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lunedì 12 novembre 2018

Germania anno zero, il bravo giornalista dopo Hitler

Il giornalismo è l'arte di arrivare troppo tardi il più in fretta possibile. Io non l'imparerò mai. 

Così scrive, come a giustificarsi, Stig Dagerman. E in realtà non ne avrebbe bisogno: nella raccolta di articoli pubblicati da Iperborea con il titolo Autunno tedesco dimostra di essere nel tempo e nel luogo giusto per raccontare un passaggio della storia che mette a nudo questioni di sempre e di tutti.

Germania, anno zero dopo la sconfitta della follia criminale di Hitler. Il paese è in macerie, il popolo alla fame. E' il momento della resa dei conti e di un presente sospeso tra gli orrori che si sono consumati e il groviglio degli alibi, degli opportunismi, dei rimpalli di responsabilità.

Abbondano i giornalisti inviati dal resto del mondo per raccontare la Germania vinta e distrutta. Ma la voce di Dagerman - un giovane inviato svedese con simpatie anarchiche e allergia per i luoghi comuni -  si stacca da quella di ogni altro.

Non generalizza, non astrae, non guarda solo dove vuole guardare. Si muove tra le macerie di Amburgo, Berlino, Colonia. Sale su treni stipati di senzatetto, scende in cantine popolate di disperati, prende nota di genitori che vedono i figli morire di stenti, di ragazzi che rubano patate, di ragazze che si accompagnano ai soldati vincitori. 

E' consapevole che la fame è una pessima maestra di democrazia. E' altrettanto consapevole dell'ipocrisia con cui si sta portando avanti il processo di denazificazione, lasciando a galla i peggiori per rifarsi sui più piccoli. Allo stesso modo, del resto, la guerra ha tolto di più a chi aveva meno, perché si bombardano le case, non i conti in banca.

Sosteneva Alain Finkielkraut:

Non cè bisogno della letteratura per imparare a leggere. C'è bisogno della letteratura per sottrarre il mondo reale alle letture sommarie.

Questo ci insegna Stig Dagerman, giornalista malgrado se stesso, soprattutto uomo che prima di tutto si è assunto la responsabilità dello sguardo, senza prescindere dal cuore. In questo simile a un altro grande del giornalismo che guarda al mondo e che al mondo si mescola. Quel Ryszard Kapuscinski che mi ha insegnato che il bravo reporter deve essere prima di tutto una brava persona. 

Ecco, è questo che ho trovato, nelle terribili storie della Germania del 1946.

domenica 20 maggio 2018

In un'isola greca, perché arenarsi è un'arte

Ci sono libri che ti regalano l'emozione del viaggio anche quando non riguardano posti che solleticano la tua voglia di partire, perché sanno farsi luogo dell'anima a prescindere. E così è per le isole della Grecia che scopro nelle pagine di Paolo Ganz: è dai tempi dell'università che non cerco un volo o un traghetto per raggiungerle, quando qualcuno ne parla provo a esercitare l'arte del distacco, eppure cosa può fare un libro, un bel libro.

E questo è La Grecia di isola in isola di Paolo Ganz (Ediciclo), un libro bello, un libro che sa di Mediterraneo e che del Mediterraneo porta il vento, gli odori, il rumore della risacca, soprattutto la luce. Un libro che va oltre i luoghi comuni, i resoconti da supplemento viaggi di quotidiano, la facile seduzione per adescare gli eserciti di vacanzieri.

Qui c'è molto altro, c'è la Grecia di un viaggiatore vero, c'è la parola meditata su libri importanti, colta sulla linea dell'orizzonte o tra le voce di una caffetteria, filtrata e fermata su un taccuino. Parole che rimandano a letture, a miti, a pensieri. E che dilagano fino a tornare alle sorgenti della nostra civiltà o a interrogarsi su ciò che può essere l'Europa oggi, un'Europa che non necessariamente è quella che si ha per la testa Berlino o Parigi: perché questo è il Mediterraneo, il mare che va in Africa.

Da  Rodi, con la sua storia così intrecciata alla nostra, a Megisti, che non è solo il set di uno dei film più fortunati del cinema italiano. Da Corfù, per alcuni studiosi dell'Odissea la terra dei Feaci, fino a Matala, la spiaggia di Creta che non è più degli hippie ma dove ancora sembra risuoni una canzone di Joni Mitchell.

Paolo Ganz salta di isola in isola e ovunque ci sono storie e oltre le storie c'è una storia che scava dentro e riguarda tutti: perché arrivare e partire, di isola in isola, in fondo riguarda tutti.

