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mercoledì 30 luglio 2014

I versi di Callimaco in un vecchio quaderno di liceo

Io consiglio a te anche questo, di non andare dove camminano i carri, e non spingere il carro sulle stesse orme degli altri né per una strada larga, ma per strade non battute, anche se spingerai il tuo carro per una strada più stretta.

Ho fatto una prova: questa frase è facile pescarla su Internet, anche se non sapete chi l'ha scritta, né a quale opera appartenga. Basta digitare la parola gioventù e scegliere su uno dei tanti elenchi di citazioni. Un attimo ed ecco qui: non andare dove camminano i carri...

Pochi click per catturare parole che resistono da duemila anni e più: il prologo delle Origini di Callimaco, poeta dell'antica Alessandria di Egitto... non spingere il carro sulle stesse orme degli altri...

Qualche giorno fa mi sono imbattuto proprio in questa frase, però non su Internet. Su un mio quaderno del liceo. Più precisamente sul suo retro di copertina. Come se per me avesse un valore particolare.

Però non per la fatica della traduzione – chissà se l'ho davvero mai tradotta dal greco – o perché mi potesse tornare utile in vista di una interrogazione.

Quei versi dovevano essere importanti come per me lo erano i versi di Garcia  Lorca, di Pablo Neruda, di Vladimir Majakovskij.

I versi che un ragazzo di nemmeno diciotto anni ricopia inseguendo i suoi sogni.

venerdì 15 febbraio 2013

Storia di Nadja, la donna che sposò Stalin

Nei rari momenti di quiete familiare, Nadja cercava di parlare a Josif, gli domandava se era davvero necessario che tutti quei compagni venissero espulsi, addirittura arrestati. Si sentiva ogni volta rispondere che non erano questioni che la riguardavano e veniva spedita in cucina ad occuparsi della cena....

Nadja era una che alla Rivoluzione credeva. Nadja per il partito avrebbe fatto tutto, senza cercare un posto in prima fila o sul palco. Nadja chiamava comunismo non solo un mondo nuovo, ma anche un uomo nuovo, solo che intorno a sè vedeva sparire il meglio e avanzare la schiera dei cortigiani e dei pavidi. Nadja amava suo marito, solo che questo non bastò a salvare se stessa. Il problema è che suo marito si chiamava Stalin.

Che grande libro, che è La scelta di Nadja. Io, la moglie di Stalin, ultimo libro di Angela Feo, pubblicato da Sossoscritto. Si legge con un solo balzo, ma poi rimane accucciato tra il cuore e la testa, in un caleidoscopio di emozioni e domande. Un libro che sa essere molte cose: un romanzo sotto forma di biografia, ma anche un saggio che sa conquistare come sa fare solo la grande narrativa. Con quel linguaggio asciutto, senza effetti speciali, che è proprio dei giornalisti che sanno raccontare le storie della Storia.

 E che gran personaggio che è Nadja, così complesso e affascinante che non si capisce perché l'industria culturale non ci abbia messo le mani sopra, magari per uno di quei film di cassetta per cui spesso mancano le buone idee.

Di lei scrisse la figlia Svetlana:

Oggi c'è chi fa di lei un monumento, chi la considera una malata di nervi e chi vittima di un assassinio. Ma lei non fu niente di tutto ciò. Fu semplicemente se stessa.

Per essere se stessa una sera Nadja si vestì meglio di altre volte, con un abito nero lungo e una rosa rossa tra i capelli. Tornò prima dal banchetto che doveva celebrare l'anniversario della Rivoluzione, tornò da sola. E in camera sua si uccise con un colpo di rivoltella.

Per quanto mi riguarda un libro che è stato un terremoto, allo stesso modo di un altro che, tanti anni fa, mi spiazzò e mi commosse in modo non troppo diverso: Una generazione che ha dissipato i suoi poeti di Roman Jacobson, su Majakovskij, Esenin e gli altri.

Un libro con il quale mi interrogherò a lungo sulla possibilità di un altro amore, di un'altra rivoluzione. Su un altro modo di vivere ed essere se stessi.


sabato 9 febbraio 2013

La rivoluzione che dissipò i suoi poeti

E prima di Maiakovskij toccò a Esenin, il grande Esenin, il poeta visionario e alcolizzato, il marito di Isadora Duncan, altro naufrago degli affetti e degli ideali. S’impiccò ai tubi del riscaldamento della sua camera all’hotel Astoria di San Pietroburgo. Poche ore prima, la notte del 27 dicembre, si era tagliato un polso e aveva scritto una poesia d’addio con il suo stesso sangue.

“Morire in questa vita, non è una novità – aveva scritto – Ma più nuovo non è certamente vivere”. Majakovskij lo aveva corretto: “In questa vita non è difficile morire - Vivere è di gran lunga più difficile”. Però chissà quali riflessioni gli strappò, solo il titolo di quell’ultima poesia: “A presto, amico mio, a presto”. Chissà.

Ti ringrazio, Tito, perché è merito di questo tuo viaggio tra le macerie dell’Unione Sovietica, se ho finalmente riaperto il cassetto dei miei ricordi, restituendo la luce ai miei poeti. Li avevo messi via, come si fa con una crisi adolescenziale di cui stentiamo a non vergognarci. Come l’album di fotografie che si abbandona a prendere la polvere.

