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mercoledì 30 dicembre 2015

Poche pagine per raccontare grandi vite

Ci sono Voltaire e Zenone, Baudelaire e Teresa d'Avila, Freud e Pitagora, Balzac e Ildegarda de Bingen, ci sono loro e ci sono tanti altri personaggi, tante altre figure che hanno lasciato il loro segno. Scrittori e mistici, poeti e sapienti, sovversivi dello spirito e sognatori.

Che galleria, quella che percorriamo con Silvia Ronchey ne Il guscio della tartaruga (Nottetempo), magari scoprendo che per raccontare la loro vita, per spremerne il succo, non c'è bisogno di volumi ponderosi, possono bastare anche tre paginette di parole distillate.

Che cosa hanno in comune? Che cosa raccontano davvero le loro vite?

Forse il genio, la forza della creatività, la fame di profondità.

Forse. Ma in comune c'è soprattutto lo sguardo di una storica che non si accontenta di mettere insieme nomi e date (date, anzi, non ce ne sono proprio), ma che cerca lampi di umanità, frammenti di vita autentica.

Questo non è un dizionario di uomini (e donne) illustri.

Piuttosto una trama di citazioni, profonde, illuminanti, spiazzanti, essenziali per il tessuto del nostro passato, del nostro presente. E' bello perdersi dentro. 

sabato 12 novembre 2011

James Hillman e il tempo che scivola via

Com'è morire?, domanda Silvia Ronchey a James Hillman, lo psicanalista americano che con libri come Il codice dell'anima e Saggio su Pan, ci ha regalato nuovi modi di vedere e intendere non solo la morte, ma soprattutto la vita.

Com'è morire?, gli ha chiesto Silvia Ronchey, che non è solo la studiosa del mondo bizantino o la biografa di Ipazia di Alessandria, ma una donna che sa affondare lo sguardo nelle domande che più di tutte contano e che per questo si è spinta fino alla casa del Connecticut dove James Hillman ha abitato gli ultimi sui giorni su questa terra.

E così le ha risposto James Hillman, con parole che, certo, non sono solo le parole di un'intervista su Tuttolibri:

Uno svuotamento. Si comincia svuotandosi. Ma, si potrebbe chiedere, che cos'è o dov'è il vuoto? Il vuoto è nella perdita. E che cosa si perde? Io non ho "perso" nel senso comune di  "perdere". Non c'è perdita in quel senso. C'è la fine dell'ambizione. La fine di ciò che si chiede a se stessi. E' molto importante. Non si chiede più niente a se stessi. Si comincia a svuotarsi degli obblighi e dei vincoli, delle necessità che si pensavano importanti. E quando queste cose cominciano a sparire, resta un'enorme quantità di tempo. E poi scivola via anche il tempo....

sabato 4 giugno 2011

Se è Omero che potrà salvarci

La guerra, per un attimo, era sembrata lontanissima. Molto tempo prima, avevamo bevuto alla stessa sorgente....

Che straordinaria occasione nel bel mezzo del massacro, quel giorno sotto il sole di Creta,  lo sguardo a scendere giù per le rocce fino al mare che era stato lo stesso mare di Odisseo. Il generale nazista e l'uomo che lo ha fatto prigioniero. E in mezzo una manciata di versi che arrivano dal mondo classico e che, per un istante, segnano la possibilità di una tregua.

E' con questo ricordo da Tempo di regali di Patrick Leigh Fermor (Adelphi) che comincia una bellissima pagina su Tuttolibri di Silvia Ronchey, titolo Omero, solo tu ci salverai. Dice, Silvia Ronchey:

L'antico sospende il tempo, l'eterno sconfigge la storia
Il classico, spiega Silvia Ronchey, sconfigge quelle che Braudel chiamava le increspature di superficie, le mode passeggere, gli appetiti più o meno devastanti, gli eventi che sembrano cambiare tutto e che invece svaniscono, lasciando quello che c'era prima.

Per Marguerite Yourcenar amiamo il passato perché è il presente sopravvissuto nella memoria dell'umanità. Per Walter Benjamin un classico è tale e resiste lungo i secoli poiché in qualunque tempo sia stato scritto usa sempre la lingua del presente.

