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domenica 6 maggio 2018

Per il mondo da giornalista allergico ai luoghi comuni

Sono un giornalista, e spesso i giornalisti cercano scampo nella cuccia tiepida dei luoghi comuni.

Così dice Flavio Fusi, giornalista di lungo corso che per decenni ha girato il mondo in lungo e in  largo, dalla Bosnia al Nicaragua, dal Kosovo al Chiapas, dalla Cecenia al Ruanda, insomma in ogni luogo dove un confine si sbriciolava oppure si faceva muro, le urne lasciavano il posto alle fosse comuni e la contabilità degli uccisi e degli esuli metteva in fila gli zeri. 

Lo dice all'inizio del suo Cronache infedeli (Voland editore), libro in cui appunto racconta le sue esperienze di inviato e corrispondente, ben disposto alla sorpresa e comunque allergico ai luoghi comuni. Uno su tutti, che per un certo periodo, dopo il crollo del Muro di Berlino, ha conosciuto una certa fortuna: quello della fine della storia. Figurarsi: ci avrebbero pensato i Balcani a chiudere la questione, qualche anno prima di un secondo e più pervicace luogo comune, quello dello scontro di civiltà.

Ha fatto altro Flavio Fusi, invece che inseguire luoghi comuni nobilitati da visioni e teorie: ha fatto il suo mestiere di cronista. E il cronista, si sa, si valuta dalle scarpe: se è bravo deve aver per forza le suole consumate, perché non si è accontentato del computer in redazione. 

Per una vita Fusi è andato a vedere là dove le cose accadevano. E più che ragionare delle sue idee e convinzioni ci ha mostrato quanto accadeva. Con l'umiltà che è virtù dei migliori giornalisti - penso per esempio a Rzysard Kapuscinski - ovvero dei giornalisti che non guardano al proprio ombelico, ma colgono i volti e gli sguardi, fermano dettagli che parlano da soli, raccontano la grande storia attraverso le piccole storie.

Tutto questo ritroviamo in questo libro filtrato attraverso la memoria e attraverso una grande qualità di scrittura: che non è enfasi e artificio, piuttosto è essere se stessi. 

Be there, essere là, come dicono gli americani. Virtù del giornalista che sta dove le cose accadono, fermo restando che la linea del fronte può essere anche la periferia di una nostra città. Prendere per mano il lettore, accompagnarlo dentro gli eventi,  fargli respirare l'aria: perché anche lui sia là, perché non possa dire "non mi riguarda".

Diceva il grande Kapu che il buon giornalista non può che essere anche un buon uomo: ci ho pensato parecchio, immergendomi in queste pagine. 

giovedì 5 ottobre 2017

Buone scarpe per raccontare l'Italia che c'è già

Non basta denunciare quello che non va, dobbiamo essere capaci di promuovere quello che c'è di buono. Così sono partito, con lo zaino in spalla e un motto in tasca: raccontare il bello per costruire il bello.

Non sono molti i giornalisti che si caricano lo zaino in spalla e partono.  Pochi sono oramai anche quelli che si staccano dal computer in redazione. Jacopo Storni è tra questi pochi: uno che prende e va a vedere. Che incontra e racconta le storie che raccoglie. Il buon cronista si vede dalle scarpe che consuma, si diceva una volta. Lui credo ne abbia consumate diverse paia.

Di giornalisti che prendono e vanno ce ne sarebbe bisogno soprattutto per fare luce sull'Italia che cambia e magari non fa notizia. Succede con molti grandi cambiamenti, perché, come si dice in Oriente, un albero che cade fa più rumore di una foresta che cresce.

Ce ne sarebbe bisogno soprattutto per quanti ancora non riescono a misurarsi con un futuro che è già presente, che è un dato di fatto piuttosto che una paura da esorcizzare: quello di un paese necessariamente multetnico, plurale.

E ha ragione Jacopo, il problema è tutto qui: in quello che si racconta e che è anche giusto continuare a raccontare, sempre che non lasci in ombra il resto, che il cono di luce non resti solo dov'è.