Arenarsi è un arte - spiega a un certo punto Paolo - un dono di pochi capaci di lasciarsi andare all'agrodolce piacere di non riuscire più a salpare.

Ecco, in queste pagine vien voglia di essere una di quelle barche, che si arrendono al fondale e al destino. Senza partire più, per un pezzo almeno. Stranieri e cittadini in una di queste isole: con un canto di Omero e un bicchiere di ouzo a tenere compagnia. 

domenica 6 maggio 2018

Per il mondo da giornalista allergico ai luoghi comuni

Sono un giornalista, e spesso i giornalisti cercano scampo nella cuccia tiepida dei luoghi comuni.

Così dice Flavio Fusi, giornalista di lungo corso che per decenni ha girato il mondo in lungo e in  largo, dalla Bosnia al Nicaragua, dal Kosovo al Chiapas, dalla Cecenia al Ruanda, insomma in ogni luogo dove un confine si sbriciolava oppure si faceva muro, le urne lasciavano il posto alle fosse comuni e la contabilità degli uccisi e degli esuli metteva in fila gli zeri. 

Lo dice all'inizio del suo Cronache infedeli (Voland editore), libro in cui appunto racconta le sue esperienze di inviato e corrispondente, ben disposto alla sorpresa e comunque allergico ai luoghi comuni. Uno su tutti, che per un certo periodo, dopo il crollo del Muro di Berlino, ha conosciuto una certa fortuna: quello della fine della storia. Figurarsi: ci avrebbero pensato i Balcani a chiudere la questione, qualche anno prima di un secondo e più pervicace luogo comune, quello dello scontro di civiltà.

Ha fatto altro Flavio Fusi, invece che inseguire luoghi comuni nobilitati da visioni e teorie: ha fatto il suo mestiere di cronista. E il cronista, si sa, si valuta dalle scarpe: se è bravo deve aver per forza le suole consumate, perché non si è accontentato del computer in redazione. 

Per una vita Fusi è andato a vedere là dove le cose accadevano. E più che ragionare delle sue idee e convinzioni ci ha mostrato quanto accadeva. Con l'umiltà che è virtù dei migliori giornalisti - penso per esempio a Rzysard Kapuscinski - ovvero dei giornalisti che non guardano al proprio ombelico, ma colgono i volti e gli sguardi, fermano dettagli che parlano da soli, raccontano la grande storia attraverso le piccole storie.

Tutto questo ritroviamo in questo libro filtrato attraverso la memoria e attraverso una grande qualità di scrittura: che non è enfasi e artificio, piuttosto è essere se stessi. 

Be there, essere là, come dicono gli americani. Virtù del giornalista che sta dove le cose accadono, fermo restando che la linea del fronte può essere anche la periferia di una nostra città. Prendere per mano il lettore, accompagnarlo dentro gli eventi,  fargli respirare l'aria: perché anche lui sia là, perché non possa dire "non mi riguarda".

Diceva il grande Kapu che il buon giornalista non può che essere anche un buon uomo: ci ho pensato parecchio, immergendomi in queste pagine. 

domenica 7 maggio 2017

Lungo i confini, per capire l'Europa che è e forse sarà

Comincia con un mappamondo in precario equilibrio nella stanza del figlio, assediato da pastelli colorati e da tante domande, ma diventa presto un lungo viaggio, anzi una sequenza di viaggi, non in Europa, ma intorno all'Europa.

Comincia interrogandosi sulla frontiera perduta - illusione di tutti coloro che, come il sottoscritto, hanno pensato a un'altra Europa dopo la caduta del Muro di Berlino - ma inevitabilmente si ritrova a fare i conti con i confini che da allora si sono persino moltiplicati e spesso sono anche diventati muro e filo spinato.

Ed è lì, ai margini dell'Europa, in luoghi che fino a qualche tempo fa era facile ignorare, che si può comprendere meglio cosa l'Europa è diventata, cosa siamo diventati noi.

Che bel libro che è Sui confini. Europa, un viaggio sulle frontiere di Marco Truzzi, pubblicato da Exòrma, casa editrice che difficilmente sbaglia un colpo. Nonostante il titolo, che odora di saggio, è un libro di viaggio, un gran libro di viaggio. Dall'Europa che è in Africa, nell'enclave spagnola di Melilla, dove preme la disperazione di un intero continente, all'Europa che si sottrae all'Europa dell'ordinata e indifferente Svizzera. Dal nord della Scandinavia, dove davvero non è tutto oro quello che luccica e dove anzi il gioco delle identità e delle esclusioni si è fatto complesso, fino ai luoghi della disperazione di Calais e Idomeni. Lungo frontiere nuove e vecchie, confini dimenticati e poi ritornati di attualità, per raggiungere alla fine il luogo che non è frontiera segnata sulle mappe, ma che più di tutti è frontiera, anzi frattura, taglio netto tra un prima e dopo, luogo dove l'Europa è morta e da lì ha provato a rinascere: Auschwitz.

