. Eppure mi provoca un'emozione particolare l'idea di condividere ciò che di lei è rimasto nella sua scuola, laddove la sua vita stese le ali e stava per spiccare il volo, verso un avvenire che avrebbe dovuto essere diverso. A quegli anni felici dedico un piccolo brano del libro:

Una ragazza così te la immagini a un ricevimento della buona società, a prendere lezioni di pianoforte, a passeggiare in qualche elegante giardino pubblico, scortata da una zia o da una governante. 

Enrica, invece, ha ingranato la marcia e imboccato la strada della vita a tutta velocità. Il liceo di Ferrara, il celebre Ariosto che ha sede accanto a casa, lo ha superato di slancio: due anni accorpati in uno e voti eccellenti.

Prima di scegliere le scienze, come una sorta di vocazione. Prima di partire per Firenze, la città che le darà tutto e poi le toglierà tutto. Che brivido, entrare in quella scuola. 

domenica 27 gennaio 2013

Giornata della Memoria 2013: ricordando Enrica

Ricordando Enrica Calabresi, con un articolo di qualche tempo fa di Beatrice Manetti, su Repubblica

Un nome, nient' altro che un nome. 

Nel 1933, quando fu allontanata dall'università di Firenze, dove lavorava da diciannove anni, Enrica Calabresi non era che un nome su un foglio di carta. Non era che un nome nel 1938, quando le leggi razziali le tolsero l' incarico all' università di Pisa e il posto di insegnante al liceo Galilei. Era solo un nome, uno fra i tanti, nella lista degli ebrei fiorentini che i tedeschi pretesero dopo l' armistizio del ' 43. 

E solo come un nome, sbagliato per di più, comparve per l' ultima volta il 1 febbraio 1944, nell' elenco dei morti pubblicato dalla rubrica di stato civile della «Nazione». Anche per Alessandra Sforzi, la giovane ricercatrice della Specola che mezzo secolo dopo ha ritrovato le sue tracce nelle collezioni entomologiche del museo, Enrica Calabresi non era che un nome. 

Eppure è da lì che tutto è cominciato. Un nome di donna in un mondo di uomini, una scienziata nell' Italia degli anni Venti, una docente universitaria in un' epoca in cui per le donne era un miracolo anche solo frequentarla, l' università. E' così che la curiosità è diventata passione, la passione ricerca e la ricerca un dovere. 

Di quel dovere si è fatto carico infine Paolo Ciampi, giornalista e scrittore fiorentino, che ha setacciato archivi, cercato testimoni, intervistato ex allievi e parenti, per restituire a quel nome la sua storia, in un libro intitolato appunto Un nome e appena uscito per la Giuntina. Nella sua singolarità irripetibile, Enrica Calabresi è stata all' inizio per il suo biografo quell' "uno" che solo rende possibile comprendere l' enormità del genocidio degli ebrei. 

Una storia simbolo, che nella tragica consequenzialità delle sue tappe sembra poterle racchiudere tutte. Ma strada facendo la vita di questa donna timidissima e mite, che per tutta la vita ha usato il proprio talento come se non le appartenesse, ha cominciato a rivelare la sua eccezionalità. 

venerdì 27 gennaio 2012

Il nome di Enrica, il nome di tutti

Giornata della Memoria 2012

Penso ai numeri dell'ecatombe. Quanti sono stati? Sei milioni? Qualcuno meno, qualcuno di più?

Troppi zeri: è una cifra così enorme da perdere di consistenza. Il suo significato si smarrisce. Non riesco a contare sei milioni di uomini, di donne, di bambini. Non posso vederli. Non posso immaginarmeli uno accanto all'altro.

Ma sarebbe lo stesso, e sarebbe sempre troppo, con uno zero in meno, con due zeri in meno, con tre zeri in meno. Anche mille sono inconcepibili, anche cento...

Lo so, c'è un solo numero che mi consentirà di comprendere.

Uno.

Uno, perché una sola la persona. Quella persona. Proprio quella e non altre. Lei che ho scelto per accompagnarmi. Lei, purché ne riesca a cogliere la vita prima della morte.