Tradotto per il tema dei temi, l'immigrazione: dici immigrato e pensi ai barconi, ai naufragi, agli schiavi dei campi, ai disperati in giro per le città, alle file in questura. Tutto qui?

L'Italia siamo noi, il titolo del libro di Jacopo (Castelvecchi editore), basta a rovesciare la cosa. Perché c'è un'Italia che è un'Italia di immigrati che si sono inseriti nell'economia e nella scoietà, che lavorano e che fanno lavorare, che addirittura  sono protagonisti di storie di successo.

In questo viaggio per l'Italia di storie così ce ne sono diverse.  Fuad, il primario africano che ha salvato la vita anche a chi non si immaginava che lui potesse mai essere un medico. Liliam, la baby prostituta brasiliana diventata la regina delle torte a Torino.  Jean-Jacques, il prete africano che trascina le folle e il maggiore Pala, eritreo che gira per il mondo al servizio dell'esercito italiano.... Personaggi anche noti, come Thuram, campione di calcio e di vita, oppure Idris, lo stesso di Quelli del calcio...

Pesonaggi, storie, ma soprattutto l'idea di un'altra Italia, di un'Italia che c'è.... raccontata in un libro che non è un saggio, ma un ottimo reportage. Perché ci vogliono anche buone penne, non solo sguardi puliti, per raccontare questa Italia.

venerdì 27 settembre 2013

Disincanto e malinconia nell'America di provincia

Quando i fatti sono contro di te, ricorri alla legge.
Quando la legge è contro di te, ricorri ai fatti.
Quando entrambi sono contro di te, attacca l'altra parte.

Ti imbatti in passaggi così in Niente è perduto di John Gregory Dunne. E bastano queste righe per dissolvere ogni dubbio, nel caso: questo libro non può che essere stato scritto in America e dell'America ha tutti i tratti che abbiamo saputo riconoscere e amare nella sua tradizione noir. Disincanto e malinconia, cinismo e attaccamento alla vita.

Un crimine efferato, ma anche un sottobosco di interessi inconfessabili e di maneggi politici. Aule giudiziarie, talk show, locali equivoci. Investigatori senza scupoli e giornalisti pronti avendere l'anima per un decimale in più di share. Spacciatori di droga e di sogna.

Non sarà un capolavoro, ma si legge di un fiato. E se la trama un po' zoppica, alla fine contano le tessere del mosaico: e il colpo d'occhio di insieme, che ci regala un'America di provincia, violenta e razzista, bacchettona e ipocrita, che forse con Obama abbiamo cominciato a dimenticare. 

mercoledì 19 giugno 2013

Quando per gli italiani l'America era un sogno

 Eugenio Montale, che in America non c'era mai stato, non si stancava di interrogarsi su un paese che gli sembrava insieme un posto in cui era una maledizione nascere e morire e un paradiso dove non si poteva fare a meno di vivere.

E che cosa fosse davvero l'America forse non lo riuscirono a comprendere davvero nemmeno i tanti scrittori e giornalisti italiani che nel corso del ventennio fascista provarono a scoprirla. Sarà che l'America - anzi, gli Stati Uniti - era davvero molte cose insieme. Sarà che persino per Mussolini l'America era molte cose insieme: nuovo mondo e plutocrazia e altro ancora.

Non lo riuscirono a comprendere, ma certamente, mattone su mattone, costruirono un'immagine dell'America che per molti versi, e anche a dispetto delle indicazioni del regime, fu soprattutto un mito: America, terra di possibilità, terra di libertà.

E'  di tutto questo che ci parla l'affascinante Al di là del mito. Scrittori italiani in viaggio negli Stati Uniti di Ambra Meda (Vallecchi editori), un libro non solo per studiosi per una lettura che intriga.

Quante cose, nelle sue pagine.

La traversata dell'Atlantico, l'impatto con New York e i suoi grattacieli, la gente che corre e i treni che tagliano un intero continente. Gli alcolizzati per strada e gli studios di Hollywood. Il proibizionismo e la frontiera.

L'America sognata e vagheggiata, l'America temuta e denigrata. E l'America vera, sperimentata sulla propria pelle, che non è nè l'una né l'altra. Eppure in fondo sempre un sogno. Bisognerà aspettare il dopoguerra perché Cesare Pavese dichiari:

Sono finiti i tempi in cui scoprivamo l'America.

