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domenica 14 ottobre 2018

Quella montagna a cui non ci si stanca mai di tornare

Puoi convincerti che è solo un sentiero che sale e che prima o poi ti porterà da qualche parte, si tratti di un crinale o di un borgo dove potrai fare tappa. Oppure puoi spalancare i tuoi sensi - aprire le porte della percezione, avrebbe detto un poeta di altri secoli - e sentire cosa ti si muove dentro, fino a comprendere che anche una montagna ha un dentro.

Ecco, questo è ciò che ha sperimentato Nan Shepherd, questo ci ha poi raccontato in un libro che incredibilmente per anni è stato dimenticato dall'editoria italiana. Finalmente pubblicato grazie al Ponte alle Grazie, La montagna vivente - un titolo già eloquente - si impone subito come una di quelle letture che, senza magari entusiasmare come un grande romanzo di avventura, sanno comunque conquistare, anche poco a poco, fino a diventare indispensabili.  Non è un capolavoro della letteratura dell'alpinismo, come ho letto, ma assai di più, un libro che cerca e scova l'anima della montagna.

Vien quasi da invidiare questa donna che, nata sul finire dell'Ottocento, si laureò all'università di Aberdeen nel bel mezzo della Grande Guerra, insegnò letteratura inglese per quarant'anni, senza mai stancarsi di coltivare il suo amore per la montagna. Ma la cosa più sorprendente è che questo amore non lo ha mai esercitato in astratto, ma piuttosto rimanendo sempre fedele ad alcune vette che ha continuato a percorrere ed esplorare per tutta la vita: i monti Cairngorm, nella Scozia nordorientale, altresì conosciuti come l'Artico della Gran Bretagna. 

Forse solo una scozzese, con il suo temperamento tenace, poteva dimostrare tanta perseveranza. Ma quello che conta è che sentendola viva, la sua montagna, Nan Shepherd l'ha scoperta anche infinita. Ci sono molti modi di viaggiare e il più affascinante, mi sa, è quello che si alimenta di ritorni.

Ecco il segreto di questo libro, che ci insegna a tornare, a viaggiare in profondità piuttosto che in ampiezza, a considerare la montagna non come una cima da scalare, ma come un amico che è bello andare a trovare. 


lunedì 6 agosto 2018

Vita da libraio, senza troppi rimpianti

Mi piacerebbe fare il libraio di professione? Tutto sommato direi di no.

Così nel 1936 si domandava e si rispondeva George Orwell, dopo aver soppesato pro e contro. Così non pensa, tutto sommato e dopo aver anche lui soppesato pro e contro, Shaun Bythell, che una libreria se l'è praticamente inventata, in un villaggio di pescatori della Scozia.

Una scelta di vita, certamente. Aggiungerei, è ovv io, una scelta di vita decisamente coraggiosa, se non temeraria. Fatto sta che Shaun Bythell rimpianti non sembra proprio coltivarli. Non fosse altro che una libreria - anche una libreria in un posto sperduto - è sempre un ottimo punto di osservazione per guardare il mondo - e la varia umanità che lo popola - nonché per raccontarlo. Che è quanto fa Shaun in un libro delizioso e raccomandabile.

Una vita da libraio (Einaudi, Stile Libero) è senz'altro il diario di un mestiere che resiste, malgrado tutti i profeti di sventura. E siccome, come è noto, trovo irresistibili i libri sui libri, non potevo farmelo mancare. Ma c'è di più in queste pagine: un commedia umana senza presunzioni, condita di humour scozzese, parecchi luoghi comuni presi di petto e sbriciolati, le molte storie di una piccola comunità che un libraio riprende e riferisce come si farebbe al pub, magari un pub col camino acceso.

Lo stereotipo del libraio insofferente, intollerante e misantropo?  Quello è l'unico che Shaun non si sente di contestare. Un po', ammette, ci si riconosce davvero. Certo è uno che dice pane al pane. Magari in faccia ai molti che reputano che il libraio non lavori ma a suo modo passi piacevolmente il tempo. O che, vai a sapere in virtù di quale ragionamento, una libreria possa vivere d'aria.

Le persone davvero interessate ai libri sono rare - dice - ma coloro che pensano di esserlo sono molto più numerose.... il modo più sicuro per identificarli è che mai, nemmeno una volta, ne comprano uno.