Dice ancora Silvia Ronchey:

I veri classici non fuggono, sfidano e sono sempre pericolosi. Un classico è sempre eversivo, sempre trasgressivo, sempre anticonformista... Non ha quindi senso chiederci se i classici antichi abbiano un futuro. Pe definizione, ci aiutano a scavalcare il presente, le sue effimere ideologie, i suoi dibattiti, gli schemi del nostro pensare. E in questo senso ci avvicinano, più ancora che al passato - a noi in effetti sempre inconoscibile - al futuro. 

Non  so se ne sono completamente convinto, ma anch'io voglio crederci


venerdì 20 maggio 2011

Bisanzio, la civiltà che abbiamo fatto sparire

Aggiungi didascalia
Una civiltà, diciamo pure, inferiore

Così sì è detto a lungo, e se non si dovrebbe dire di nessuna civiltà, figuratevi se si può dire di Bisanzio. Eppure, si dica o no, questa civiltà l'abbiamo fatta sparire. Dalla nostra consapevolezza, dal nostro immaginario. Mille anni di storia condensati in poche righe dei manuali scolastici, in qualche luogo comune, nei diversi nomi di una capitale (Costantinopoli, Bisanzio, Istambul), nell'idea di un mondo complicato e sanguinario.

Pensate, cosa è rimasto se non un aggettivo che non rende giustizia? Bizantino, cioé sottile, eccessivo, pedante, arzigogolato...

Per fortuna che poi arrivano libri come L'enigma di Piero di Silvia Ronchey che, in modo magnifico, riescono a ristabilire le misure e a ripagare i debiti. Perché si può far finta di ignorare che per secoli non ci fu nemmeno la percezione della caduta dell'impero Romano, perché Roma era diventata semplicente Bisanzio. Ma alla fine bisognerà riconoscere che anche il Rinascimento non sarebbe stato il Rinascimento senza Bisanzio.

Che bello, questo libro, che parte da un quadro di Piero della Francesca e dal suo enigma, per abbracciare un intero mondo, una civiltà e le sue possibilità. Roma e la seconda Roma. Roma e l'Islam. Bizanzio e l'Europa ancora da costruire.

E questi straordinari personaggi, completamente dimenticati. Prima di tutto Bessarione - sfido chiunque a sapere chi è - filosofo neopagano e insieme alto prelato cristiano, uomo di immensa cultura e di immenso potere che coltivò due grandissimi sogni: prima salvare Bisanzio dal naufragio della storia, poi consegnare l'eredità di Bisanzio all'Occidente che pure non si era mosso per salvarla.

Fallì nel primo obiettivo, ma quanta arte, quanta filosofia, quanti tesori gli dobbiamo, grazie alla sua opera.

Bessarione diceva:

Non c'è tesoro più prezioso, non c'è tesoro più utile e bello di un libro. I libri sono pieni delle voci dei sapienti, vivono, dialogano, conversano con noi, ci informano, ci educano, ci consolano, ci dimostrano che le cose del passato più remoto sono in realtà presenti, ce le mettono sotto gli occhi. Senza i libri saremmo tutti dei bruti

Quanto gli dobbiamo, quanto lo abbiamo dimenticato.

martedì 17 maggio 2011

Charles Baudelaire e la bellezza come congettura

Se scriveva, forse era solo perché il tempo si può mettere fuori gioco, o almeno dimenticare, solo usandolo. Scrivere è sempre stato un buon modo di ammazzare il tempo.

Charles Baudelaire, ancora lui. E ancora tre pagine di Silvia Ronchey da Il guscio della tartaruga per restituirmelo in tutto il suo mistero, con lo splendore di un'arte che fu splendido equivoco, perché l'arte può allievare, ma non salvare.

Scrive Silvia Ronchey:

Charles Baudelaire fu un traduttore, ma per poco, un viaggiatore, ma per poco, un giornalista, ma per poco, un rivoluzionario, ma per pochissimo. Fu più a lungo un bevitore e un fumatore di hashish. Fu sempre un poeta.