Bello, bello davvero questo libro, che sa sfuggire alle tentazioni del discorso autoreferenziale, delle tesi precostituite, della dimostrazione di ciò che si voleva dimostrare. Che si fa occhi che non si stancano di guardare, dita che cercano su una carta una destinazione che non si era messa in conto, domande alimentate da una salutare curiosità.

E l'autore - insieme all'amico Angelo, fotografo e compagno di viaggio - non si tira mai indietro. E nella scrittura c'è con tutte le emozioni che in viaggio del genere può destare. Non solo infinita tristezza, ma anche capacità di raccontare e raccontarsi con umorismo. Se non ci credete, leggete le pagine sui due dispersi in una qualche strada di una Svezia che è quasi Norvegia: con la Volvo in panne e le renne che forse sono alci.....

Ci ho ritrovato tante delle cose che anch'io ho provato a scrivere, magari nei libri con Tito Barbini, da Caduti dal Muro a I sogni vogliono migrare. Ma questo non c'entra, quello che conta è che questo è un libro che fa bene leggere. 

giovedì 29 dicembre 2016

Un po' di compassione: le parole di Rosa L. sotto l'albero di Natale


E nel buio sorrido alla vita, quasi fossi a conoscenza di un qualche segreto incanto in grado di sbugiardare ogni cosa triste e malvagia e volgerla in splendore e felicità. E cerco allora il motivo di tanta gioia, ma non trovo alcuno e non posso che sorridere di me. Credo che il segreto altro non sia che la vita stessa. 

Ogni anno in questi giorno sotto Natale riprendo in mano questa lettera, la rileggo, trascrivo alcune sue frasi, le propongo a tutti voi. Si fa in poco tempo, alla fine si possono anche lasciare da parte i testi con cui Adelphi ha deciso di accompagnare le parole di Rosa Luxemburg, benché si tratti di mostri sacri quali Karl Kraus, Franz Kafka, Elias Canetti, Joseph Roth.

Non importa, basta concentrarsi sulle poche pagine di Rosa e farne tesoro per la nostra vita. Un po' di compassione è una lettera che andrebbe fotocopiata, distribuita, appesa davanti al proprio computer, portata nel portafoglio, tirata fuori e letta riletta ogniqualvolta la realtà ci sembra troppo buia e deprimente, ogni qualvolta ci assale il virus dell'indifferenza. Come forse anche in questi giorni, sospesi tra la strage di Berlino e i brindisi delle feste.

Rosa L. è in carcere. Fuori impazza il mattatoio della guerra mondiale e non c'è nessuna luce in fondo al tunnel, nessuna forza che riesca a levarsi in piedi e urlare le ragioni della pietà. Però anche nello spazio tetro di quella cella riesce a percepire la gioia della vita, che è anche la forza della vita...

Di più: oltre i milioni di morti ammazzati coglie la sofferenza di un povero bufalo maltratto e ne avverte compassione fino a condividerne la sofferenza. Fratello chiama quel povero animale... e siamo ben oltre ogni lettura esclusivamente animalista ante litteram, siamo alla grande lezione di vita...

In Germania questa lettera è nei libri di testo, viene studiata a scuola. Farebbe bene anche a noi far circolare queste pagine. E magari, in questi giorni, farla trovare sotto l'Albero di Natale.

mercoledì 2 marzo 2016

Dove c'era la frontiera dei cani

In tempi di muri che si alzano e di frontiere che tornano a chiudersi, sigillate da eserciti e nuove tecnologie, non fa davvero male dedicare due ore alla lettura di un piccolo grande libro, che getta un nuovo sguardo al più impenetrabile e drammatico dei confini quello che separava le due Germanie e con esse il blocco occidentale e quello orientale.

Quante cose sono state scritte, sul Muro di Berlino e su quella frontiera che in realtà spaccava il mondo a metà. Buon argomento per ragionamenti planetari e per analisi sui destini della storia, però quello che ci regala la scrittrice e giornalista tedesca Marie-Luise Scherer, con il suo La frontiera dei cani (Keller) è una visione ravvicinata, come se avesse usato un teleobiettivo capace di cogliere il dettaglio.