Enrica.

Quel volto.


                                                                           (Paolo Ciampi, Un nome, Giuntina)

domenica 22 maggio 2011

Ricordando Enrica, la ragazza di Ferrara

E’ strano, ci sono nomi che sembrano fatti apposta per coglierti di sorpresa, per evocarti l’esatto contrario di quello a cui si riferiscono. Ferrara è uno di questi. Lo pronunci ad alta voce ed esce fuori un suono che ha un che di duro, di implacabile. E’ una ruota dentata in movimento, una carta vetrata usata con energia, la scintilla che si sprigiona dal metallo. 

Poi pensi alla città, alle sensazioni che ti desta, all’immaginario che la sua storia e le sue persone hanno sedimentato. Ferrara indolente e gaudente. Ferrara e le meraviglie del Rinascimento. Ferrara e le nebbie che arrivano dalla Padania e la nascondono come un bambino sotto le coperte rimboccate. I contorni sfumati e i giardini segreti, i trilli delle biciclette e il pane come solo qui sanno fare.

Ferrara mite e tollerante nei secoli. La città che più di tutte, in Italia, è inconcepibile senza l’impronta che le ha lasciato la sua comunità ebraica.

E’ una storia, questa, che affonda le sue radici nel passato remoto, fino a epoche su cui gli esperti ancora si accapigliano, ma che irrompe alla luce del sole nel Quattrocento, quando sono i duchi di Este a governare dispensando sicurezza e prosperità. Ferrara spalanca le sue porte agli ebrei in fuga dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Germania, da Napoli e da Roma. E la vita di questi profughi si intreccia con quella di una città che con essi cresce e si arricchisce. Spuntano come funghi forni, laboratori artigiani, stamperie.
Sinagoghe, scuole e cimiteri trovano posto all’interno delle mura dai mattoni rossi. Diverse famiglie costruiscono cospicue fortune. Generazione dopo generazione nascono e si consolidano legami che nemmeno la fine degli Estensi, il passaggio allo Stato della Chiesa e la vergogna del ghetto riusciranno a spezzare.

Ancora a cavallo tra Ottocento e Novecento a Ferrara la comunità ebraica conta un migliaio di  anime - pensate, oggi si sono ridotte a poche decine -  e soprattutto è una comunità viva, presente, attiva, a dispetto di tante antiche tradizioni che si stanno stingendo.

E’ in questa città che nasce Enrica.

Ferrara, certo, la accoglierà solo per un tratto di vita. Quando arriverà il momento di spiccare il volo, di giocarsi le carte che ha in mano, l’arrivederci sarà in realtà un congedo definitivo. Eppure qualcosa mi suggerisce che è proprio qui, e non altrove, che si doveva salutare questa nascita.

Sarà perché alla fine le pagine si confondono, perché rimandi e corrispondenze rilegano un altro libro, e quello che viene fuori è molto molto simile a un racconto di Giorgio Bassani.

Per un attimo ritorno al Giardino dei Finzi Contini, magari così come è stato tradotto in immagini da Vittorio De Sica. E non c’è ragione; ma già intuisco che l’esistenza di Enrica sarà impastata dei medesimi ingredienti: dolcezza e desideri inespressi; dolore rarefatto, trattenuto, per quanto si è già perso e senso di una tragedia incombente.

(da Paolo Ciampi, Un nome, Giuntina editore)

mercoledì 23 febbraio 2011

La libertà di Dante, la libertà di Enrica

Libertà va cercando, ch'è sì cara
come sa chi per lei vita rifiuta

Non ci avevo mai pensato. Perché Dante mette Catone l'Uticense - uno dei più bei personaggi di tutta la Divina Commedia - a guardia del Purgatorio, sottraendolo alla condanna all'Inferno? Perchè non gli fa condividere la sorte degli altri suicidi?