Scrive Silvia Ronchey:

La sua anima era una tomba che, come un cattivo monaco, percorreva e abitava da un'eternità

Scrive Silvia Ronchey:

Secondo Baudelaire la bellezza è qualcosa di ardente e triste, qualcosa di un po' vago, che lascia adito alla congettura

E quanta bellezza nella sua poesia. Quanta possibilità di congettura, intorno a un uomo e al suo segreto.

mercoledì 11 maggio 2011

Ipazia e quel mistero che affonda nel cuore

C'era una donna allora ad Alessandria, il cui nome era Ipazia. Era figlia di Teone, filosofo della scuola di Alessandria, ed era arrivata a un tale vertice di sapienza da superare di gran lunga tutti i filosofi della sua cerchia

Così ci ha lasciato detto uno storico cristiano, Socrate Scolastico, e in fondo è poco meno di quanto sappiamo di Ipazia, donna che con la sua morte, prima ancora che con la sua vita, è diventata simbolo di molte cose. Donna che ha finito per rappresentare tutte le donne escluse e perseguitate, ma anche tutte le vittime dell'intolleranza e del fanatismo religioso. Lei, la pagana che nel quinto secolo dopo Cristo, nella metropoli della grande biblioteca, fu aggredita e massacrata da una schiera di monaci

Chi era davvero, Ipazia? Sacerdotessa o matematica? Eccentrica aristrocratica o raffinata filosofa? E perché fu uccisa?

A domande come queste ha provato a dare risposta una storica come Silvia Ronchey in Ipazia. La vera storia, un libro che è assai più bello del suo titolo, anzi del suo sottotitolo, decisamente fuorviante, perché questo è un libro che procede per sottrazione, che ripulisce le incrostazioni dei luoghi comuni, che mette in discussione i fatti assodati.

Il racconto di Ipazia allora diventa una sorta di Rashomon - vi ricordate la storia di quel delitto nel Giappone dei samurai, visto da diversi testimoni e da tutti raccontato in modo diverso?

E mentre si sgretolano le certezze di chi deve dare un senso a tutto, mentre ogni idea di piano o complotto convince meno della possibilità di un delitto mosso dall'oscurità umana di sempre - l'invidia che acceda, per esempio - ecco, sembra quasi di saperne di più sapendone in effetti di meno.

E di fronte a un assassinio per cui nessuno ha pagato - al contrario di quanto succede nei gialli - di fronte a questa vita che ci sfugge come sabbia tra le mani, con Silvia Ronchey possiamo condividere una sola convinzione:


Una cosa è certa: siamo e saremo sempre dalla parte di Ipazia

Che non è nemmeno poco.

lunedì 2 maggio 2011

Per la vita dei grandi bastano tre paginette

Ci sono Voltaire e Zenone, Baudelaire e Teresa d'Avila, Freud e Pitagora, Balzac e Ildegarda de Bingen, ci sono loro e ci sono tanti altri personaggi, tante altre figure che hanno lasciato il loro segno. Scrittori e mistici, poeti e sapienti, sovversivi dello spirito e sognatori. Che galleria, quella che percorriamo con Silvia Ronchey ne Il guscio della tartaruga, magari scoprendo che per raccontare la loro vita, per spremerne il succo, non c'è bisogno di volumi ponderosi, possono bastare anche tre paginette di parole distillate.

Che cosa hanno in comune? Che cosa raccontano davvero le loro vite?

Forse il genio, la forza della creatività, la fame di profondità.

Forse. Ma in comune c'è soprattutto lo sguardo di una storicache non si accontenta di mettere insieme nomi e date (date, anzi, non ce ne sono proprio), ma che cerca lampi di umanità, frammenti di vita autentica.

Questo non è un dizionario di uomini (e donne) illustri.

Piuttosto una trama di citazioni, profonde, illuminanti, spiazzanti, essenziali per il tessuto del nostro passato, del nostro presente.

venerdì 29 aprile 2011

L'enigma di Piero per arrivare a ciò che noi siamo

Partire da un quadro e abbracciare tutta un'epoca, una storia straordinaria, una folla di personaggi, un mistero su cui da sempre si scervellano gli studiosi, affermando tutto e il contrario di tutto.

A Urbino nella Galleria nazionale c'è un dipinto di Piero della Francesca, la Flagellazione, di cui ignoriamo la committenza, la data precisa, il significato.

