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giovedì 21 maggio 2020

Lo sciamano delle Alpi tra nostalgia e possibilità

Quell'oggetto è un acchiappasogni. Serve a tenere lontani gli incubi. A impedire che i pensieri cattivi si impadroniscano della nostra mente. Ma è anche il simbolo di un mestiere. Gli stregoni, gli uomini di medicina, gli sciamani, lo mettevano davanti alla tenda perchè si sapesse che lì ci si poteva curare.

Ormai sono anni che faccio mie le storie di Michele Marziani, un romanzo dopo l'altro. L'ho scoperto con Umberto Dei. Biografia non autorizzata di una bicicletta, che mi ha portato dalle parti di una ciclofficina sui Navigli e di scelte di vita importanti. L'ho ritrovato con La signora del cavale, sorprendente racconto di una comunità di pescatori di storioni non sul Volga ma sul Po. Me lo sono tenuto stretto con Nel nome di Marco, ascesa e caduta del Pirata, ferita che non si rimargina. L'ho inseguito nella Figlia del partigiano O'Connor, vicende familiari che si intrecciano con le tragedie del Novecento, la Guerra di Spagna, Irlanda e Ventotene. 

Paesaggi, umori, situazioni con cui ho preso confidenza.

La sua ultima storia - Lo Sciamano delle Alpi, proposto da Bottega Errante - l'ho terminata oggi, col dispiacere di non avere più pagine da girare e la curiosità per cosa potrà ancora riservarci Michele nel futuro. 

Dentro ci sono tre fratelli che non il destino ma varie presunzioni e seduzioni hanno separato. Nella loro esistenza non pare abbiano posto se non per la smania di conquista: si tratti di una carriera, un conto in banca o un amante è un particolare secondario. Poi c'è un quarto fratello che scompare, ma che è necessario ritrovare per portare in fondo una spericolata operazione finanziaria. E c'è un mondo che si schiude in questa ricerca che porta su in montagna, lontano dalla città, ma lontano anche dal presente, verso un'altra possibilità.

Non è solo un bel romanzo, mi sembra anche un libro che ricapitola tutto ciò che finora Michele ha scritto, come se avesse voluto giocare con se stesso, con la sua scrittura, col suo mondo interiore. 

Il sentimento della fuga, l'idea di giocarsi un altro giro di carte nella partita della vita, l'arte della solitudine che è argomento su cui certo ha molto da dire. Il senso del tempo e dei cambiamenti che produce. La nostalgia - sia essa per la civiltà alpina liquidata a cuor leggero o per i sogni dell'infanzia -  che si fa dono e orizzonte per qualcosa che potrà ancora succedere.  

E dettagli, indizi, richiami che affiorano da queste pagine, come messaggi in bottiglia. Un volume di Thoreau, la pesca alla trota, le letture adolescenziali di Salgari, le vecchie carte geografiche, i pellerossa e ancora l'Irlanda.... Come si conviene a un grande affabulatore, a un uomo che raccontando storie ha acchiappato il suo sogno.







 

 

giovedì 19 luglio 2018

Quando lo storico si mette in cammino

C'è chi lo definisce storico recalcitrante - già meglio che riluttante - e dubito che in questo modo si renda un buon servizio al mestiere dello storico, ma certo dà l'idea di un autore che sfugge come un'anguilla a ogni classificazione. Storico, va bene, ma anche girovago, innamorato, sognatore, cantastorie, dice Giulio Mozzi di Matteo Melchiorre. Sottoscrivo.

Prendete questo libro: un titolo piuttosto enigmatico, La via di Schenèr (Marsilio editore), un sottotitolo che sembra spostare decisamente il tiro verso il saggio serio e autorevole, buono per studiosi e cultori: un'esplorazione storica nelle Alpi.

Quanto a storia ce n'è tanta qui dentro, costruita con la passione dell'uomo che si tuffa dentro gli archivi e non si spaventa di fronte alla mole dei documenti, piuttosto si interroga su quello che non si è depositato nella scrittura. Ma soprattutto ci sono gli uomini, con le loro storie di vita. Così che anche un minuscolo lembo di terra  diventa un mondo da esplorare. E una aspra via di montagna, ormai abbandonata e dimenticata, si fa orizzonte su cui contemplare destini più ampi.