Il suo sguardo si concentra su quella striscia, disseminata di torrette di osservazioni e campo minati, che in quella che allora era la DDR, ovvero la Germania dell'Est, rappresentava la zona vietata. In realtà in quella striscia c'erano anche 297 villaggi, controllatissimi, isolati, abitati solo da persone di cui era riconosciuta la fedeltà al regime. Eppure per tutti quella era la "frontiera dei cani": i cani da guardia, addestrati per sorvegliare e nel caso acciuffare e dilaniare chi provava a scappare.

Un reportage, così si può classificare questo libro, per cui qualcuno ha rievocato l'espressione di new journalism. Scherer, che ricerca una scrittura precisa come un "lavoro sulle sillabe", per il quale "due frasi al giorno sono già una fortuna", ci prende per mano e ci consegna al cuore della Storia.

E tuttavia ce la racconta dal punto di vista della quotidianità, di un mondo che è al centro e allo stesso tempo sta ai margini: contadini e militari, fuggiaschi e cani, per farci capire davvero cos'è la frontiera. 



sabato 12 dicembre 2015

Dall'Afghanistan il coro greco delle madri straziate dalla guerra

Perché a raccontare le guerre sono solo gli uomini? E che cosa ricorderebbero invece le donne? Ne risulterebbe forse un'altra guerra, del tutto diversa?

Cosi si interrogava, già prima di essere un'autrice pubblicata, Svetlana Aleksievic, arrivata ora al Nobel la letteratura. Con il suo primo libro, molti anni fa, dette voce alle donne-soldato dell'Unione Sovietica, in una sconvolgente testimonianza della Seconda Guerra Mondiale. Libro che - senza spingersi fino a dare la parola al nemico - risultò troppo in contrasto con la retorica dell'allora stato socialista per non essere censurato e proibito per molto e molto tempo.

In Ragazzi di zinco (E/O edizioni) Svetlana si ripete. Punta l'attenzione in una guerra di cui ci ricordiamo assai meno anche se da essa sono discesi molti dei guai di cui ancora oggi soffre il nostro pianeta: il terribile conflitto che iniziò a fine 1979, con l'invasione sovietica dell'Afghanistan, per trascinarsi per un decennio, fino quasi alla caduta del Muro di Berlino.

Molti semi del fondamentalismo di oggi, molti orrori che allora non ebbero video postati in rete, appartengono proprio a quella guerra. Ma in queste pagine non si indulge alle descrizioni delle esecuzioni sommarie o dei corpi mutilati a spregio - anche se non mancano immagini terribili, come quella della bambina con le mani mozzate perché rea di aver accettato una caramella dal nemico.

Quello che conta è che Svetlana ancora una volta dà voce a chi non ha voce: alle reclute che partirono per una guerra a volte senza che nemmeno gli fosse detto, ai giovani idealisti che invece scelsero l'Afghanistan convinti di edificare così un pezzo di socialismo, ma soprattutto alle madri - chiamate semplicemente così: le madri - che da quella terra videro rimandare il corpo del proprio figlio sigillato in una cassa di zinco (di qui il titolo).

Bello, impressionante, straziante. La guerra raccontata come raramente è stato fatto. Con la moltitudine delle voci che si fa voce sola, unica, alta: la voce di un coro greco, potente e carico di dolore.

mercoledì 11 novembre 2015

I am a camera with its shutter open, quite passive, recording, not thinking...

Christopher Isherwood racconta le sue peripezie nella Berlino dei primi anni ’30, dove si era trasferito con l’intenzione di scrivere un romanzo. Il risultato è un libro composto di sei piccole storie che ci restituiscono un ritratto arguto e a tutto tondo della capitale tedesca durante gli ultimi giorni della Repubblica di Weimar.

Lo sguardo del giovane inglese si fissa su una Berlino dissociata, scapigliata ed euforica ma allo stesso tempo segnata dalla crisi e da tensioni sociali incandescenti. Un mondo transitorio, agitato da fallimenti bancari e teatro delle violenze di strada di nazisti e comunisti, che inseguono i loro deliri sanguinosi di palingenesi sociale. Una città sospesa che non rinuncia a vivere, ma che sta scivolando verso una discontinuità traumatica.

Isherwood si mantiene a Berlino dando ripetizioni d’inglese e vive, assieme ad altri pigionanti assortiti, in un appartamento gestito da un’affittacamere, Fräulein Schröder, un po’ impicciona come tutte le affittacamere. Isherwood osserva con distacco abbastanza british la città e i suoi abitanti. Ne emerge una galleria di personaggi variegati, ognuno con i suoi desideri.