E' da questo enigma che parte Silvia Ronchey, per regalarci  con L'enigma di Piero, un affresco grandioso, o meglio, un mosaico in cui ogni tessera potrebbe essere un libro a parte, una storia nella Storia, una possibilità, una divagazione necessaria.

Come un film, che scivola via con il suo montaggio secco, con i suoi salti di tempo e di luogo, i suoi flash-back e i suoi colpi di scena.

Un racconto corale, ma anche la cultura più raffinata che si fa avvincente come una detective story: grande abbuffata per nobilitare la curiosità intellettuale e offrirci l'impressione che sia (quasi) indispensabile.

Perché poi tutto ruota intorno all'evento degli eventi, quello che piombò sulla nostra civiltà e la cambiò una volta per tutte, 11 settembre infinitamente più devastante e irreparabile: la caduta di Costantinopoli quel giorno del 1453 di cui troppo facilmente oggi ci scordiamo le conseguenze.

giovedì 21 aprile 2011

Ogni dialogo ha bisogno del suo posto


Ah, per Giunone, che bel posto per riposare! Con questo platano così ampio di fronde e così alto! E che slancio quell'ippocastano, che bellissima ombra! E' al colmo della sua fioritura e spande profumo per tutto il luogo. Una sorgente deliziosa scorre sotto il platano con acque fresche, come si può sentire con il piede. E la bellezza del posto, quant'è amabile e dolce! Melodia estiva che risponde al coro delle cicale. Ma più gentile di tutto è quest'erba, cresciuta così soffice sul dolce pendio, perché chi vi si sdraia possa appoggiarvi la testa. Sei stata una guida stupenda, Fedro caro

Sono le parole con cui prende avvio uno dei più grandi dialoghi di Platone, il Fedro, pietra miliare della storia della filosofia. Il ragionamento sull'amore, il destino delle anime dopo la morte, la dottrina delle idee... quante cose che si trovano, nelle parole del giovane ateniese Fedro e soprattutto di Socrate.

Ma l'inizio è questo e mi fa pensare cosa di esso dice un filosofo dei nostri tempi come James Hillman, in una conversazione con la storica Silvia Ronchey (pubblicato da Bur col titolo Il piacere di pensare.... anche questo un dialogo....). E cioé che quelle parole non solo una delle più belle descrizioni di un ambiente della letteratura greca. Sono di più, sono una condizione stessa del dialogo.

Ognuno dei dialoghi platonici comincia in un luogo. Nel senso che quei dialoghi sono collocati nello spazio. Noi, astratti pensatori occidentali, non prestiamo attenzione a dove sono collocati e ne discutiamo le idee, i concetti

Ma poteva il dialogo sull'amore e sulla bellezza, sui sentimenti e i desideri prescindere da quel giardino meraviglioso?

Può essere un dettaglio, ma magari anche questo è un modo per rimettere a posto la nostra vita: trovare i posti giusti alle nostre parole (e a quelle degli altri).

mercoledì 13 aprile 2011

Gustave Flaubert, che scriveva come respirava

Vi piace Gustave Flaubert?

Quanto è ancora letto, Gustave Flaubert?

Chissà che non vi faccia venire qualche appetito il ritratto che le dedica Silvia Ronchey in Il guscio della tartaruga...

Chissà che non venga voglia di leggerlo come lui pretendeva che si leggesse:

Non leggete come fanno i bambini, per divertirvi, né, come gli ambiziosi, per istruirvi. No, leggete per vivere

E a prescindere dal fatto che io non sia del tutto convinto che si debba fare proprio così  - magari si potesse leggere come i bambini - che righe come fasci di luce Silvia Ronchey getta su di lui, su questo scrittore che quasi si svuotò di vita per riempirsi solo di scrittura.

Lui che sosteneva:


Una frase ha valore quando corrisponde a tutte le le necessità della respirazione

Lui che ne era convinto:

L'artista deve fare in modo che la posterità creda che non abbia vissuto

Antico dilemma, quello che contrappone l'arte alla vita. Anche a questo credo poco: ma fa bene rifletterci sopra, di tanto in tanto.


martedì 12 aprile 2011

Diceva Fitzgerald, scrivere è nuotare sott'acqua

E che dire di Francis Scott Fitzgerald, lo scrittore in perenne crepuscolo?