La via di Schéner, ovvero la mulattiera che un tempo univa due comunità separate dal confine: la città di Feltre sotto e, al di là del passo, gli abitanti del Primiero. Ovvero Austria e Veneto. 

Mercanti e contrabbandieri, lavoratori stagionali e soldati. Guerre e affari. Quante vicende si intrecciano sui due versanti di una strada che non sembra nemmeno una strada, solo un sentiero scosceso e faticoso che pure ha del cordone ombelicale. 

Lo storico - è vero - a volte deve dismettere i panni dello storico, per fare bene alla storia. Per capire e far capire che la storia siamo noi, con tutti coloro che ci hanno preceduto. Con i tanti nomi svaniti allo stesso modo delle orme sui valichi di montagna. 

Lo storico a volte deve abbandonare i testi e gli archivi, farsi uomo in viaggio e in questo modo fare raccolta di parole. A volte addirittura deve mettersi gli scarponcini da trekking, caricarsi uno zaino, puntare verso il crinale. Così la via - quella via - è già molto di più di una linea tracciata sulle antiche mappe. 

giovedì 15 marzo 2018

Dall'Irlanda a Ventotene, storia grande in una piccola isola

 Come aveva fatto una storia così grande a essere passata da un'isola tanto piccola?

A volte succede proprio così con le grandi storie, approdano su un'isola di scogli e distanze, sembrano abbandonarsi al vento e al ricordo, languiscono dietro mura e sbarre, si alimentano solo di nostalgia: e non per questo sono meno grandi, anche se appartengono a uomini i cui nomi non sono scolpiti sui monumenti.

Passa per Ventotene, l'isola dei confinati sotto il fascismo, la grande storia che ci racconta Michele Marziani in La figlia del partigiano O' Connor (Clichy), splendido libro di un autore che non mi ha mai deluso: e chi mi conosce sa di alcuni titoli - per esempio Umberto Dei. Biografia non autorizzata di una bicicletta o Nel nome di Marco - che spesso mi capita di suggerire.

Storia che approda a Ventotene, ma che in realtà passa, non si ferma. Mette insieme il mare e le valli delle nostre Alpi, Dublino e Barcellona. Cuce altre storie, compone il presente e  il passato, lasciando un margine persino al futuro, serpeggia attraverso i giorni di una vita per richiamare vicende corali e snodi del nostro Novecento.

Libro di viaggio, a suo modo: libro che attraversa il tempo e lo spazio. Insegue i passi di Pablita O' Connor, la figlia dell'irlandese, la figlia del partigiano, che raggiunti i 65 anni, decide di guardare oltre la valle piccola e stretta, tra il Monte Rosa e il lago d'Orta, dove ha sempre vissuto.

Partire, sapendo che partire è prima di tutto sciogliere qualcosa dentro. Partire, ma dove, se non dietro l'ombra del padre?

Ma lei di lontano conosceva soltanto la storia di quel suo papà che era stato al confino sull'isola.

Lui, l'uomo dell'isola di smeraldo, l'uomo di un paese che per noi è solo case col tetto di paglia, violini e pinte di birra scura. La Guerra di Spagna, la Resistenza in Val d'Ossola. Dalla parte giusta, perchè una parte giusta c'era, da dire e ridire in tempi dove pare ogni cosa sia come i gatti di notte, tutti bigi.

C'è anche questo in questo libro di sorprese, rivelazioni, riconoscimenti. In questa storia grande che passa per un'isola e abbraccia il mondo.

lunedì 22 gennaio 2018

Le Alpi che sono rifugio alle anime libere e contrarie

E' un altro modo per provare a dipanare la matassa della storia, non solo città e campagna, ma anche terre alte e terre basse. Cos'è la storia vista dalle terre alte, dagli uomini che generazioni dopo generazioni le terre alte le hanno abitate e presidiate? Come si racconta la storia da questo punto di vista, dalla cima delle montagne?

Le Alpi, per esempio: si fa fatica a considerarle luoghi della storia, se non per qualche ricaduta secondaria e involontaria, effetto collaterale verrebbe da dire. O solo perché qualcuno di tanto in tanto - da Annibale a Napoleone - le ha attraversate con qualche indubbia conseguenza a valle.