Ma forse allora, con un paese in macerie, con un paese da ricostruire e da reinventare dopo il fascismo, non c'era più tempo per sognare.

venerdì 1 febbraio 2013

Da Rimini a Capo Verde: andare a capo con la vita

E' un lungo viaggio, dalle spiagge di Rimini a quelle di Capoverde, e può essere ancora più lungo se implica non solo un mare diverso, ma una vita diversa, che taglia il passato con un colpo di cesoie. E figuratevi se in mezzo ci sono anche un delitto a cui ci si è trovati ad assistere, cinque milioni di euro infilati in una borsa e una resa dei conti che si profila all'orizzonte.

E' assai più di un noir, A capo, di tutto di Michele Mengoli (Edizioni del Girasole), giornalista e scrittore emiliano che, a mio parere, ha sostenuto e superato alla grande la prova del primo romanzo: e lo dico convinto, nella consapevolezza che tra i troppi esordi, la troppa carta che oggi finisce in libreria, è facile che si finisca per perdere di vista anche i libri che valgono.

E quante cose che ci sono, in questo noir che è assai più di un viaggio: racconto di una fuga che non è solo fuga dagli assassini, ma anche da una vita che non convince, un paese che ha deluso, soprattutto un lavoro - quello di giornalista - che un tempo era uno dei lavori più belli del mondo e che oggi, oggi chissà cos'è diventato, a parte un residuo straccio di orgoglio.

E quante cose si nascondono in questo titolo, così forte, A capo, di tutto, si nascondono e poi esplodono, sarà anche per quella virgola piantata in mezzo.

Andare a capo, davvero. E Lindo Bentivoglio, giornalista in fuga di A capo, di tutto, non è poi troppo diverso dal Paolo Bianciardi del mio Di diverso parere, giornalista in bilico tra la rassegnazione e la fuga.

Per entrambi un'altra vita e forse un altro lavoro.

lunedì 13 agosto 2012

Sarà che nei gialli alla fine tutto torna

Un tempo faceva il giornalista di nera, ora lavora in un ufficio stampa, al seguito di sindaco e assessori. 

Un tempo si era fatto l'idea che la politica fosse una cosa seria e noiosa, ora si è accorto che l'importante è che se ne parli. 

Un tempo divorava i gialli, ora non li sopporta più, sarà che nei gialli tutto alla fine torna. 

Poi, un sabato mattina, il delitto non si accontenta più della carta, dei libri o dei quotidiani e fa il suo ingresso a Palazzo. E niente più torna davvero, in una storia dove non si sa più cosa conti di più, se il nuovo che avanza con Internet o il caro vecchio mattone. 

(Paolo Ciampi, Di diverso parere, Romano editore, dalla quarta di copertina)

giovedì 5 luglio 2012

Il cronista che non dimenticò mai per chi scriveva

Ernie Pyle aveva un nome buono per un film di Hollywood di Billie Wilder o Frank Capra e una storia davvero americana, di uomo che si fa dal niente.

Ernie Pyle entrò nel giornalismo dalla porta di dietro, cominciando a scrivere per riviste di aviazione: si diceva che se un pilota si lanciava col paracadute per un'emergenza, lui riceva una telefonata prima che il pilota toccasse terra.

Ernie Pyle amava girare per l'America e raccontare le persone e i posti che incontrava per strada. Non ho una casa, diceva, la casa è dove si ferma l'automobile, dove di volta in volta ricevo la posta. La mia casa è l'America.

Ernie Pyle, all'apice della sua carriera, inviava articoli che venivano pubblicati in contemporanea su 400 quotidiani e 300 settimanali. La gente attendeva le sue parole, le parole di un uomo che non aveva casa.

Quando l'America entrò in guerra contro Hitler - ci racconta splendidamente David Randall in Tredici giornalisti quasi perfetti - anche Ernie Pyle partì.

