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lunedì 14 luglio 2014

Il leopardo delle nevi che sta dentro di noi

Era il 1973 e l'inverno era alle porte. Partire prima di tutto è rispondere a una domanda che ancora oggi risuona: cos'è che spinge un uomo a partire e percorrere a piedi più di 400 chilometri, tra le montagne dell'Himalaya? 

Cosa c'è prima di questo bel libro che il tempo non ha logorato, Il leopardo delle nevi di Peter Matthiesen (edizioni Neri Pozza)?


Forse il fascino dell'antica civiltà tibetana, ancora non travolta dai tempi moderni. Forse il richiamo di questi posti, di queste cime innevate e gole profonde. 

O forse proprio quell'animale, quella creatura che è più un mito che una presenza. E in effetti solo in questo modo si può dare un senso a questo incredibile viaggio di due mesi e centinaia di chilometri dietro un animale raro ed elusivo, tanto che sembra avere la consistenza del sogno.

Del leopardo delle nevi di Peter Matthiesen riesce più facile raccontare qualcosa intorno a un fuoco che rintracciare le orme. Però è proprio questa la sfida. 

Tranne comprendere che, in qualche modo, il leopardo delle nevi siamo noi stessi e che in effetti ciò a cui si dà la caccia è un significato alla vita

lunedì 23 settembre 2013

Il ritorno a casa di Tito Barbini

Per quanto un albero possa diventare alto, le sue foglie, cadendo, ritorneranno sempre alle radici. Tra le infinite citazioni sul senso e sul sentimento del viaggio, è con questo antico proverbio cinese per la testa che ho terminato la lettura di Le rughe di Cortona, l'ultimo libro di Tito Barbini (Romano editore).

Come capita spesso con la saggezza orientale, le parole sono semplici ma ciò a cui fanno riferimento è senz'altro più complesso. Siamo noi, quell'albero. Siamo noi quelle foglie che ritornano alle radici.

Semmai è quel “per quanto un albero possa diventare alto” che mi convince meno. Non “per quanto”, ma “proprio perché”: questo è come la vedo io. Proprio perché si cresce, proprio perchè con le nostre foglie si tocca il cielo, è ovvio, naturale, necessario tornare alle radici.

È esattamente quello che penso a proposito di Tito Barbini, scrittore e viaggiatore, o viaggiatore e scrittore, nell'ordine che si preferisce, ma anche persona che da lungo tempo ho avuto la fortuna di conoscere. È un albero cresciuto alto, Tito. Un albero che ha saputo liberarsi da ciò che lo appesantiva e lo piegava.

A un certo punto della vita Tito ha smarrito la strada – ed era una strada chiaramente segnata, apparentemente obbligata. A posteriori è stata la sua fortuna. È da allora che si è messo davvero in cammino: con i viaggi – che lo hanno portato verso le mete più remote e affascinanti – e con le parole – che certo sono un altro modo di viaggiare.

Per tutto questo oggi può tornare alle radici. Può cioè vivere l'esperienza più importante per il viaggiatore: il ritorno.

Non è affatto scontato, anche se è un pezzo che Tito ripete, a beneficio di tutti noi, che il viaggio è vero viaggio solo se implica il ritorno. Altrimenti è fuga, esperienza legittima, a volte necessaria, ma che non è il viaggio. Oppure è partenza fittizia, che non chiama in causa ciò che siamo e che possiamo diventare: turismo di molti chilometri e poca sostanza.

Non credo sia un caso che la letteratura – almeno la nostra letteratura – diventa davvero tale con una storia di un viaggio, l'Odissea. Un viaggio, prima ancora che una guerra. E non è un caso che questo viaggio sia in realtà un lungo, faticoso, contrastato ritorno.

E lo so che è un paragone ingombrante, ma con queste pagine Tito si è seduto accanto a me come un Ulisse con cui posso condividere parole e storie. E Cortona – straordinaria città che più volte ho avuto modo di visitare – ha progressivamente perso i suoi contorni per sfumare nel mito e diventare un'Itaca di Toscana.

Dopo averci accompagnato nelle estreme propaggini della Terra del Fuoco, sulle vette dell'Himalaya o alle sorgenti del Mekong, Tito ci ha fatto il regalo più bello: il ritorno a casa.

Il regalo più complesso, anche, perché penso che per uno scrittore di viaggi non ci sia niente di più difficile che raccontare il ritorno.

Vero che Tito è uno scrittore di viaggi molto particolare, che rifugge il diario, il resoconto, la narrazione lineare nel tempo e nello spazio. In particolare, con Antartide. Perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo, il grande vuoto artico e il silenzio dei ghiacci avevano permesso di scavare impietosamente dentro e di amputare tutto ciò che alla vita non è davvero essenziale.