E invece le Alpi - e in genere la montagna - andrebbero intese non solo come terre marginali e come barriere naturali - tanto più che sono sempre state anche luogo del movimento, dello scambio, dell'incontro, non solo confine.

E in ogni caso c'è anche una storia che è altra e che appartiene a queste vette. La racconta splendidamente Enrico Camanni - alpinista e giornalista - nel suo Alpi ribelli. Storie di montagna, resistenza, utopia (Laterza editore).  Titolo che già dà il senso di quale storia altra si parli: una storia raramente scritta al contrario di chi la storia la fa davvero. Storia che parla il linguaggio della possibilità, della libertà, persino dell'utopia. Storia di resistenza che non è solo quella contro i nazifascisti, ma è resistenza di idee, di convinzioni religiose, di riti e tradizioni, di comunità cacciate via dalle terre basse.

Dal Medioevo ai giorni nostri - spiega Camanni - come una risorgiva carsica che emerge dalle profondità del tempo, la montagna ogni tanto si ricorda di essere diversa e fa sentire la sua voce fuori dal coro.

E tutto questo racconta Camanni, in un libro che è anche un bel libro di viaggio attraverso le montagne e le parabole di vita che con le montagne si sono intrecciate.

Tuttora - dice - si alza il grido di chi rivendica una diversità geografica e culturale, compiacendosi dell'antico vizio montanaro di sentirsi speciali e ospitare i diversi, i ribelli, i resistenti, gli antagonisti, gli eretici, per diventare rifugio e megafono della anime libere e contrarie. 

E io ho teso l'orecchio e ascoltato questo grido. Spero che la montagna dei trafori, delle ovovie, dello shopping non abbia spento questo grido, anzi, che lo abbia reso più forte e più gonfio di ragioni.  



lunedì 20 febbraio 2017

Neve, cane, piede: il mistero di una vita solitaria

Adelmo Farandola - che sarà Adelmo Farandola per tutto il libro, nome e cognome - vive come un eremita in un vallone sperduto delle Alpi. Non si sa bene quale vita abbia avuto prima e nemmeno lui lo deve avere chiaro, perché con gli anni ha perso la memoria. Un tempo faceva il pastore, ma per qualche ragione ora non possiede più bestie, sopravvive con la caccia di frodo. In paese scende solo di tanto in tanto, per acquistare qualche provvista e vi si aggira con la circospezione dell'animale. Rintanato nella sua baita caccia a sassate chi si avvicina e ha smesso persino di lavarsi. Il suo tempo è vasto e vuoto, scandito dall'alternarsi delle stagioni.

Ecco, questa è la vita di Adelmo Farandola, protagonista del sorprendente romanzo breve - o racconto lungo - Neve, cane, piede di Claudio Morandini. Un libro di cui si è discusso in queste settimane come di un autentico caso editoriale. Oppure come di un caso editoriale quale potrebbe diventare, se la qualità conterà per le classifiche più delle strategie dei grandi gruppi editoriali, se il passaparola funzionerà e andrà lontano.

Nel frattempo sono contento per un autore che merita molto, voce particolare nel panorama della letteratura italiana, voce che sa di aria di montagna, di neve, di suoni nel silenzio delle vette. E sono contento per Exòrma, casa editrice che mi pare ultimamente non abbia sbagliato un colpo.

Nelle ultime pagine Morandini esce dalla finzione letteraria per spiegarci come è nato questo libro. Un giorno, camminando per una valle alpina, ha incrociato sul sentiero un vecchio scontroso, con un sasso in una mano e una pigna nell'altra, un cane spelacchiato al fianco. Gli ha rovesciato addosso uno sguardo di pietra, come per proteggere la sua tana. Tornato in paese, Morandini ha provato a chiedere al bar: chi era quell'uomo?

Sorpresa, altre domande, pochi e vaghi indizi. Ma ecco, Adelmo Farandola ha cominciato a vivere quel giorno. Personaggio di una finzione che tanto finzione non è.