Amazon che pare una battaglia persa, infinite situazioni surreali, conti che a fine mese non tornano quasi mai. Perché non suggerire a Shaun di cambiare vita?

Eppure, se qualcuno mi chiedesse cosa vorrei cambiare, la risposta sarebbe: niente.

Risposta sbrigativa, perchè non c'è tempo da perdere, con tutte le avventure che girano intorno a uno sgabello e tra gli scaffali. Un chilometro e mezzo di libri e un mondo che non finisce più. 



giovedì 8 settembre 2016

Inghilterra, la piccola grande isola di Bill

Mentre me ne stavo lì, mi venne in mente che una delle cose della Gran Bretagna che mi piace veramente, ma proprio sul serio, è questa: è inconoscibile.

E dunque, eccomi di nuovo a godermi un libro di Bill Bryson, nemmeno tre mesi dopo aver viaggiato in Australia sulle sue pagine: di questo passo rischia di diventare una sorta di dipendenza, ma tanto non è come per le bibite gassate o per i gelati, non fa male e se ingrassa è solo per accumulo di intelligenza e buon umore. Mi piacerebbe scrivere libri di viaggio alla maniera di Bill: e lo dico così, con tutta l'umiltà.

Ho appena finito di leggere anche Piccola grande isola. Come il postino che suona sempre due volte, Bill torna a raccontare nel paese a cui 20 anni fa dedicò Notizie da un'isoletta. Nel frattempo il giovine di improbabili speranze che un giorno sbarcò in Inghilterra è diventato autore affermato, ha messo su casa, famiglia e presumibilmente anche diversi chili di troppo. Ma nel frattempo, è evidente, qualcosa è successo anche a questo paese, che pure tra tutti è il più incredibilmente tenace  nel voler rimanere uguale a se stesso.

Bill prova a raccontarcelo in Piccola grande isola (Guanda), seguendo il filo di un viaggio più strampalato degli altri, perché l'idea è questa: prendere una mappa della Gran Bretagna, un righello e una matita; tracciare la più lunga linea retta tra due località; e quindi mettersi in viaggio, seguendo quella linea da sud a nord.

La Bryson Line congiunge Bognor Regis, cittadina sulla manica che ha visto tempi migliori, a Capa Wrath, in Scozia, faro sbattuto dalle onde atlantiche. Ma in mezzo c'è tutto il resto, compreso un numero esorbitante di divagazioni. E con esse storie, incontri, riflessioni, aforismi fulminanti. 

Il tutto sorretto da alcune convinzioni: che quest'isola di nebbia e pioggia che a volte sembra volerci punire con la monotonia sia in realtà il posto con maggiore concentrazione al mondo di cose da vedere (in realtà anche l'Italia non scherzerebbe, ma volete mettere con l'amore britannico anche per il più modesto dei dettagli?); che in fondo sia un paese fondamentalmente saggio (il voto sulla Brexit qualche dubbio me lo ha instillato); e che tuttora registri una sorprendente qualità della vita o comunque una capacità di contentarsi di quello che ha: unico popolo al mondo davvero capace di illuminarsi di fronte a una bevanda calda e a un semplice biscottino. 

Magari sarà anche per il clima, che insegna pazienza e stoicismo. Che dire, meglio lasciare l'ultima parola al vecchio Bill.

  Un britannico che si trovi in un campo minato, e al quale sia saltata in aria una gamba, ma che possa comunque dire “Te l'avevo detta che sarebbe andata a finire così”, è veramente un uomo felice. E questo, in un popolo, mi piace moltissimo. 

venerdì 18 marzo 2016

Un mistero che sa di vento, salsedine e vecchia Scozia

Prima di tutto c'è il vento che su queste isole batte incessante. Prima di tutto ci sono le nuvole enormi che ridisegnano senza requie il cielo e ci sono le scogliere che precipitano su un mare profondo, pericoloso, agitato. Prima di tutto c'è un mondo alle estremità del mondo, con la sua gente rude, abbarbicata alle sue tradizioni, alla sua lingua gaelica, a una vita che non è cambiata poi tanto, nonostante i Suv e la tv satellitare. Pesca e pastorizia, pioggia e birra scura al pub: benvenuti nell'isola di Lewis, nell'arcipelago delle Ebridi, lembo di Scozia a ovest di tutta l'Europa.