Successo, amore, magari solo la salvezza personale. Dalle desperate housewives annoiate dei quartieri bene al milieu proletario di Hallesches Tor. Alti borghesi e starlette stralunate che si strascicano fra bar e improbabili carriere nel mondo dello spettacolo.

Una narrazione che a tratti ricorda certe sinfonie di Mahler, in cui sonorità preziose sono inframezzate da materiali di estrazione più vile.

Isherwood passa dalle dimore borghesi di città e dagli chalet sul Wannsee agli alloggi plebei con le chiazze di muffa sul soffitto. Dalle conversazioni colte e annoiate con i rampolli degli industriali alla frequentazione delle bettole sottoproletarie.

Quando si finisce l’ultima pagina e si ripone il volume viene quasi spontaneo chiedersi cosa sia successo ai protagonisti delle storie del libro.

 Lo scrittore inglese, socialista idealista, abbandona infine Berlino quando Hitler diventa padrone della città e della Germania. Isherwood, assistito da una prosa leggera e accurata, non nasconde le proprie idee, ma allo stesso tempo non giudica, osserva, riporta e lascia parlare le sue storie.

Considerato spesso il capolavoro di Isherwood, Addio a Berlino  ha anche ispirato il celebre Cabaret di Bob Fosse, con Liza Minelli nella parte della protagonista. Un romanzo autobiografico che si legge con piacere.

                                                                                                                             SLB

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Christopher Isherwood, “Addio a Berlino”
Adelphi (collana Fabula), 2013
Traduzione di Noulian L.
Pagine 252, Euro 18,00

venerdì 14 agosto 2015

Amsterdam era un brivido di libertà

Era un brivido di libertà, Amsterdam, un sogno che aveva qualcosa a che vedere con altri sogni persi per strada. Anche un risarcimento, in un certo senso. 

Per ottenerlo erano sufficienti un treno nella notte, poche cose infilate in uno zaino e qualche lira in tasca – in tempi in cui l'euro non c'era e un viaggio era tale anche perché toccava cambiare valuta. 

Solo questo ed era un altro mondo che si spalancava. 

Chissà cosa aveva per la testa quel ragazzo che ero io. Chissà su quale futuro almanaccava. Oggi ad Amsterdam, domani in Tibet, o in Nicaragua, o forse anche in Patagonia. E sul serio, cosa avrei scelto nella vita? Il teatro d'avanguardia a New York o una capanna affacciata sul mare dei Tropici? 

Almeno almeno mi aspettava un appartamentino a Kreuzberg, il più  multietnico dei quartieri di Berlino. In ogni caso lontano. Oltre l'orizzonte su cui si allungava lo sguardo di ogni giorno. 

Via dal mio quartiere. Via dall'università da rievocare solo per le chiacchiere in corridoio e qualche morso di apprensione sul futuro, giustappunto. Via dalle cose che si poteva ragionevolmente pretendere dal sottoscritto. Lontano, lontano. 

E Amsterdam, è evidente, sarebbe stato un buon trampolino per staccarsi dalle cose come erano, verso le cose che mi attendevano.

(Paolo Ciampi, L'Olanda è un fiore, Ediciclo)

venerdì 31 luglio 2015

Padri e figli nella saga della famiglia Karnowski

I Karnowski della Grande Polonia erano noti per il loro carattere testardo e provocatore, ma allo stesso stimati per la vasta erudizione e l'intelligenza penetrante. 

Ecco, comincia così, con il passo del grande classico, senza la presunzione di volerlo essere a tutti i costi. Comincia con un colpo d'occhio che guarda lontano e annuncia la saga famigliare. Comincia con la sicurezza del narratore che sa dominare lo spazio e il tempo e le vicende che nello spazio e nel tempo si distendono.

E parola su parola, pagina dietro pagina, ecco La famiglia Karnowski di Israel Joshua Singer, romanzo che mi lascia dietro una bella scia di interrogativi - come devono fare tutti i grandi romanzi - ma uno su tutti: come è possibile che questo libro, uscito nel 1943, sia rimasto in un cono d'ombra per così tanto tempo?

Il tempo, che non sempre è spietato, sta finalmente risarcendo chi ha avuto il solo torto di essere il fratello di uno straordinario scrittore, universalmente conosciuto. Buon per l'Adelphi, la casa editrice che ce lo ha riproposto, e buon per tutti noi.