Ed ecco, mi sembra che Le rughe di Cortona possano riallacciarsi solo a quel libro, tra quanti ne ha pubblicati Tito in questi anni. Come se sulle mappe della vita avesse saputo tracciare una rotta diretta tra l'Antartide e Cortona. Anche questo un viaggio per sottrazione, per rarefazione. Ma solo per ritrovare l'origine, il porto sicuro, ciò che ha permesso tutto ciò che è venuto dopo.

E come non è diario il viaggio, non è autobiografia ciò che è stato. È assai di più, il lavoro della memoria – e non a caso Tito afferma all'inizio: la memoria è tutto ciò che siamo.

Diceva William Wordsworth: Il bambino è padre dell'uomo adulto.  Si comincia così e il resto è viaggio – l'albero che cresce – il resto è ritorno e memoria – le radici.

domenica 25 novembre 2012

Il Gange e il Grande Viaggio che è di tutti

Himalaya. Mi è difficile descrivere, ogni volta, la felicità di partire a piedi verso le montagne lasciandomi dietro il mondo fatto di strade e case. Camminare. Trovare il ritmo. Salire lento ascoltando il respiro nei talloni, nei muscoli delle gambe e nel corpo che con il sudore si rimette in moto.

Comincia così, con un gruppo di amici che parte per un viaggio indimenticabile, le montagne dell'India del Nord, le sorgenti del fiume sacro per eccellenza, il Gange.

Aria di Marrakesh Express,il film che diversi anni prima ha regalato la notorietà a un attore come Giuseppe Cederna, che certo non è solo un attore. Amicizia, avventura, la leggerezza del viandante.

Ma ci sono viaggi che, magari inaspettatamente,  diventano pellegrinaggi. E che a ogni passo si fanno domanda, tentativo di risposta, resa a ciò che è più grande.

Succede magari con la scomparsa di una cara amica, notizia che rimbalza dall'altro lato del mondo, per telefono. Con il pellegrinaggio per le vie delle Sorgenti e delle Confluenze che diventa altro ancora: il grande viaggio, nel mistero della vita e della morte.

Il Grande viaggio che è anche un libro, che racconta di montagne e di sorgenti, ma anche della morte che ci accompagna e della vita che si rinnova.

domenica 4 novembre 2012

Durante la fioritura si avverte la presenza di Ramola, il protettore delle greggi, il dio dei pascoli e delle creste d'erbe.

E' Ramola a guidare i pastori, a far ricrescere ogni anno l'erba e a nutrire gli animali. Per questo i pastori sono silenziosi. Quando si arriva sui pascoli non bisogna urlare, cantare forte o vestirsi con colori troppo sgargianti. Bisogna far piano per non disturbare Ramola e il suo esercito invisibile di fate e divinità.

Perché Ramola non è mai solo. Non è mai solo il vento a muovere il vento. Non è mai solo l'erba che si muove quando c'è vento. 

(Giuseppe Cederna, Il grande viaggio, Feltrinelli)

lunedì 17 ottobre 2011

Come si fa a salvarsi la vita con Hegel

Voi che dite, come si fa a salvarsi la vita con Hegel? Come si fa non dico a cogliere nei rigori della sua filosofia un orizzonte, una possibilità, un'alternativa che abbia a che vedere con i nostri giorni, non dico questo, ma solo a trovare tra le sue pagine un porto sicuro, l'ombra di un sollievo?

Non mi verrebbe mai in mente. Hegel sono le interrogazioni da evitare al liceo. Gli sbadigli per prepararsi a quelle stesse interrogazioni. L'idealismo tedesco da rifuggire come la peste, tanto sono elevate e distanti quelle idee, idee tanto idee che assomigliano alle pareti dell'Himalaya.

Eppure sentite che ha raccontato uno come Aldo Nove, scrittore che voglio conoscere di più, vita che ha conosciuto altre vite - immagino sciagurate - prima di quella dello scrittore affermato:

Allora l'eroina sembrava una forma di vita alternativa a differenza della cocaina che aiuta a integrarti, a lavorare. C'era anche la musica a farmi compagnia: i Joy Division, The Cure, Lou Reed e David Bowie. Ascoltavo e mi immergevo nei Paradisi artificiali di Charles Baudelaire, nelle Confessioni di un mangiatore d'oppio di Thomas de Quincey, mi gustavo  Timothy Francis Leary, il guru delle droghe psichedeliche, e Aldous Huxley, gran sostenitore degli allucinogeni e "padre spirituale" del movimento hippie. Però ero anche innamorato della filosofia di Hegel, delle sue bellissime pagine sulla natura. E proprio questo interesse mi portò fuori dalla tossicodipendenza

Non so voi, ma queste parole mi hanno gettato una nuova luce su Hegel. Ora sto scrutando i suoi ritratti con una certa curiosità. Con una certa gratitudine, anche. Come se le sue pagine fossero una delle migliori dimostrazioni  - se anche con Hegel ci si riesce... - che i libri, davvero, i libri possono cambiarci la vita, mica scherzi...

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...