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giovedì 3 ottobre 2013

Credevo di essermi liberato delle storie di follia...

Credevo di essermi liberato delle storie di follia, reclusione e gelo.

Non che mi aspettassi di mettermi a comporre lodi alla bellezza del mondo e al canto dell'usignolo, con francescana meraviglia, ma almeno pensavo di essermi lasciato alle spalle quelle ossessioni.

E invece ero stato scelto (è enfatico, lo so, però non saprei dirlo in altro modo) da quella storia atroce, senza volerlo mi ero messo sulla stessa lunghezza d'onda dell'uomo che ne era responsabile.

Avevo paura. Paura e vergogna. Mi vergognavo davanti ai miei figli di occuparmi di questa storia.

Ero ancora in tempo per fuggire? O la mia peculiare vocazione era proprio cercare di capirla, di guardarla in faccia?

                                             (Emmanuel Carrère, L'Avversario, Adelphi)

mercoledì 31 luglio 2013

La triste storia della figlia di Victor Hugo

Ci sono vite che continuano a interrogarci, con il loro mistero. Le loro domande resistono al tempo e anche a qualsiasi tentativo di risposta, che è come sabbia che scivola tra le mani. La vita di Adèle Hugo è una di queste e ripercorrerla infligge una sorta di vertigine: troppe le possibilità sprecate, troppe le alternative che non è stato possibile esplorare, incommensurabili la proporzione del disastro esistenziale e il carico di sofferenza.

Molti avranno visto il film che a lei dedicò Francois Truffaut. Pochissimi avranno avuto modo di leggere la biografia che l'autrice canadese Leslie Smith Dow le ha dedicato e che in Italia ha pubblicato una piccolissima casa editrice, la Menichetti, che dopo questa partenza col botto mi pare che non abbia dato più segno di sé.

E certo film e libro raccontano la stessa storia e due vite diverse: senz'altro più crudo e impietoso il libro, allergico a ogni aura di eroina romantica.

Adèle Hugo. La miserabile, già il titolo non scherza, rimanda al destino di questa donna, figlia di Victor Hugo, il più grande tra i grandi scrittori, condensa la sua vita nella parola del capolavoro del padre e così ne esprime tutta l'irrimediabile infelicità.

Adèle, cioè la giovane bellissima, colta, brillante, capace di conversare a pari a pari con le menti più acute della sua epoca. Un talento dissipato, un fallimento esistenziale che non può essere imputato a un amore senza speranza, a un cuore scriteriatamente consegnato al peggiore degli uomini.

Forse non solo amore, ma anche malattia mentale. E forse non solo malattia, ma implosione di una donna che era troppo per un tempo che dalla donna si aspettava ben poche cose e ancora meno ne concedeva: certo non l'indipendenza intellettuale, certo non la libertà dei sentimenti.

Estrema ribellione, quella di Adèle, fino a oltrepassare la frontiera della follia. Stringe il cuore inseguirla per il mondo, ridotta così, con quel padre che certo non la capì e non l'aiutò come avrebbe dovuto, il grande Victor, certo più grande nelle sue pagine che nella vita. Stringe il cuore vederla consegnata per anni al silenzio di un manicomio che solo l'ipocrisia e il denaro del padre permettono di classificare come casa di cura. Lei, che molte cose avrebbe avuto da dire al mondo.

martedì 20 novembre 2012

Con Dennis Lehane, tra morti ammazzati e follia

Ho due teste certo. Ma io sto parlando di cervelli. Io ho due cervelli. Ti giuro. - Si picchiettò la testa con l'indice e mi guardò strabuzzando gli occhi. - Uno dei due, quello normale, non è un problema. Ma l'altro è quello da poliziotto, e non si ferma mai. Di notte sveglia l'altro cervello, mi costringe ad alzarmi dal letto e a pensare a quel qualcosa che mi stava rodendo e che io non sapevo neppure cosa fosse. Insomma, metà dei miei casi l'ho risolta alle tre del mattino, e tutto per via di questo secondo cervello.

