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mercoledì 14 luglio 2010

Quando il poeta Gigetto imparò a leggere

Dopo Beatrice, Gigetto del Bicchiere, un altro poeta della montagna, un altro poeta che non ha affidato il suo nome ai libri. Parlo di lui in L'ultimo dei poeti, un libro in cui mi interrogo sulla sorpresa, se non il miracolo, della poesia in un uomo che fino a 20 anni non sapeva nemmeno fare la sua firma. Qui sotto un piccolo passo che prova a raccontare un momento di svolta nella vita di Gigetto, quello in cui le parole sulla carta cominciano a prendere forma e significato.

All’origine di tutto ciò che posseggo c’è l’alfabeto.
Questa è una frase che mi piace, il primo rigo di Bella gente d’Appennino di Giovanni Lindo Ferretti, uomo dei nostri tempi che dopo tanto girovagare ha saputo tornare alle sue radici sulla montagna. Penso che una frase del genere abbia a che vedere anche con la storia di Gigetto.
L’alfabeto per lui non è più solo forma, traccia sulla carta. Come le orme lasciate da un animale sulla neve le lettere indicano una direzione. Ma sono anche di più, sono le lenti attraverso cui Gigetto può guardare. Con le lettere ora può vedere. E quello che gli si spalanca è un mondo nuovo.
I libri non gli sono più una cosa estranea. Non sono privilegio dei signori, appannaggio dei letterati. Perfino lui può coglierne il senso e la bellezza.
Cerca anche di farseli prestare e li legge davvero. Qualche opera di poesia addirittura l’acquista. Pensate cosa significa per un montanino abituato a tirare la cinghia, a farsi sempre i conti in tasca. O anche per un povero fante, nell’Italia di quegli anni.
Che cosa rara, un uomo come Gigetto che investe in cultura. Che si dà daffare per procurarsi cibo di parole.
Ricchezza di cui tenere di conto, da non scialacquare come si fa con i soldi per le bevute nei giorni buoni. Da depositare nel cuore, dove nessuno potrà sottrarla. Magari da tenere quanto più possibile a mente, perché si sa, i libri oggi ci sono, ma domani vai a sapere. Vale anche per il mestiere, che nessuno potrà mai togliere, a differenza della casa e del campo. Saggezza contadina, capacità che viene da lontano. Non è difficile imparare a memoria i versi più belli.
Quando ci sarà l’occasione, potrà ripeterli. Nel caso, mescolando quello che ha letto a quello che riuscirà a inventare. Perché è così che si fa. Anche questa è saggezza montanina, le parole ricevute non si tengono per sé; le parole si restituiscono. Allo stesso modo dei semi che ritornano alla terra.

lunedì 5 luglio 2010

Quel luogo a cui a un giorno arriviamo

Ha detto una volta Antonio Tabucchi: 

Un luogo non è mai solo “quel” luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi. In qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un giorno, per caso, ci siamo arrivati

Sono d'accordo: quel luogo non è mai solo quel luogo. Quel luogo è quello che ci portiamo dentro. E' l'altrove che sta dentro il nostro immaginario, l'approdo di ciascuno di noi, la terra che ci appartiene o a cui apparteniamo.

Per Antonio Tabucchi è facile che quel luogo siano le Azzorre. Per altri sarà la Patagonia - mi viene in mente Tito Barbini - oppure la Mongolia - ricordo ciò che di questa terra ha scritto Giovanni Lindo Ferretti. Altri ancora coltiveranno il loro altrove in una baitina di montagna o nella pineta al mare di sempre. E ci sarà pure anche chi - forse il sottoscritto? - guarderà a Mompracem o piuttosto a qualche altra isola che non c'è.