Sono tornato a leggermi i primi versi del Purgatorio. L'alba luminosa sulla spiaggia, i primi passi di Dante e Virgilio appena usciti dal regno delle anime senza speranza. L'invocazione alle Muse, perché sostengano ancora il canto del poeta. E' mattino, a oriente splende ancora Venere e con Venere ci sono le quattro stelle che rappresentano prudenza, giustizia, fortezza e temperanza - e Dante si lamenta che esse non siano viste dagli uomini come dovrebbero.

E poi l'apparizione di quel vecchio dall'aria severa, i lineamenti del volto scolpiti dalla luce.  Catone, il guardiano del Purgatorio. L'uomo che si è tolto la vita, nel 46 avanti Cristo, mentre l'esercito dei nemici, ormai completamente vittorioso, avanza verso la sua città.



In che cosa è stato diverso dagli altri suicidi? In questo: che non si è ucciso per sottrarsi alla vita, ma per non cedere alla sconfitta e alla schiavità. E' stata una scelta, quel gesto. Una scelta di libertà.

Non ci avevo mai pensato, e a dire il vero, è anche difficile pensare che un uomo del Medioevo, com'era comunque Dante, potesse coltivare un sentimento della libertà superiore alla consapevolezza del peccato.

Poi con il pensiero sono scivolato a una persona che mi è cara, alla professoressa Enrica Calabresi, la scienziata ebrea che si tolse la vita in carcere il giorno prima della partenza del treno per Auschwitz.

Ho scritto un libro su di lei, Un nome (edizioni Giuntina), senza aver mai il coraggio di entrare davvero dentro la sua scelta conclusiva, senza la presunzione di poterla comprendere e tanto meno giudicare.

Chissà se Enrica Calabresi - la scienziata che divorava i classici della letteratura - aveva mai incontrato Catone l'Uticense, ai piedi del Purgatorio. 



giovedì 30 dicembre 2010

Sulle tracce degli scomparsi nell'Europa dell'Est

Che cosa sia davvero, non importa: biografia o reportage, libro della memoria o libro di viaggio.

Non importa, non importa davvero, perché più che in altri casi al cospetto de Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn (Neri Pozza editore) sento davvero l'insufficienza e anche l'inutilità di ogni classificazione.

Non ne sento il bisogno. Per me, più semplicemente, questo è un libro necessario. Un libro in cui tuffarsi senza paura, senza pregiudizio. Senza farsi spaventare dalle sue dimensioni, dalle sue 722 pagine che un impegno senz'altro lo reclamano.

Con un libro così si inizia con una certa riluttanza - e con la cautela di chi parte per una maratona - ma poi non si ha più voglia di mollare, si arriva in fondo e quando ci si lascia l'ultima pagina ci si sente orfani di qualcosa di importante.

E dunque questa è la storia dello stesso autore - importante critico letterario americano di origine ebraica - che un giorno decide di saperne di più sulla sparizione di un ramo della famiglia completamente inghiottito dalla macchina dello sterminio nazista. Famigliari di cui ormai rimangono solo fotografie sbiadite, nomi riportati in qualche elenco, ricordi vaghi e compromessi dalle amnesie e dagli imbarazzi dei sopravvissuti.

Ma quello di cui si fa carico Mendelsohn non è solo un viaggio della memoria... è una vera e propria Odissea, un ritorno alle proprie radici, là dove le radici sono state brutalmente strappate, in quell'Europa dell'Est dove un intero popolo, con la sua lingua, le sue tradizioni, i suoi villaggi, è stato annientato e oggi è come non fosse mai esistito.

E' un libro straordinario, Gli scomparsi. Insieme tenero ed epico; coinvolgente - come un grande noir - e sconvolgente - perché ancora capace di raccontarci qualcosa di nuovo e terribile sugli orrori di cui l'uomo è capace.

Sono convinto che leggendolo rimetterete al giusto posto anche Le benevole di Jonathan Littel, grande libro, certo, ma che si sostiene con troppi "effetti speciali".