Prima di tutto c'è questo, ma poi c'è un mistero, che riemerge prepotente dal passato e dalle acque di un laghetto prosciugato, con un piccolo velivolo e dentro la carlinga quello che rimane del corpo di una vecchia conoscenza. E c'è un omicidio che esige ancora verità e ci sono molti conti da regolare. Ci sono ragazzi che non sono più ragazzi, cresciuti con bevute, musica celtica e diverse cose che tra loro non sono state dette. E c'è Fin Macleod, ex poliziotto scozzese, che alla sua isola ha fatto ritorno per ricominciare un'altra vita dopo che la precedente è andata a pezzi.

Che bellezza L'uomo degli scacchi di Peter May (Einaudi), atto conclusivo di una trilogia che comprende anche L'isola dei cacciatori di uccelli e L'uomo di Lewis. Che fosse una trilogia l'ho scoperto solo nel bel mezzo del libro. Quasi quasi vado subito a comprarmi gli altri due. Quasi quasi vado a vedere se c'è un aereo per l'isola di Lewis.

domenica 6 dicembre 2015

Dalla Scozia l'investigatore con i filosofi nel cassetto


"Avanzò al centro della stanza, per fare spazio alla sua idea di se stesso".

"Lei attese con pazienza che tornasse dopo essersi fatto un giro intorno al suo senso di colpa".

"Possiedo un'assenza affascinante, aveva detto"

"A volte ho perso ai punti boxando da solo".

Difficile lasciarsi dietro una delle pagine di William McIlvanney senza trovare almeno una frase potente e spiazzante come quelle che vi ho trascritto qui sopra. Di questo autore, figlio di un minatore scozzese e insegnante di letteratura a Glasgow non avevo mai letto niente. Anzi, diciamo pure che non avevo mai sentito parlare, nonostante i suoi lavori più fortunati risalgano ormai a una quarantina di anno fa. Si tratta della trilogia dedicata all'ispettore Jack Laidlaw, verso la quale hanno un enorme debito di gratitudine anche autori come Ian Rankin e Irvine Welsh.

Beh, se ho comprato Come cerchi nell'acqua (Feltrinelli) e l'altra sera ne ho attacco la lettura è stato solo per la quarta di copertina che mi prometteva una storia ambientata nelle squallide periferie di Glasgow, tra sordidi pub e locali ancora più equivoci.

C'è voluto assai poco per lasciarmi conquistare. Il primo paragrafo, la prima pagina, poi avanti. Non per una trama mozzafiato, che tale non è, anzi. Ma per la scrittura rara, soprattutto nei paraggi del noir. E per questo personaggio così particolare, questo ispettore che è battitore libero e pecora nera, animato da una forte idea di giustizia e allo stesso tempo abbondantemente disincantato, capace di riconoscere un'umanità anche nel più temibile dei gangster e consapevole che un'inchiesta è in primo luogo un'inchiesta su se stessi.

Uno, per dire, che nel cassetto nascoste le bottiglie, ma anche i libri di Camus e dei filosofi dell'esistenzialismo. E si vede, anzi, si legge. Merita.

lunedì 1 settembre 2014

La strada blu, in Canada, estremo Nord

Il Labrador. Avevo undici anni quando questo paese - la terra che Dio diede a Caino, come la chiamava il capitano Cartier - mi fece segno. Fu grazie a un libro e alle immagini che conteneva: indiani, eschimesi, montagne, pesci, e lupi bianchi che ululavano alla luna.

Ecco, non può essere per qualcosa del genere. Per le dita che frugano su un mappamondo fino a fermarsi su un colore e un contorno. Per la fantasia che galoppa a briglia sciolta sulle pagine di un libro. Per le scelte che solo a un'età tenera possono essere tanto pure e determinate da sentirsele come una pelle, che c'è ed è quella che è.

E' così che una terra diventa l'altrove, il tuo altrove. Te ne sei innamorato prima ancora di metterci piedi. Anzi, forse i piedi non ce li metterai mai. Non importa. Come, per quanto mi riguarda, non mi importa nemmeno capire se il mio autentico altrove è la Scozia di un viaggio adolescenziale e di alcuni film oppure il Sarawak di Emilio Salgari.

Per Kenneth White l'altrove è invece il Canada (un ottimo altrove, aggiungo io), anzi, più che il Canada il Labrador, l'estreno nord che anche per i canadesi non merita. Non c'è nulla, perché andarci?

