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martedì 23 ottobre 2012

La bambina che si inventò Pippi Calzelunghe

"Mamma, raccontami una storia".

Era il 1943 e a chiederlo era una bambina di sette anni, inchiodata a letto dalla febbre. Bambina fortunata, Karin. Sua madre era una persona dotata di ottima immaginazione. Immagino che abbia indugiato solo per un attimo, giusto il tempo di allungare lo sguardo sul viale fuori della finestra e gli alberi di Stoccolma.

Quindi cominciò a parlare. E dalle sue parole emerse la storia di un'altra bambina, che aveva i capelli rossi ed era tanto forte da sollevare un cavallo. Viveva da sola in una casa di legno affacciata sul mare, era amica di una scimmia e sognava le scorribande dei pirati.

Alla mamma le era venuto anche un nome: si chiamava Pippi Langstrump. Karin la corresse: "Mamma raccontami di Pippi Calzelunghe".

Forse tutto cominciò proprio con queste parole. Seguirono 145 milioni di libri venduti in tutto il mondo e traduzioni in 60 lingue: uno dei più grandi exploit editoriali.

Astid Lindgren, madre di Karin, ha avuto una vita lunga e fortunata. Però niente dev'essere stato così bello, così importante, così impagabile, come quel momento in cui iniziò a prendere vita, con la forza della fantasia, quella bambina dai capelli rossi. Con quell'altra bambina ammalata che poi azzeccò il nome giusto.

domenica 12 febbraio 2012

Una bambina italiana in un altro Giappone

Lo so che La nave per Kobe  di Dacia Maraini è un libro che può non piacere, che può perfino deludere qualcuno, che magari si aspettava un romanzo e invece si è scoperto a inoltrarsi nei territori delle memoria privata.

Ed è vero, dipende proprio da ciò che ci si aspetta. Io l'ho comprato quasi per caso, solo perché mi era cascato l'occhio sulla copertina mentre gironzolavo tra gli scaffali di una libreria amica. Ora però posso dire di aver fatto davvero un buon affare. 

Certe volte capita così, non devi tuffarti nella trama, ma abbandonarti al flusso delle parole, che sono prima di tutto ricordi di luoghi, persone, stagioni. La memoria può essere più affascinante di qualsiasi invenzione letteraria.

Dacia Maraini ritrova i diari compilati dalla mamma in Giappone, il paese in cui la sua famiglia decise di trasferirsi, lontano dall'Italia fascista. Diari privati, come dovrebbero sempre essere, chiaramente non pensati in vista di un qualsiasi lettore. Poche righe di tanto in tanto, senza nessun ordine, seguendo solo l'istinto o un'urgenza del cuore, più promemoria che altro.

Parole su cui si innestano i ricordi di Dacia bambina, ma anche le riflessioni della donna più matura, della scrittrice affermata. Non so dire bene cosa ne venga davvero fuori. Però è quasi come un film costruito con un montaggio nervoso e continui salti di tempo e di luogo.

Bella la storia di questa famiglia che prova ad allontanarsi dalla storia di un mondo che sta andando per il verso sbagliato, che dice no al fascismo e ai suoi tentativi di impero per andare in un posto che davvero sta su un altro pianeta.

E intrigante questo Giappone, paese enigmatico e gentile, prima delle devastazioni della guerra e le accelerazioni del dopoguerra.

E quante cose vengono in mente, tranne poi ricredersi e convincersi che poi niente di tutto questo è davvero importante, che è il Giappone ma potrebbe essere anche il paese di Heidi, che quello che conta qui dentro sono solo gli affetti di una famiglia e il lavorio del tempo che passa e tutto cambia.

mercoledì 25 gennaio 2012

La scrittrice da bambina e il brutto anatroccolo

Non sono giovane e penso anche di non essere una scrittrice.

Così dice di sé Milena Agus, all'inizio di questo piccolo intelligente libriccino, Perché scrivere (senza punto interrogativo), pubblicato da una piccola intelligente casa editrice come Nottetempo.

E non è vero, quello che Milena Agus afferma, anzi, nega di sè. Siamo di fronte a una delle migliori voci della narrativa italiana, anche se il successo è arrivato a sorpresa, in una storia che sa quasi di fiaba.

Però non è questo che conta. Milena Agus ci prende per per mano e ci accompagna nel suo laboratorio di scrittura, spiegandoci come ha cominciato a scrivere e che cosa questo significa per lei. Senza che questo abbia a che vedere con i soliti consigli per aspiranti scrittori.

Piuttosto è bello inseguire le sue parole di scrittrice - e di donna che si intuisce incline alla ritrosia sui fatti personali - e con lei ritrovare la Milena bambina, quando i libri erano il rifugio e il sogno di un'età difficile.

Scrivere aveva il sapore di libertà di un'adolescente che non sapeva fare niente di quello che sapevano fare gli altri e perciò provava a rifarsi in questo modo, scrivendo e vergognandosi di scrivere, equilibrista in una prova che era facile presumere che non sarebbe riuscita a portare a termine.

E oggi, oggi la scrittura, così dice, è ancora la tana che si porta dentro. Però questa storia è anche una bella versione della metamorfosi del brutto anatroccolo.

Che dopo tanto penare ora può concedersi uno scatto di orgoglio:

Scrivo come mangio: mi abbuffo e poi mi pento che nel piatto non sia rimasto nulla.

sabato 10 ottobre 2009

A Gaeta il cecchino e la bambina

More about Il cecchino e la bambinaQuando viaggiare è addentraci negli orrori e i dolori del mondo, dietro a un lavoro che ogni giorno ti chiede di liofilizzare in titoli e notizie tutto quanto investe la vita e la morte di innumerevoli persone, in una routine a rischio di cinismo. Quando quello stesso lavoro diventa rigore, responsabilità, testimonianza di umanità.

Tutto questo c'è dentro il libro di Franco Di Mare, Il cecchino e la bambina, che in questi giorni, tra l'altro, ha vinto il premio Città di Gaeta per la letteratura di viaggio e di avventura (per inciso, ero in giuria e ho partecipato alla premiazione: ascoltare Franco di Mare è stata una gran bella cosa, direi uno scatto di orgoglio in un periodo in cui la professione del giornalista è tanto bistrattata).

In questo libro Franco di Mare, inviato di guerra, racconta se stesso, racconta soprattutto le storie che gli si sono sgranate sotto gli occhi. Senza esibizionismo, senza la tentazione di offrire effetti speciali o chiavi di lettura.

Ricordi in successione, dall’assedio di Sarajevo fino al genocidio del Ruanda. Le pagine volano trascinandoci da una latitudine all’altra delle tragedie del nostro pianeta. A volte Franco Di Mare ci lascia un po’ così, quasi ci socchiudesse la porta e poi ci lasciasse fuori. Ma in realtà ogni capitolo è segnato dall’intensità di un giornalista che non si avvicina al suo lavoro con la freddezza del chirurgo.

E poi il suo è un modo diverso di raccontare rispetto ad altri inviati, un modo a cui siamo meno abituati: Franco Di Mare viene dalla televisione, da un lavoro che ti chiede di sintetizzare in un minuto e mezzo gli eventi di una giornata, da un lavoro che pretende di raccontare assai di più con un fotogramma che con mille parole. Ogni sua pagina è un'inquadratura: che arriva al cuore, che scuote, che passa ma non tu lascia come prima.

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