E poi c'è una frase che mi ha colpito, una più di tutte nelle 722 pagine di Mendelsohn, una frase che, nel mio piccolo, mi rammenta cosa anch'io ho provato a fare raccontando la storia della professoressa Enrica Calabresi in Un nome (un nome, appunto, a cui restituire qualche brandello di vita).

E' quando l'autore capisce che in ballo non c'è più solo la comprensione del quando, del dove, del come sono morti i suoi famigliari:

Mi resi conto di aver seguito la pista sbagliata - voler scoprire com'erano morti invece di come erano vissuti

E da queste righe, esattamente a pagina 217 - Gli scomparsi diventa assai di più di un libro sulla scomparsa. Diventa un libro sulla vita che altri uomini hanno voluto cancellare.

Un libro che consiglio di cuore, per comprendere esattamente di cosa si parla quando si parla di dovere della memoria.

sabato 21 agosto 2010

Margherita Hack e la professoressa Enrica

L'ho vista cacciare dalla scuola da un giorno all'altro a causa delle leggi razziali. Questo mi ha aperto gli occhi su cosa può fare una dittatura.

Ecco, Margherita Hack, la grande astrofisica, ricorda così la sua professoressa al liceo, donna innamorata di scienza che ha tanti ha trasmesso l'amore della scienza.  La professoressa Enrica Calabresi. Una donna minuta e taciturna, segnata profondamente dal dolore. Una scienziata cacciata dalla ricerca e dall'insegnamento perché ebrea.

Della sua professoressa Margherita Hack ha già parlato diverse volte, con una fedeltà che trovo commovente. Lei, la scienziata affermata. Torna ora a parlarne in una conversazione con Daniela Gross pubblicata su Pagine ebraiche, con un titolo che forse è la cosa più bella: Ho scelto la libertà nel nome di Enrica.

Margherita Hack incontrò per l'ultima volta la sua professoressa in una via del centro di Firenze, quando ormai si era scatenata la grande caccia all'ebreo. Mi parve un animale braccato. Di lì a poco l'arrestarono e si suicidò nel carcere di Santa Verdiana, alla vigilia di quel treno che la avrebbe dovuto consegnare ai forni di Auschwitz.

Di Enrica Calabresi fino a qualche anno fa era rimasto solo il nome, che non era facile collegare nemmeno all'orrore delle persecuzioni razziali. Sono contento di aver scritto un libro, Un nome appunto, che racconta la storia di Enrica Calabresi. Sono contento che Margherita Hack dimostri ancora una volta che scrutare le stelle non è un buon motivo per ignorare le storie degli uomini.

I professori che valgono hanno sempre buoni allievi. E viceversa.

sabato 9 gennaio 2010

Memoria per la professoressa Enrica


Gennaio è un mese in cui curiamo con più attenzione di altri periodi dell'anno la memoria di ciò che non troppi anni fa si è consumato nel cuore della nostra civiltà, con le persecuzioni razziali. E' una cosa importante, che penso sia molto di più di un omaggio ai morti, perché riguarda il nostro presente, il nostro futuro. Nei prossimi giorni mi uscirà per Giuntina un nuovo libro, Una famiglia, che racconta la storia di alcune vite in quei terribili anni. Intanto io vorrei rinnovare il ricordo di una persona straordinaria, la professoressa Enrica Calabresi, inghiottita dall'odio e dalla ferocia. Non lo voglio fare con le pagine del libro che le ho dedicato, Un nome, ma con un articolo uscito su Repubblcia tempo fa.