E allora, se non l'avete ancora fatto, leggete la Famiglia Moskat di Isaac Singer e poi passate alla Famiglia Karnowski di Israel Joshua (o viceversa). Le stesse radici, più o meno anche lo stesso arco temporale, ma anche due pezzi diversi dello stesso mosaico. Nel primo caso il mondo ebraico dell'Europa Orientale cancellato dalla Shoah. Nel secondo, quel mondo che si mette in cammino verso l'occidente, che si fa altro, che almeno in parte trova scampo.

La saga dei Karnowski comincia con Daniel, che lascia il suo villaggio nell'Est e sceglie Berlino:  Si era sentito attratto - scrive Israel Joshua -  dal paese al di là della frontiera, da cui veniva tutto ciò ciò che era buono, illuminato, razionale. E figurarsi, chi avrebbe mai potuto pensare che proprio da quel paese sarebbero piombate un giorno la morte e la devastazione?

Ci sarà anche chi da Berlino riuscirà ad arrivare in America. E l'America sarà allo stesso madre e matrigna, terra di accoglienza e di straniamento. Ma con tutto questo la Famiglia Karnowski non è, non è solo, un romanzo sull'esilio e la persecuzione dei giovani con gli stivali (mai una volta ai nazisti si concede di essere chiamati tali).

Per esempio, è un anche un libro, anzi un capolavoro, sul tempo che passa e sulle generazioni che si succedono, con i propri diritti e i propri torti. Sulle scelte che separano. Sui figli che voltano la schiena ai padri e sui padri che non riconoscono più i figli. E sulle radici che, prima o poi, si lasciano ritrovare. Sugli affetti che non muoiono una volta per tutte.

Sulle persone che gli anni e le circostanze ci fanno riscoprire uguali dopo che testardamente ci eravamo pretesi diversi.

Bello, coinvolgente, commovente.





sabato 4 aprile 2015

Era un brivido di libertà, Amsterdam

Era un brivido di libertà, Amsterdam, un sogno che aveva qualcosa a che vedere con altri sogni persi per strada. Anche un risarcimento, in un certo senso. 

Per ottenerlo erano sufficienti un treno nella notte, poche cose infilate in uno zaino e qualche lira in tasca – in tempi in cui l'euro non c'era e un viaggio era tale anche perché toccava cambiare valuta. 

Solo questo ed era un altro mondo che si spalancava. 

Chissà cosa aveva per la testa quel ragazzo che ero io. Chissà su quale futuro almanaccava. Oggi ad Amsterdam, domani in Tibet, o in Nicaragua, o forse anche in Patagonia. E sul serio, cosa avrei scelto nella vita? Il teatro d'avanguardia a New York o una capanna affacciata sul mare dei Tropici? 

Almeno almeno mi aspettava un appartamentino a Kreuzberg, il più  multietnico dei quartieri di Berlino. In ogni caso lontano. Oltre l'orizzonte su cui si allungava lo sguardo di ogni giorno. 

Via dal mio quartiere. Via dall'università da rievocare solo per le chiacchiere in corridoio e qualche morso di apprensione sul futuro, giustappunto. Via dalle cose che si poteva ragionevolmente pretendere dal sottoscritto. Lontano, lontano. 

E Amsterdam, è evidente, sarebbe stato un buon trampolino per staccarsi dalle cose come erano, verso le cose che mi attendevano.

(Paolo Ciampi, L'Olanda è un fiore, Ediciclo)

domenica 15 marzo 2015

Ripensando ai muri della storia, assieme a Marguerite

Non so se Marguerite Yourcenar abbia mai camminato lungo l'Hadrian's Wall, come sto facendo io in questi giorni. 

Pensate: le Memorie escono nel 1951, esattamente dieci anni prima del giorno in cui il pianeta si risvegliò per scoprire cosa era successo a Berlino. 

E ora lo capisco più di prima: il passato non è fermo una volta per tutte, così come è stato archiviato. Cambia con i nostri occhi. Non c'è solo il presente che sta nel tempo e il futuro che è un'incognita.

Anche la Yourcenar si guardava intorno. Non si preoccupava mica solo degli antichi romani. Leggeva l'autobiografia di Winston Churchill, signore di un'altra Britannia e in lui vedeva prima di tutto un uomo che, almeno entro certi limiti, sapeva spiegarsi e farsi capire. Scrutava il mondo così come era uscito dopo la guerra di Hitler. Si interessava dell'istituzione delle Nazioni Unite e, chissà, forse accarezzava la speranza di un governo mondiale capace di farla finita con tante cose. 

Meditava soprattutto sulla possibilità di un politico di genio, anzi, lo aspettava e lo auspicava. Uno da cui aspettarsi una pace duratura. 

