Sono un giornalista, e spesso i giornalisti cercano scampo nella cuccia tiepida dei luoghi comuni.
Così dice Flavio Fusi, giornalista di lungo corso che per decenni ha girato il mondo in lungo e in largo, dalla Bosnia al Nicaragua, dal Kosovo al Chiapas, dalla Cecenia al Ruanda, insomma in ogni luogo dove un confine si sbriciolava oppure si faceva muro, le urne lasciavano il posto alle fosse comuni e la contabilità degli uccisi e degli esuli metteva in fila gli zeri.

Lo dice all'inizio del suo Cronache infedeli (Voland editore), libro in cui appunto racconta le sue esperienze di inviato e corrispondente, ben disposto alla sorpresa e comunque allergico ai luoghi comuni. Uno su tutti, che per un certo periodo, dopo il crollo del Muro di Berlino, ha conosciuto una certa fortuna: quello della fine della storia. Figurarsi: ci avrebbero pensato i Balcani a chiudere la questione, qualche anno prima di un secondo e più pervicace luogo comune, quello dello scontro di civiltà.
Ha fatto altro Flavio Fusi, invece che inseguire luoghi comuni nobilitati da visioni e teorie: ha fatto il suo mestiere di cronista. E il cronista, si sa, si valuta dalle scarpe: se è bravo deve aver per forza le suole consumate, perché non si è accontentato del computer in redazione.
Per una vita Fusi è andato a vedere là dove le cose accadevano. E più che ragionare delle sue idee e convinzioni ci ha mostrato quanto accadeva. Con l'umiltà che è virtù dei migliori giornalisti - penso per esempio a Rzysard Kapuscinski - ovvero dei giornalisti che non guardano al proprio ombelico, ma colgono i volti e gli sguardi, fermano dettagli che parlano da soli, raccontano la grande storia attraverso le piccole storie.
Tutto questo ritroviamo in questo libro filtrato attraverso la memoria e attraverso una grande qualità di scrittura: che non è enfasi e artificio, piuttosto è essere se stessi.
Be there, essere là, come dicono gli americani. Virtù del giornalista che sta dove le cose accadono, fermo restando che la linea del fronte può essere anche la periferia di una nostra città. Prendere per mano il lettore, accompagnarlo dentro gli eventi, fargli respirare l'aria: perché anche lui sia là, perché non possa dire "non mi riguarda".
Diceva il grande Kapu che il buon giornalista non può che essere anche un buon uomo: ci ho pensato parecchio, immergendomi in queste pagine.
Lampedusa isola senza tempo, si legge, e verrebbe da pensare a un depliant turistico, a ciò che si dice per attrarre eserciti di spensierati vacanzieri. Però cosa significa, se su questa isola arrivi da migrante in fuga da troppe cose, senza sapere se Lampedusa sarà ponte o vicolo cielo, cimitero di speranza o nuovo inizio?
E' chiaro che il tempo è un altro tempo, allora. E' chiaro che si tratta di un infinito presente che ha teso la sua trappola e che la trama si è impantanata senza che le sue storie si possano sciogliere, in un senso o nell'altro. E' chiaro che ha ragione Lucia Magi, giornalista di El Paìs, che nella postfazione a questo libro scrive:
L'isola che non c'è scompare soprattutto fra le pieghe di un passato che si vuole allontare e di un futuro che non sa cominciare.
Lampedusa. Cronache dell'isola che non c'è - uscito per la casa editrice romana Edizioni Ensemble - fotografa questo limbo, questa attesa, questo presente, nei lunghi mesi in cui Lampedusa è stato sinonimo di emergenza, più o meno strumentalizzata politicamente, più o meno maldigerita dal circo mediatico.
Gli autori, Laura Bastianetto e Tommaso Della Longa, sono due giornalisti professionisti. Il loro mestiere più volte li ha portati dentro i disastri del nostro presente. Per raccontare "l'isola che non c'è", però, non scelgono la strada - più scontata - del reportage, dell'inchiesta giornalista.
Il giornalismo, in questo caso, si mette al servizio delle vite, presta loro la voce. Ne viene fuori un racconto corale, che sa essere allo stesso tempo autentico e dolorosamente poetico.