Le storie vere - scrive Morandini - hanno questo incolmabile vantaggio sulla finzione: si sfilacciano, si impantanano, possono perdere di ritmo e di nerbo, finiscono sempre dove nessun corso di scrittura farebbe mai finire una storia d'invenzione.

Mentre ripongo il libro, mi interrogo su di lui e su tutti gli uomini che si sono ritirati, anzi trincerati, in una vita di silenzio e solitudine. Impenetrabili, taciturni, ostinati.

Adelmo Farandola, che col tempo ha preso a parlare con un cane e anche con gli oggetti. Quale mistero c'è nella sua vita? E cosa gli succederà col prossimo inverno?

giovedì 8 maggio 2014

Perché non si parla dell'Appennino?

E' scandaloso quanto poco si nomini l'Appennino. 

Nei titoli dei giornali compare cinque volte meno rispetto alle Alpi. Della catena dominante si parla continuamente: convegni sulla transumanza degli orsi, sulle regioni a statuto speciale, i dialetti occitani, il postfordismo del Nordest pedemontano, la biodiversità nelle Orobiche e i fiumi del Bellunese. 

Non parliamo dell'Alto Adige e dei suoi maledetti gerani ai balconi. Una pestilenza. Eppure, le Alpi sono solo la cornice esterna del paese. Gli Appennini invece ne sono l'anima, lo stomaco, la colonna vertebrale. E sono lunghi quasi il doppio.

Senza di loro, la patria si affloscerebbe come uno Zeppelin senza gas nella pancia.

(Paolo Rumiz, La leggenda dei monti naviganti, Feltrinelli)

mercoledì 7 maggio 2014

Posti misteriosi, proprio accanto alle grandi strade

Chi ha detto che in Italia non c'è più terra incognita?

Cosi si chiede Paolo Rumiz, nel bel mezzo di un viaggio alla scoperta della montagna italiana, prima le Alpi da un capo all'altro, poi gli Appennini fino all'estrema propaggine meridionale. Curva dopo curva, su strade secondarie, fili sottili e tortuosi sulle mappe degli automobilisti, che quasi sempre prediligono la linea retta, assecondata da viadotti e gallerie. Strade dimenticate, strade che solo di tanto in tanto tocca imboccare, per una deviazione obbligata, perché non se ne può fare a meno.

Sostiene Paolo Rumiz, che in quel viaggio si è concesso il piacere estremo di partire e arrivare in fondo con una vecchia Topolino, che è proprio questo ciò che vale, il tempo che sembra perso e invece si guadagna, la sorpresa annidata dietro ogni tornante. A volte, afferma, neanche troppo lontano dalle linee rette con cui abbiamo preteso di soggiogare le montagne. I posti più misteriosi, afferma, stanno spesso accanto alle grandi strade, totalmente ignorati dal flusso che li percorre. Ed è un po' come per i ladri, che si dice rubino meglio vicino alle questure.

Solo qualche mese fa, con colpevole ritardo, ho letto La leggenda dei monti naviganti. A mio parere uno dei libri più belli di Rumiz. Dopo averlo finito l'ho messo via, su uno scaffale, con un pizzico di gratitudine misto a invidia: quel viaggio non era il mio viaggio.

Poi pochi giorni fa sono partito per un trekking con i miei amici. La via alta della Liguria, montagna con vista mare. A poche centinaia di metri in linea d'aria Portovenere, le Cinque Terre, alcuni dei luoghi più amati, conosciuti, frequentati da turisti di ogni paese. Poco più sopra, bellezza rarefatta, accarezzata dal silenzio. E solo così ho inteso davvero quel libro.

mercoledì 12 marzo 2014

Quando le Dolomiti non erano le Dolomiti

Potenza dei nomi. Successe solo quando le Dolomiti cominciarono a chiamarsi Dolomiti - e oggi non sembra nemmeno possibile che una volta non fossero le Dolomiti. Prima delle piste da sci, degli impianti di risalita, degli alberghi pronti ad accogliere escursionisti e villeggianti di tutto il mondo.