Ma è proprio quel nulla che da sempre ha rapito Kenneth White. In quel nulla ci sono silenzi, spazi. In quel nulla, in effetti ci sono anche storie, persone.

Vite di ieri, come quelle dello scozzese che bruciò la Bibbia e si fece sciamano o del nobile francese che si confinò in un faro "lontano dagli imbecilli e, soprattutto, lontano dagli intellettuali". E vite di oggi come quelli di indiani che non si sa bene come vivano oggi, perché con loro il mondo è stato una corriera che non si è fermata e li ha abbandonati sul ciglio della strada. Però non rimangono solo bottiglie da scolare, ci sono segreti da conservare, orizzonti da scrutare, feste a cui invitare quello svitato di straniero.

Quante cose, davvero, in quel nulla. Silenzi da ascoltare, vuoti che non sono vuoti. E più si sottrae, più c'è. Più si può cogliere la possibilità di una poesia. La poesia definitiva che solo l'altrove personale, questo altrove, può davvero consentire.

Perché questo succede con la strada blu. Quella del titolo di un libro di viaggio, proposto da Amos edizioni, che e tra i più originali e intensi che mi siano capitati negli ultimi tempi.

Non ho capito bene cosa sia la strada blu. Però sto già indagando sulle parole che mi aiuteranno a designarla davanti ai miei passi...

sabato 5 gennaio 2013

L'Edimburgo senza emozioni di 44 Scotland Street

Cosa può fare una copertina accattivante, un titolo che a suo modo intriga e - ma questo vale solo per il sottoscritto - quella parola - Scotland - capace di scatenare inesauribili fantasie e possibilità di seduzione.

Ho comprato praticamente a scatola chiusa, 44 Scotland Street di Alexander McCall Smith, professore di medicina legale di cui in passato avevo letto una detective-story che non mi era affatto dispiaciuta. E forse anche per questo mi sono tuffato in queste pagine, con la speranza di un delitto da risolvere tra pub e nebbie di Scozia.

Invece ecco qui, un romanzo caruccio e leggerino, con una serie di improbabili personaggi che abitano il palazzo di cui all'indirizzo del titolo e girano intorno a un quadro che non si sa se sia capolavoro o crosta.

Caruccio, leggerino e verboso. Senza traccia di quell'umorismo anglosassone che pure pretenderebbe la sua parte. Con ben poca tensione. Capace di salvarsi solo per il garbo della scrittura e l'ambientazione in quel posto da incanto che è sempre e comunque Edimburgo.

E magari va anche bene così, se è per qualche ora di lettura in libertà.

domenica 27 maggio 2012

Tutti noi vorremmo che Nessie esistesse davvero

Nessie è un sogno, un delirio.
Nessie è il bambino che giace latente dentro di noi, il desiderio di non crescere mai, la voglia di giocare e la voglia di vivere.
E' la forza interiore, anche quando la speranza cade, che ci spinge a dire che non è finita.
Nessie è l'innocenza e il mistero assieme: è il mito e forse anche la fede.
Tutti noi, in una piega del nostro cuore, vorremmo che Nessie esistesse davvero.

A modo suo, anche Nessie, così come gli scozzesi hanno affettuosamente ribattezzato il fantomatico mostro di Loch Ness, è uno dei protagonisti dell'ultimo giallo di Andrea Gamannossi, Nessie (morte sul lago), uscito per Mauro Pagliai editore.

E dico giallo, ma la definizione va stretta, perché è vero che omicidi e indagini non mancano, è vero che tutto ruota intorno al volto da dare all'assassino, però Nessie si aggira anche dalle parti del gotico romantico. E aggiungo, anche della favola moderna: capacità di invenzione e  potere evocativo della pagina al servizio di una fondamentale lezione di civiltà sulle differenze che non ci sminuiscono, anzi.