Una delle prime cose che raccontò all'America fu un bombardamento su Londra e iniziò così:

Quando la pace sarà ritornata in questo strano mondo, un giorno o l'altro voglio venire di nuovo a Londra, affacciarmi su un certo balcone in una notte rischiarata dalla luna e guardare la pacifica curva argentea del Tamigi con i suoi ponti al buio.

Per anni Ernie Pyle raccontò di uomini comuni come lui, scaraventati nell'inferno della guerra. Fu anche fortunato. La scampò diverse volte, divenne il corrispondente di guerra più letto. Era importante che raccontasse di uomini, non di reparti, battaglioni, divise. Raccontò anche il D-Day:


Era un bel gorno per passeggiare sulla riva del mare. Degli uomini dormivano sulla spiaggia, alcuni di loro per sempre....

Era un uomo, un uomo che come tutti aveva paura. Se avessi sentito un altro sparo o visto un altro uomo morto, scrisse, sarei andato fuori di testa. Sapeva che la sua fortuna non sarebbe durata ancora a lungo. Ma quando, dopo la Normandia, avrebbe potuto rimanersene in America a mietere il frutto del suo lavoro, non se la sentì. Ripartì, per il Pacifico.

Ernie Pyle rimase ucciso poche settimane prima della fine della guerra. In tasca gli trovarono un ultimo pezzo:

Nella gioia dell'euforia è facile per noi dimenticare i nostri morti...

E ha ragione David Randall, per cui Ernie Pyle fu semplicemente, magnificamente, il cronista che non dimenticò mai per chi scriveva.





martedì 3 luglio 2012

La squadra dei 13 reporter quasi perfetti

A beneficio del futuro è possibile che i cronisti redigano, come si suol dire, la prima bozza della storia; ma per il presente, l'hic et nunc, forniscono qualcosa di ancora più prezioso: la materia prima con cui giudichiamo il nostro mondo e coloro che ricercano il potere al suo interno. E la nostra migliore difesa nei confronti di demagoghi, ciarlatani, agitatori e imbonitori, e verso tutte le menzogne e le mezze verità che questi spacciano, sono i cronisti, specie i grandi.

(David Randall, Tredici giornalisti quasi perfetti, Laterza)

Chissà se esistono giornalisti perfetti, o per l'appunto, quasi perfetti. Chissà se non sono proprio le imperfezioni, che sono le imperfezioni di tutti, a farli grandi, qualunque cosa voglia dire grandi. E vai a sapere come è che si selezionano, questi giornalisti quasi perfetti, tra la folla dei tanti che giorno dopo giorno hanno alimentato o alimentano il grande fiume delle notizie, firme luccicanti e cronisti anonimi.

Forse esiste solo un criterio: l'arbitrarietà elevata a giudizio inappellabile. Ed è quanto ha fatto David Randall, immaginandosi di dirigere una redazione con piena libertà di selezionare i migliori reporter di ogni tempo.

E va bene così, non importa che quasi tutti i prescelti siano per noi del tutto sconosciuti. Da William Howard Russel, l'uomo che per la prima volta raccontò alla gente che cos'era una guerra (che poi era la guerra di Crimea), a Edna Buchanan, la ragazza allampanata che le insegnanti rimproveravano perché non avrebbe mai combinato niente di buono e che invece divenne la più grande cronista di nera di tutti i tempi; da Nellie Bly, che si finse pazza per raccontare un manicomio dall'interno, ad Aloysius MacGahan, a cui si deve probabilmente il più grande pezzo di giornalismo di tutti i tempi (e pensare che si trattava di un reportage da una località sperduta della Bulgaria), la galleria dei personaggi è straordinaria.