L'importante è tenerne di conto, di quel luogo. Di non smarrirlo. Di non consentire che il tempo lo spazzi via con la sua terrificante capacità di amnesia.

giovedì 24 giugno 2010

Il "partigiano dell'Infinito" e il suo mistero


Ci sono parabole di vita che sfuggono, che intrigano proprio perchè sfuggono. Che alimentano curiosità, attenzione, non necessariamente simpatia, proprio perchè non ci appartengono o addirittura bussano alla porta dei nostri giorni solo per allungarci qualche domandina vagamente imbarazzante. E magari per far vacillare alcune convinzioni che ci accompagnavano da un pezzo.
Giovanni Lindo Ferretti. Partigiano dell'Infinito da Togliatti a Benedetto XVI di Luca Negri (Vallecchi editore) racconta una di queste parabole, quella appunto di Giovanni Lindo Ferretti, l'ex cantante dei CCCP-Fedeli alla Linea - punk filosovietico, quello di Spara Juri per intendersi - che negli anni si è scoperto fedelissimo di papa Ratzinger.

E dunque, forse è stata proprio la curiosità la molla che mi ha fatto avvicinare a questo libro. Il mistero di un approdo o piuttosto la sorpresa per un cammino che non è solo evasione o cedimento. Tanta curiosità, fin da quel sottotitolo, Partigiano dell'Infinito, che mi sa dice già molto di Giovanni Lindo Ferretti, uomo di contraddizioni, uomo però anche fedele a se stesso.

Mi è sempre piaciuta la sua musica - così come più tardi mi è piaciuto il suo modo di scrivere, che sembra appartenere ad altre epoche, altre voci - e tutto questo senza che nemmeno dovessi trovarmi in sintonia con idee e convinzioni varie.

Ma questo non è un libro (o non lo è solo) per i fan dei vari gruppi di Lindo Ferretti, nè un ragionamento sulla sua scrittura. E' un bel libro che dà il senso di un viaggio: nell'interiorità di un uomo che cerca, tra inquietudini e fame di assoluto; e anche in almeno mezzo secolo di storia italiana, nelle speranze, nelle tensioni, nei fallimenti di questo paese.

Alla fine, era chiaro, non ho capito cosa è successo. E chissà, forse le cose sono successe solo in superficie, perché qualunque cosa si potesse percepire sotto il palco dei suoi concerti Lindo Ferretti non è mai stato quello dell'ortodossia sovietica, è evidente: la gente ballava con Spara Juri ma lui cantava anche Emilia paranoica, perfino allora cercava verità, anelava stabilità e condizioni irrevocabili.

Chissà cosa è successo: ma questo libro è un buon modo per continuare a domandarcelo.

domenica 31 gennaio 2010

Ferretti e la voce antica dell'Appennino




All'origine di tutto ciò che posseggo c'è l'alfabeto.

Così comincia questo suo nuovo libro Giovanni Lindo Ferretti, reduce di molte cose che oggi non riconosce più sue, una volta cantante simbolo di diversi gruppi, un mondo girato di concerto in concerto per poi rifugiarsi in un altro mondo, un mondo antico, direi ancestrale, tra le rocce, i pascoli, i villaggi dell'Appennino.

L'alfabeto prima di tutto, dice Ferretti. E l'alfabeto si fa voce, in Bella gente d'Appennino, un libro che non riesco a immaginare come parola scritta, depositata sulla pagina. Piuttosto è nenia, è racconto da veglia al camino in una notte di freddo, è poesia, ma poesia qual'era quella dei montanari di una volta, poesia che si brucia in un istante, scintillio di bellezza, parola che scaccia parola. Parole di altre genti, che non abitano i nostri tempi.

Non posseggo molte parole, ma queste poche sono mie, le ho ricevute, le vivo e riscrivo e solo la morte sigillerà il racconto. Ne faccio commercio, ne faccio dono. Le riconsegno.

E ce le riconsegna con questo libro, Ferretti, racchiudendo in esso storie e gesti antichi, ricordi che risalgono le genealogie, radici non spezzate, odori e sapori, mestieri andati, bestie e uomini.

Un canto antico che sa di sudore e di stalla, una canto che si rinnova, quasi un fragile miracolo.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...