Un po' come Dante Alighieri con  il suo Arrigo, un altro imperatore, un'altra speranza di pace: non che a entrambi sia andata un granché bene.

Lo stesso Muro, prima e dopo Berlino. In effetti un altro Muro, ai tempi in cui lei scriveva del suo imperatore.  

(Paolo Ciampi, La strada delle legioni, Mursia)

domenica 7 dicembre 2014

Il grande Jessie, a cui Roosevelt non strinse la mano

Non credo che tutto questo facesse piacere a Hitler e ai suoi gerarchi. Ma sta di fatto che le cose andarono davvero così quel giorno.

Non è vero che Hitler si rifiutò di stringermi la mano nel corso della cerimonia di premiazione. Hitler non c'era e basta. Non so se avrebbe dovuto esserci e all'ultimo momento preferì andarsene, ma non mi interessa saperlo. 

Mi ha sempre più interessato sapere il perché il presidente Roosevelt nel 1936, dopo le mie quattro medaglie a Berlino, non volle ricevermi per stringermi la mano.

(da Gino Cervi, Storie a cinque cerchi, Edit)

martedì 23 aprile 2013

L'Europa, per Tabucchi, è uno stato d'animo....

In lungo e largo, sulla mappa del Vecchio Continente, Tabucchi si è mosso e ha fatto muovere i suoi personaggi.

E' un'Europa bella e malinconica, carica di ferite, di cicatrici, di muri, di rovine, e naturalmente di fantasmi. Talvolta tornano, di libro in libro, con gli stessi nomi: Ferruccio, Isabel, Tadeus.

Sono ombre fuori tempo o, direbbe Tabucchi, "controtempo": hanno attraversato le intemperie del ventesimo secolo, ne portano tutti i segni.

Ma accade anche ai vivi di sentirsi sfasati, fuori orario rispetto al presente: in un racconto di "Il tempo invecchia in fretta", un uomo cammina per le strade di Berlino, e la città gli sembra irriconoscibile: "Ah, il muro, che nostalgia del muro". E' un ex spia della Stasi, attraversa la Unter den Linden e riflette su un segreto che intende confidare alla tomba di Brecht. 

L'Europa di Tabucchi è un museo della Storia messo sotto assedio.

Il rumore del cambiamento spinge uomini e donne a cercare se stessi nel passato, a vagare nella memoria - la propria e quella del mondo -, all'indietro fino a toccare il mito; oppure a proiettarsi in un futuro che somiglia a un dejà vu.

L'Europa, per Tabucchi, è uno stato d'animo: mutevole come la luce che cambia...

(da Paolo di Paolo, Antonio Tabucchi, da Lisbona a Parigi, viaggi di un europeo ficcanaso, su Venerdì di Repubblica)

giovedì 21 febbraio 2013

Le bugie del babbo nato con la camicia

Si può raccontare l'orrore della persecuzione razziale con la dolcezza di una favola, capace di schiuderti il mondo tenero e fragile dell'infanzia?

Sì, se sei una scrittrice come Irene Dische. Sì, se hai l'umiltà di non tentare il capolavoro, il libro definitivo, perché non è di questo che c'è bisogno, perché a volte è più importante essere esili, allusivi, muoversi leggeri come un pattinatore sulla superficie del ghiaccio.

Come nelle Lettere del sabato, come con questo padre che non si stanca di ripetere: Sono nato con la camicia, figurarsi, lui ebreo che negli anni Trenta si trasferisce dall'Ungheria a Berlino, staccando così il suo biglietto per l'inferno.

E c'è Peter, il figlio, che prima lo segue, rimanendo affascinato dalla grande città, dai suoi cinema e dalle sue feste, e che poi viene mandato via, e chissà perché, chissà perché deve ritornare con il nonno, accontentarsi di questa Ungheria che è sbadiglio, che è provincia, che è distacco.

Però ci sono le lettere del babbo, che dice che tutto va bene, che a Berlino la grande vita prosegue, che un giorno anche lui potrà tornare.

Quando le bugie servono. Quando le bugie sono un atto di amore.

Quando c'è solo il desiderio di proteggere i bambini, di allontanare il loro sguardo dalle brutture del mondo.

Nell'uomo c'è, ci può essere anche questo desiderio: ed è un modo per riscattarci.

sabato 27 ottobre 2012

Il ragazzino che sfidava le frontiere come Tex

Peste e corna! esclama Tex Willer, e se per questo anche il suo amico Kit Carson, quando incappa in un agguato o in qualche altra brutta sorpresa. Peste e corna! ripete Emil Costantin Sabau, ragazzino di 13 anni, immigrato illegalmente in Italia. Lui Tex non lo ha comprato in edicola. L'ha trovato in un magazzino in cui cercava rifugio. La carta avrebbe dovuto proteggerlo dal freddo, gli ha regalato un sogno.