E sarà pure che ogni qual volta mi balena davanti la parola Scozia sento qualcosa sciogliersi dentro: prendetela come un pregiudizio a favore. Però che piacere inseguire pagina dopo pagina questa storia...




giovedì 29 luglio 2010

Alla festa di compleanno di Claudia Severa

 Claudia Severa alla sua Lepidina, saluti. Ti invio un caloroso invito a venire da noi l’11 settembre, per la mia festa di compleanno, in modo da rendere il mio giorno ancora più piacevole grazie alla tua presenza. Porgi i miei saluti al tuo Ceriale. Il mio Elio saluta te e i tuoi figli.
Ti aspetto, sorella. A presto, mia cara

Che dite? Parole così potrebbe averle scritte una vostra amica? Certo che sì: questo è un invito di compleanno quale ciascuno di noi ha ricevuto o potrebbe ricevere, non importa se con un biglietto o per posta elettronica non importa. Claudia Severa per la sua cara Lepidina.

E dunque, se per una volta non parlo di un libro, ma di una manciata di parole come queste, è perché nessuno me le ha indirizzate. Le ho trovate qualche giorno fa in Inghilterra, camminando lungo il Vallo di Adriano, l'estremo confine settentrionale degli antichi romani (di qua l'Impero, di là i barbari della Scozia).


E' un posto bellissimo, il Vallo di Adriano, anche se da noi italiani ingiustamente ignorato. Pieno di possibilità di sorprese, anche.

La più bella è stata questa. In questo posto di frontiera, ai confini del mondo conosciuto, in questo posto di brughiere, tribù ostili, inverni gelidi, proprio qui sono state ritrovate le "tavolette" (writing tablets) che sono le prime testimonianze scritte nella storia della Gran Bretagna. E quell'invito a una festa di compleanno è la prima cosa scritta tra due donne nella storia di Roma (e quindi anche  nella storia della nostra Europa). La prima, ovviamente, tra quante sono arrivate sino a noi.

In queste tavolette non c'è il latino degli scrittori. E' una lingua semplice, comune, non priva di errori. Una lingua che racconta la vita di tutti i giorni: acquisti da fare, pranzi da organizzare, punizioni da evitare, raccomandazioni da richiedere (usava anche allora...).

Ma tra tutte sono le parole di Claudia Severa ad avermi destato una strana commozione. E' un po' che me le porto per me, assieme al ricordo di una donna di secoli e secoli fa finita davvero in un altro mondo, o al confine del suo mondo. Di una donna che può invitare a una festa di compleanno usando le parole di una donna di oggi.

Quell'antica romana oggi mi sembra viva, in  qualche modo. E pensare a lei è pensare, ancora una volta, allo straordinario potere delle parole. Anche quando quelle parole non finiscono in un libro.






 

domenica 4 luglio 2010

Quelle romantiche piogge di Inghilterra

Innanzitutto un annuncio personale: domani parto per alcune settimane in Inghilterra del Nord e per la Scozia nel corso del quale, tra le altre cose, intendo percorrere a piedi tutto il Vallo di Adriano, da mare a mare. Mi porterò con me le Memorie di Adriano della Yourcenar (utile rilettura per meditare ancora sulle questioni del potere e della felicità), camminerò il più possibile. E dico la cosa più banale (un po' meno banale per gli inglesi, che si sa, di questo parlano molto): spero che il tempo mi assista.

Proprio oggi (sarà un caso? O i libri si danno da fare per bussare alla porta della tua vita proprio quando occorre?) l'occhio mi è cascato su una pagina del grande Mario Praz. Un suo articolo, Ville inglesi, anno1958. Sentite cosa dice a proposito di certe idee romantiche sulla meteorologia con annesse predilezioni da turista o viaggiatore.

Quella di vedere i paesi nella loro stagione tipica era un'idea romantica di Théophile Gautier: bisognava vedere la Spagna d'estate e sentire la terra scottare attraverso la suola delle scarpe, e la Russia d'inverno e strofinarsi il naso contro il gelo. Nel 1923 dovevo ancora essere sotto l'influsso di simili idee romantiche, perché non mi sarebbe affatto dispiaciuto vedere a Londra la grande nebbia: non era la "ciudad de las nieblas" secondo uno scrittore spagnolo che allora godeva di una certa fama?
Tuttavia, per quel che riguarda l'Inghilterra, una volta che uno ha veduto che miracoli possano produrre in quel paese il cielo azzurro e la bella stagione, non potrà non considerare con pietà il punto di vista romantico alla Gautier

Anch'io sono piuttosto propenso a respingere questa idea romantica. Sono convinto che la poesia del Lake District o dello Yorkshire mi arriverà meglio, senza scarponi bagnati e umido nelle ossa. Che Giove Pluvio mi assista.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...