Uno si avvicina con qualche sospetto a un libro come questo - Fuga dalla follia di Dennis Lehane (Piemme) - le lettere gialle sulla copertina nera, il titolo che ha qualcosa di risaputo e sotto l'indicazione di genere - thriller - che non credo faccia bene nemmeno ai cultori. Guarda e si persuade: sarà il solito pasto di sparatorie e morti ammazzati, con tanto di killer psicopatico che è quasi un'ovvietà almeno dai tempi de Il silenzio degli innocenti. Insomma, quanto passa sempre o quasi sempre il convento.

E invece no, perché non è il genere che conta, ma la scrittura al servizio del genere. La scrittura che fa la differenza anche rimanendo nei territori usati e abusati dal genere. Succede se ti chiami Dennis Lehane. Se anche in una storiaccia come questa finisci per citare i Sonetti di Shakespeare e il Vangelo di Matteo. Se prima ancora di disseminare le pagine di cadaveri,  fai un'autopsia ai tuoi personaggi. Se non ti tiri indietro per giocare quella partita tra il bene e il male che è di tutti, che è dentro tutti.



lunedì 1 ottobre 2012

Beato l'uomo capace di risvegliare un testo

Sovente guardo la mia biblioteca come alla raffigurazione casalinga di un cimitero.

La grande scaffalatura a parete è un superbo colombario senza un fine riconoscibile. I nomi degli autori impressi sui dorsi sono il paradigma immaginario delle epigrafi di un cinerario.

I libri "morti" stanno lì per anni, non cercati, dimenticati. 

Dietro a ogni dorso, in polvere cartacea, persiste il riassunto delle esistenze. Silenziose.

Beato l'uomo capace di risvegliare un testo. Che equivale a resuscitare un morto.

(Giuseppe Marcenaro, Cimiteri. Storie di rimpianti e di follie, Leonardo Mondadori)

martedì 25 settembre 2012

Se i cimiteri sono pieni di persone insostituibili

Fu tornando da quel viaggio che prese a frequentare i cimiteri. Intanto per scoprire domicili banali e prendere la vita come viene. Cercava il proprio posto nel mondo. Un luogo definitivo. Senza entusiasmi. La rivelazione finale della fragilità di ogni cosa.

Così tutto iniziò nel mezzo del deserto algerino, di fronte alla tomba di quel marabut con accanto un unico albero e da ogni lato il vuoto. Sarà stato per il vento che soffiava incessante, ma quel posto aveva la consistenza di un miraggio. Ci sono immagini che, senza ragioni particolari, segnano la vita e indicano un cammino.

Giuseppe Marcenaro, nel suo Cimiteri. Storie di rimpianti e di follie (Bruno Mondadori), ci racconta come da allora cominciò il suo viaggio attraverso i luoghi - i più diversi - destinati a ospitare ciò che rimane di noi. Viaggio singolare e suggestivo, che è anche viaggio tra i libri  (le biblioteche non sono forse cimiteri?), prima di farsi anch'esso libro.

E dunque non solo il Père-Lachaise, uno dei luoghi più storici, più insoliti, più erotici di Parigi, non solo Highgate, il cimitero privato di Londra dove i vittoriani trovavano assai esclusivo e chic andarsene, senza nemmeno lontanamente immaginarsi che un giorno sarebbe stato frequentato soprattutto per la tomba di Karl Marx.

Quanti luoghi, in questo libro, che peraltro più che di lapidi si occupa di ciò che rimane ai vivi, i rimpianti di ciò che non è stato e le follie con cui si pretenderebbe di sopravvivere a se stessi.

Perché poi è definitiva - e buona come iscrizione funebre per l'intera umanità - questa frase, questo rigo appena di Georges Clemenceau:

I cimiteri sono pieni di persone insostituibili.


La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...