Tredici reporter, ma soprattutto tredici grandi storie, ciascuna delle quali meriterebbe un romanzo. Un solo grande atto di amore nei confronti del giornalismo,

Libro non solo bello, perfino utile, in tempi in cui pare che dal giornalismo si possa prescindere, a cuor leggero.

mercoledì 13 giugno 2012

Il giornalista di Marsiglia che scriveva della miseria

Scrivo della miseria che è davanti ai nostri occhi e che facciamo finta di non vedere. Scrivo perché il lettore si ribelli, e non c'è altro modo che emozionarlo, che farlo innamorare con la verità

Che belle queste parole di Jean-Claude Izzo, scrittore che abbiamo perso troppo presto, autore di grandissimi noir ma prima di tutto cantore di un'umanità dolente. Uomo che sapeva guardare e che non nascondeva il suo sguardo. Gran solitario che aveva un maledetto bisogno degli altri. Allergico a ogni liturgia mondana che si trovò a gestire un successo inaspettato. Legato in modo indissolubile a un solo posto, Marsiglia, ma a un posto che da sempre ha nel suo Dna le lontananze e le mescolanze, porto che è come dire tutto il Mediterraneo, traffici e meticciato, scontri e incontri.

E' un mondo che ho imparato a conoscere anche attraverso i suoi libri, a partire dalla trilogia di Fabio Montale. Calli alle mani e bistrot, zuppe di pesce e casse da scaricare ai moli, mazzi di carte e parole arabe mescolate al francese.

Non sapevo che Jean-Claude Izzo era stato anche un bravo giornalista. Uno di quei giornalisti che non finiscono in televisione a ogni momento o che non sgomitano con il titolo più gridato. Un giornalista che lavorava con pazienza alle sue inchieste e non scriveva delle celebrità della Costa Azzurra, ma di vita in fabbrica e di quartieri dormitorio. Consumava scarpe, Jean-Claude Izzo, perché un buon cronista fa così, prende e va a vedere. Un giornalista militante, si direbbe oggi, o meglio, si diceva allora.

Non so se ci vedete il nesso, ma per me tutto torna, gli articoli sul lavoro degli operai siderurgici e i personaggi come Lole la zingara. Verità e poesia. Poesia e verità.

martedì 1 maggio 2012

Quando i giornalisti raccontano l'isola che non c'è

Le onde sono alte, troppo alte. Lo pensavo anche qualche ora fa sul barcone, ma ora mi sembrano veramente immense. Ogni volta che arriva l'onda penso che sia l'ultima cosa che vedrò nella vita. Misericordioso. Compassionevole. Santo. Potente. Creatore. Ogni tanto mi rivolgo all'Immenso: è l'unico modo per avere un po' di forza. Novantanove nomi per novantanove momenti angoscia. E poi ricomincio. Non so quanto tempo possa essere passato. 

Lampedusa isola senza tempo, si legge, e verrebbe da pensare a un depliant turistico, a ciò che si dice per attrarre eserciti di spensierati vacanzieri. Però cosa significa, se su questa isola arrivi da migrante in fuga da troppe cose, senza sapere se Lampedusa sarà ponte o vicolo cielo, cimitero di speranza o nuovo inizio?

E' chiaro che il tempo è un altro tempo, allora. E' chiaro che si tratta di un infinito presente che ha teso la sua trappola e che la trama si è impantanata senza che le sue storie si possano sciogliere, in un senso o nell'altro. E' chiaro che ha ragione Lucia Magi, giornalista di El Paìs, che nella postfazione a questo libro scrive:

L'isola che non c'è scompare soprattutto fra le pieghe di un passato che si vuole allontare e di un futuro che non sa cominciare.

Lampedusa. Cronache dell'isola che non c'è - uscito per la casa editrice romana Edizioni Ensemble - fotografa questo limbo, questa attesa, questo presente, nei lunghi mesi in cui Lampedusa è stato sinonimo di emergenza, più o meno strumentalizzata politicamente, più o meno maldigerita dal circo mediatico.

Gli autori, Laura Bastianetto e Tommaso Della Longa, sono due giornalisti professionisti. Il loro mestiere più volte li ha portati dentro i disastri del nostro presente. Per raccontare "l'isola che non c'è", però, non scelgono la strada - più scontata - del reportage, dell'inchiesta giornalista.

Il giornalismo, in questo caso, si mette al servizio delle vite, presta loro la voce. Ne viene fuori un racconto corale, che sa essere allo stesso tempo autentico e dolorosamente poetico.

domenica 19 febbraio 2012

I ribelli che parlano ai nostri tempi

Sono parole, parole autentiche, parole che prima di essersi depositate su queste pagine hanno avuto il privilegio di essere dette e ascoltate, parole come dono, emozione, testimonianza che va ben oltre quella necessaria per i tribunali, gli archivi, i libri di testo.