Ancora una volta le tre paginette di Silvia Ronchey, la sua vita vera nel suo Il guscio della tartaruga, vale un'intera biografia, anzi, è più di una biografia, è il succo spremuto da una vita.

Vita che fu la storia della lotta tra un tremendo bisogno di scrivere e una serie di circostanze che tendevano a impedirglielo.

Fitzgerald, intelligenza di prim'ordine, in perenne lotta con se stesso, perché intelligenza è coltivare nella mente due idee opposte e ciononostante continuare a farla funzionare

Fitgerald, anzi, i molti Fitgerald:

E gli scrittori, se valgono qualcosa, sono un intero mucchio di individui che si sforza disperatamente di essere un'individualità sola

I giorni peggiori, diceva Fitzgerald, non erano quelli in cui non riusciva a scrivere, ma quelli in cui si chiedeva se scrivere valeva la pena

Perché domandarselo, è già il problema.

Perché, secondo Fitzgerald, scrivere bene è sempre nuotare sott'acqua e trattenere il fiato.

lunedì 11 aprile 2011

L'africano che al mistero diede del tu



E Agostino, il grande Agostino, il filosofo, il teologo, il maestro dello spirito, il vescovo di Ippona.


Agostino era africano. E già questo qualcosa lo dice. Comincia così il suo ritratto di Agostino la storica e scrittrice Silvia Ronchey, nel suo straordinario Il guscio della tartaruga (Nottetempo), galleria di vite più che vere ricostruite attraverso la trama delle loro citazioni.

Bello, davvero bello: uno sguardo sbilenco e curioso, la capacità di cogliere il corpo vivo, pulsante, sotto il guscio della tartaruga, appunto.

E Agostino, allora. Agostino che ebbe un'anima turbata e una prosa incantata. Che da ragazzo si imbestialì in amori diversi e tenebrosi. Che divenne un grande enigma a se stesso e prese a domandare alla sua anima perché fosse così triste.

Agostino che capì che la tristezza si consuma perché perde ciò che desidera nel momento in cui lo possiede. E che il piacere, dunque, non potrà mai scindersi dal suo contrario, il dispiacere, come due lati della stessa medaglia.

E forse fu proprio per questo che Agostino divenne Agostino, colui che oggi conosciamo o diciamo di conoscere.

Al mistero Agostino diede del tu

Lo cita Silvia Ronchey, che io cito, nello stesso libro in cui ci racconta di Charles Baudelaire.

mercoledì 30 marzo 2011

Il mistero di Ipazia, la fatica dello storico

Chi era davvero Ipazia?

Chi era oltre le definizioni perfino troppo facili - la donna di scienza, la sacerdotessa, l'intellettuale pagana?

Chi era oltre quello che è il fatto nudo e crudo del suo assassinio - quel giorno del quinto secolo ad Alessandria di Egitto, quando un manipolo di monaci fanatici la aggredì e la fece a pezzi?

La sua storia ce la racconta Silvia Ronchey, in un bel libro, che però più che dare risposte, mette a nudo la fatica e i dubbi dello storico, per lo meno dello storico che non vuole vendere verità purché siano.


Ma dietro tante maschere o visioni che cosa si cela? si chiede Silvia Ronchey. E così il discorso si inoltra in sabbie mobili da far paura, perché si capisce che il fatto non è mai solo il fatto e non sono mai solo le incrostazioni delle versioni che di quel fatto sono state date, è che il fatto è già qualcos'altro appena viene ricordato, raccontato, commentato.

Chi era Ipazia, la donna che di volta in volta è stata rappresentata come simbolo di libertà, martire dei fanatismi, simbolo della condizione della donna nella storia?

Dice Silvia Ronchey che bisognerebbe procedere per sottrazione, più che per l'aggiunta di tratti: Siamo certi, o quasi, di ciò che quella donna non è stata.

E meno male che tra le cose quasi certe c'è questa: cercava la verità, amava il dubbio, detestava la manipolazione.

Può bastare, come no.




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