Pensare che l'Antartide era già stato intravisto da una quarantina di anni, pensare che era il tempo delle scoperte geografiche, delle esposizioni universali, delle mappe che cambiavano di anno in anno. Le terre lontane diventavano sempre meno lontane, ma le Alpi, nel cuore dell'Europa, rimanevano posti remoti e sostanzialmente poco conosciuti. Ancora nel 1873 la viaggiatrice inglese Amelia Edward pubblicava un libro dal titolo Untrodden peaks and unfrequented valleys: cime inviolate e valli sconosciute.

Ma soprattutto le Dolomiti, le Dolomiti che ancora non erano le Dolomiti. Un altro viaggiatore, il francese Jules Leclercq poteva scrivere di quei montanari: I selvaggi dell'Africa centrale provano meno stupore di loro alla vista di uno straniero.

Poi arrivarono loro, i due viaggiatori britannici Josiah Gilbert e George Cheetham Churchill (a proposito di nomi, due nomi che sembrano la quintessenza dell'impero britannico). Si innamorarono delle Dolomiti che non erano le Dolomiti e decisero di battezzarle in quel modo, richiamando la pietra di queste montagne, la dolomia. Era il 1864, usciva il loro libro, The Dolomite Mountains. Come andò a finire lo ha raccontato Pietro Veronese, sulla Repubblica di qualche tempo fa:

La parola ebbe successo immediato. I viaggiatori successivi l'adottarono subito, nuovi libri di altri autori la ripresero. Le Dolomiti divennero una moda elegante, certamente molto elitaria.

Soprattutto le Dolomiti erano diventate le Dolomiti.

martedì 6 novembre 2012

Nessuno risultava superfluo, allora

Nessuno risultava superfluo, allora, nemmeno da morto.

Negli agglomerati urbani del XX secolo invece, là dove da un'ora all'altra ciascuno è rimpiazzabile e, tutto sommato, in soprannumero fin dalla nascita, bisogna di continuo gettare a mare la zavorra, dimenticare radicalmente tutto ciò di cui ci si potrebbe ricordare: la giovinezza, l'infanzia, le origini, i progenitori, gli avi.

Per qualche tempo ancora sopravvivrà il cosiddetto "Memorial Grove", creato di recente su internet, dove si possono seppellire e visitare per via elettronica coloro che ci furono particolarmente vicini. Ma, prima o poi, anche questo "virtual cemetery" svanirà nell'etere e l'intero passato si dissolverà in una massa uniforme, irriconoscibile e muta. 

E muovendo da un presente immemore verso un futuro che l'intelligenza di nessun individuo riuscirà più a comprendere, alla fine anche noi lasceremo la vita, senza provare alcun bisogno di restarvi ancora per qualche istante almeno, o di potervi se mai fare ritorno.

(W.G. Sebald, Le Alpi nel mare, Adelphi)

domenica 21 ottobre 2012

La Corsica a un passo dalla sua verità

Un pugno di pagine, quattro capitoli che non sono nemmeno capitoli. Schegge di prosa, in questo modo ha preferito presentarle l'editore, forse a ragione. Quanto rimane di un grande libro che poteva essere e non è stato.

Le Alpi nel mare (Adelphi) raccoglie ciò che W.G. Sebald ha fatto in tempo a scrivere del suo ultimo vagabondaggio, in Corsica, prima che un incidente lo portasse prematuramente via. Ed è quanto basta per provare un enorme rimpianto.

Quante cose che ci sono qui dentro. La grandezza di Napoleone vista con l'occhio dei genitori, la solitudine di un cimitero solitario, il mare e le ruvide montagne dell'interno, lampi di genio sulla Storia e sui destini di tutti noi, frasi che ti si conficcano comunque dentro, come: Mi piace moltissimo andare al cinema in città straniere - cosa che mi ha fatto rincorrere ricordi per una sera.

Quattro schegge per disegnare un'isola di luci e ombre, di corpi pulsanti e di fantasmi, di un Mediterraneo che è Mediterraneo e che allo stesso tempo è qualcosa d'altro.

La Corsica che per me, toscano, è a poche ore di traghetto, l'isola dall'altra parte. E che pure, mi accorgo ora, è uno dei posti più indefiniti e sfuggenti su cui mi sia mai capitato di riflettere.

Sebald, forse, aveva cominciato a sbozzare il suo mistero. Ci sono rimasti solo i suoi primi colpi.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...