Parole che diventano immagini, fotogrammi di una storia che qualcuno vorrebbe liquidare una volta per tutte, guizzi di vita vissuta che ancora reclamano giustizia e capacità di indignazione, che ancora sconfessano ogni tentazione di neutralità, perché la neutralità può essere anche la strategia dello struzzo, o peggio ancora, l'ipocrisia di chi va affermando che di notte tutti i gatti sono bigi. E invece no.

Bisogna ascoltarle queste parole, che Domenico Guarino e Chiara Brilli hanno saputo e voluto raccogliere, mettendo il loro mestiere di giornalisti al servizio di un dovere di memoria.

In Ribelli! (Infinito edizioni) ci sono le voci degli ultimi partigiani che raccontano la loro Resistenza: non come una commemorazione ufficiale, fuori da ogni retorica. La Resistenza come l'hanno vissuta, come li ha accompagnati poi per una vita intera, lasciandoli sulle rive di un nuovo millennio e di un'Italia diversa, quanto diversa.

C'è chi è partito ragazzino e alla macchia è diventato uomo. C'è la donna che ha fatto la sua scelta per amore e l'uomo che ha scelto da che parte stare per la vergogna del padre affamato, sorpreso a mangiare per strada roba che nemmeno i maiali. C'è il poco cibo diviso in parti uguali, ci sono gli spari nella notte.

Storie che dicono, non parole per seppellire.

E quando lo chiudi, questo libro, cominci a capire cosa intendeva davvero Italo Calvino, quando diceva:

La memoria conta solo se tiene insieme l'impronta del passato e il progetto del futuro, se permette di diventare senza smettere di essere e di essere senza smettere di diventare.

lunedì 13 dicembre 2010

Il giornalismo che non ha paura della grande Rete

Il punto non sono le tecnologie, è il modo in cui le persone le stanno utilizzando

Attacchi questo libro, un po' timoroso di doverti sciroppare una lettura impervia, buona per gli addetti ai lavori, e invece ecco subito una frase che inquadra il problema. E che ti fa capire che il problema non è solo degli addetti ai lavori, appunto. E' di tutti, perché tutti, volenti o nolenti, sono e saranno obbligati a interrogarsi sulla società dell'informazione, su quello che saremo e che diventeremo nel mondo della Rete, delle tecnologie digitale, dei social network.

Perfino i libri: che diventeranno i libri che finora ho accumulato sui miei scaffali, scaffale dopo scaffale, con istinti compulsivi? e che diventerà la lettura?

Solo per dire, naturalmente, perché non c'è cosa, presumibilmente, che nei prossimi anni non starà dentro il mutamento.

Da un po' di tempo mi intriga in particolare cercare di capire cosa ne sarà il giornalismo, in un mondo invaso, anzi direi alluvionato, da informazioni di cui i giornalisti non sono più i produttori. Insomma, cosa ne sarà del giornalismo, inteso come professione che qualcuno dà già per morta, non senza qualche compiacimento?
Beh, tra tutti i libri che sul tema ho letto fin qui, Giornalismo e nuovi media. L'informazione al tempi del citizen journalism  di Sergio Maistrello  (Apogeo edizioni) è senz'altro il migliore. Serio, documentato, concreto e anche rassicurante, ma solo grazie alla forza dei fatti.

E una volta messo via, credo che ci rimarranno impressi almeno tre punti. Che guardare all'indietro non serve a niente, è come opporre una linea Maginot contro la rivoluzione tecnologica (cioé perdere senza nemmeno combattere). Che il futuro risiede nella capacità di sintonizzare il giornalismo dei professionisti con il giornalismo dei cittadini. Che il giornalismo come mestiere saprà sopravvivere nella misura in cui difenderà la qualità, contro tutto e tutti.

Bello, però. Chiudono i giornali, i giornalisti vanno a casa. Però si può provare anche a dire, con Mark Briggs: Non c'è mai stato un momento migliore per essere giornalisti.


Basta saper raccogliere la sfida.

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