Donna, ebrea e in carriera. - Beatrice Manetti - La Repubblica


Un nome, nient' altro che un nome. Nel 1933, quando fu allontanata dall'università di Firenze, dove lavorava da diciannove anni, Enrica Calabresi non era che un nome su un foglio di carta. Non era che un nome nel 1938, quando le leggi razziali le tolsero l' incarico all' università di Pisa e il posto di insegnante al liceo Galilei. Era solo un nome, uno fra i tanti, nella lista degli ebrei fiorentini che i tedeschi pretesero dopo l' armistizio del ' 43. E solo come un nome, sbagliato per di più, comparve per l' ultima volta il 1 febbraio 1944, nell' elenco dei morti pubblicato dalla rubrica di stato civile della «Nazione». Anche per Alessandra Sforza, la giovane ricercatrice della Specola che mezzo secolo dopo ha ritrovato le sue tracce nelle collezioni entomologiche del museo, Enrica Calabresi non era che un nome. Eppure è da lì che tutto è cominciato. Un nome di donna in un mondo di uomini, una scienziata nell' Italia degli anni Venti, una docente universitaria in un' epoca in cui per le donne era un miracolo anche solo frequentarla, l' università. E' così che la curiosità è diventata passione, la passione ricerca e la ricerca un
dovere. Di quel dovere si è fatto carico infine Paolo Ciampi, giornalista e scrittore fiorentino, che ha setacciato archivi, cercato testimoni, intervistato ex allievi e parenti, per restituire a quel nome la sua storia, in un libro intitolato appunto Un nome e appena uscito per la Giuntina. Nella sua singolarità irripetibile, Enrica Calabresi è stata all' inizio per il suo biografo quell' "uno" che solo rende possibile comprendere l' enormità del genocidio degli ebrei. Una storia simbolo, che nella tragica consequenzialità delle sue tappe sembra poterle racchiudere tutte. Ma strada facendo la vita di
questa donna timidissima e mite, che per tutta la vita ha usato il proprio talento come se non le appartenesse, ha cominciato a rivelare la sua eccezionalità. Eccezionale era la famiglia Calabresi, di quella colta e benestante borghesia ebraica di Ferrara dove la cultura e lo studio si respiravano nell' aria. Eccezionale è la carriera universitaria di Enrica, laureata a Firenze nel 1914, a ventitré anni, e chiamata subito dopo come assistente nel Gabinetto di zoologia. Nel 1918 diventa segretario della Società entomologica italiana, nel 1924 ottiene la libera docenza in zoologia. Sono questi gli anni d'oro della sua attività di scienziata e di ricercatrice: lavora alla Specola, collabora con l' Enciclopedia Treccani, frequenta l' ambiente scientifico fiorentino e corrisponde con i massimi studiosi stranieri, facilitata anche dalla sua conoscenza delle lingue. E' una donna sola - lo rimarrà per sempre, dopo la morte del fidanzato Giovanni Battista De Gasperi nella prima guerra mondiale - ma non solitaria; libera, ma senza scandalo; in carriera, e solo per i suoi meriti. Prima che la tempesta della persecuzione razziale si abbatta su di lei, l' università di Firenze la allontana per far posto a Ludovico Di Caporiacco: un uomo, non solo, ma anche un fascista della prima ora. E' la prima battuta d' arresto di una vita che sembra sia stata sempre sul punto di spiccare il volo, senza mai volare davvero. Enrica trova un posto da insegnante al Regio Istituto tecnico Galilei, poi al liceo omonimo, dove ha tra i suoi allievi una giovanissima Margherita Hack, che nella prefazione a Un nome ne ricorda la feroce timidezza, il riserbo e la preparazione. E quando l' università di Pisa, nel 1936 la risarcisce offrendole la cattedra di entomologia agraria, un' altra parete si alza tra lei e il suo futuro. Questa volta è un muro invalicabile. Gli ultimi anni prima dell' arresto Enrica li spende nella scuola ebraica di via Farini, tra gli studenti ebrei espulsi dalle scuole pubbliche: a insegnare, a dare un' illusione di normalità, a preparare un futuro che certo non sarebbe stato il suo. Lo sapeva, quando scelse di tornare a Firenze dopo
l' ultima estate passata nella casa di famiglia a Gallo Bolognese. Eppure tornò, «perché a Firenze c' è la mia vita». All' inizio del 1944 fu arrestata e incarcerata a Santa Verdiana per essere deportata ad Auschwitz. Sapeva anche quello, Enrica. Così, il 18 gennaio, usò la fialetta di veleno che da tempo portava nella borsa. L' ultima parete, almeno quella, aveva scelto di alzarla da sé.

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