Ora posso ritornare a uno dei libri che tra tutti mi hanno più emozionato nella vita. Pensa, un saggettino di poche pagine, uscito in quella collana dell’Einaudi con il quadrato rosso in copertina che negli anni Ottanta andava per la maggiore tra gli intellettuali di sinistra. Testi importanti e spesso anche decisamente pallosi.

Beh, a giudicare dal suo autore, pure questo libretto poteva essere classificato ad alto rischio di noia e indecifrabilità. Si tratta di Roman Jacobson, linguista di origine russa, maestro del pensiero che si definisce formalista e strutturalista – e pensa, Tito, ogni volta che nella cultura sento una parola che si chiude in –ismo, io propendo per la fuga.

Però il titolo è “Una generazione che ha dissipato i suoi poeti” e dentro c’è tutto quello che Majakovskij, ed Esenin, e tutti gli altri, mi hanno dato e poi tolto. C’è la bellezza della rivoluzione e il suo disastro. 

C’è la poesia che ha cantato una nuova epoca per essere poi da quest’ultima divorata, annichilita. La speranza e la disperazione. La vita che fa a pugni con la politica più alta, più generosa di ambizioni, quella che la vita la vorrebbe mutare dalle fondamenta. I versi che non ti possono salvare e che pure ti riscaldano il cuore. Preziosi. Insostituibili.

Non mi piacciono le citazioni troppo lunghe, lo sai, però questo brano di Jakobson te lo voglio trascrivere per intero. Dice esattamente quello che vorrei dirti, Tito, ma lo dice assai meglio di quanto potrei fare io.

In queste parole ci sei tu, e forse ci sono anch’io.

“Ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato. S’è spezzato il legame coi tempi. Abbiamo vissuto troppo del futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto, e per noi non c’è un’attualità autosufficiente: abbiamo perso il senso del presente.
Siamo i testimoni e i compartecipi di grandi cataclismi sociali, scientifici e d’altri ancora. La vita quotidiana è rimasta indietro. Secondo una splendida iperbole del primo Majakovskij, “l’altra gamba corre ancora nella vita accanto”. Sappiamo già che i più intimi pensieri dei nostri padri erano in disaccordo con la loro vita quotidiana. 

Ma i nostri padri avevano ancora dei residui di fede nel suo carattere confortevole e universale.

Neppure il futuro ci appartiene. Tra qualche decennio ci affibbieranno duramente il titolo di “uomini dello scorso millennio”. Quando i cantori sono uccisi e le canzoni trascinate al museo e attaccate con uno spillo al passato, ancora più deserta, derelitta e desolata diventa questa generazione”.

(Da Tito Barbini e Paolo Ciampi, Caduti dal Muro, Vallecchi editore)

venerdì 20 luglio 2012

La generazione che dissipò i suoi poeti

E prima di Maiakovskij toccò a Esenin, il grande Esenin, il poeta visionario e alcolizzato, il marito di Isadora Duncan, altro naufrago degli affetti e degli ideali. S’impiccò ai tubi del riscaldamento della sua camera all’hotel Astoria di San Pietroburgo. Poche ore prima, la notte del 27 dicembre, si era tagliato un polso e aveva scritto una poesia d’addio con il suo stesso sangue.

“Morire in questa vita, non è una novità – aveva scritto – Ma più nuovo non è certamente vivere”. Majakovskij lo aveva corretto: “In questa vita non è difficile morire - Vivere è di gran lunga più difficile”. Però chissà quali riflessioni gli strappò, solo il titolo di quell’ultima poesia: “A presto, amico mio, a presto”. Chissà.

Ti ringrazio, Tito, perché è merito di questo tuo viaggio tra le macerie dell’Unione Sovietica, se ho finalmente riaperto il cassetto dei miei ricordi, restituendo la luce ai miei poeti. Li avevo messi via, come si fa con una crisi adolescenziale di cui stentiamo a non vergognarci. Come l’album di fotografie che si abbandona a prendere la polvere.

Ora posso ritornare a uno dei libri che tra tutti mi hanno più emozionato nella vita. Pensa, un saggettino di poche pagine, uscito in quella collana dell’Einaudi con il quadrato rosso in copertina che negli anni Ottanta andava per la maggiore tra gli intellettuali di sinistra. Testi importanti e spesso anche decisamente pallosi.

Beh, a giudicare dal suo autore, pure questo libretto poteva essere classificato ad alto rischio di noia e indecifrabilità. Si tratta di Roman Jacobson, linguista di origine russa, maestro del pensiero che si definisce formalista e strutturalista – e pensa, Tito, ogni volta che nella cultura sento una parola che si chiude in –ismo, io propendo per la fuga.

Però il titolo è “Una generazione che ha dissipato i suoi poeti” e dentro c’è tutto quello che Majakovskij, ed Esenin, e tutti gli altri, mi hanno dato e poi tolto. C’è la bellezza della rivoluzione e il suo disastro. C’è la poesia che ha cantato una nuova epoca per essere poi da quest’ultima divorata, annichilita. La speranza e la disperazione. La vita che fa a pugni con la politica più alta, più generosa di ambizioni, quella che la vita la vorrebbe mutare dalle fondamenta. I versi che non ti possono salvare e che pure ti riscaldano il cuore. Preziosi. Insostituibili.

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