E' un libro intenso e tenero, forte e leggero, Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani di Fabio Geda, libro che precede il successo di Nel mare ci sono i coccodrilli (io però l'ho letto solo ora, nella nuova edizione Feltrinelli) ma che di Geda evidenza già tutte le qualità, a partire da quella di una scrittura che io direi al servizio della vita.

Finisce che non lo mollate più Emil, questo ragazzino cresciuto troppo in fretta eppure ancora necessariamente ragazzino, insieme duro e affamato di tenerezza. Allo stesso modo degli altri personaggi del libro che ne ascoltano il richiamo e lo accolgono nella propria vita.

Finché questo libro diventa quello che non ti aspetti. Più che una storia di immigrazione e di adolescenza rubata, uno stravagante viaggio attraverso l'Europa, sulle ali del caso e dell'ostinazione.

E con Emil ci siete anche voi, a Berlino come a Madrid. Ci siete e quei treni non sono più treni, ma mustang al galoppo attraverso le grandi praterie, destinazione finale Arizona o Colorado o non importa dove, ovunque ci sia l'ultima tribù che possa abbracciarti forte.

mercoledì 29 agosto 2012

Se il tempo invecchia in fretta

In primo luogo mi piace il titolo, di questo libro che credo sia stato l'ultimo di Antonio Tabucchi:. Il tempo invecchia in fretta. Un titolo bello, profondo, vero. Un titolo capace di risvegliare da una amnesia ricorrente.

Poi si sa, c'è tempo e tempo. E il tempo che richiama Tabucchi in questi racconti non è solo il tempo personale o famigliare, è anche il tempo della Storia che si incrocia con la vita degli uomini e delle donne.

Anche della fragilità di questo tempo siamo spesso poco consapevoli. A volte serve proprio un viaggio, per non sottavalutarla.

A me è capitato lo scorso settembre a Berlino, cercando le tracce del Muro nella città che un tempo fu divisa. Oggi il Muro è scomparso, tranne che per un pezzettino meglio conosciuto come East Side Gallery, una successione di bellissimi murales. Per il resto non c'è più. C'è solo un finto Checkpoint Charlie a uso e consumo dei turisti, un euro a foto, oppure un acciottolato che segue il vecchio tracciato... tutto qui.

Anche Tabucchi, nel più bello dei racconti, ci porta nella Berlino d'oggi, dietro i passi di colui che ai tempi fu un agente della Stasi, la terribile polizia tedesca della Ddr, e oggi è un pacifico insospettabile pensionato che si reca sulla tomba di Bertolt Brecht: il suo obiettivo di un tempo.

Seguitelo anche voi, mentre al cimitero si lascia andare a una sua sorprendente confessione, per poi puntare su uno dei migliori ristoranti.  

Ai nostri tempi locali così non ce n'era, caro mio, mormorò tra sé e sé, ci siamo persi il meglio.

E a proposito di tempo, cosa pensate della domanda triste di Tabucchi?

Ti ricordi com'era bella l'Italia?

giovedì 26 aprile 2012

Isherwood e l'inspiegabile bellezza di un libro

Capita anche questo, che dobbiate inchinarvi alla bellezza di un libro che pure non è riuscito a catturarvi. Tranne poi interrogarvi sulle ragioni di tutto questo e tradire qualche piccolo senso di colpa nel momento stesso in cui riponete via proprio quel libro.

E dunque, non so se ho letto Un uomo solo con lo spirito giusto. Non so se sono stato distratto e frettoloso, se mi sono fatto condizionare da altri libri di Cristopher Isherwood che portandomi magari dalle parti di Berlino (Addio a Berlino) mi hanno lasciato senza molti punti di riferimento questa volta, benché la costa della California letterariamente l'ho frequentata come la Versilia, come no.

Non so se semplicemente è stato un libro arrivato nel momento sbagliato.

In ogni caso di esso mi rimane poco, se non il senso di una straordinaria capacità di scrittura, peraltro molto inglese. Oppure lo sguardo attento, davvero cinematografico, se non anatomico, di Isherwood.

Però che strepitosa esplosione di bellezza nelle ultime pagine di un libro che sta tutto nella giornata di un anziano professore omosessuale, bellezza che gioca con la morte, che si mescola con la morte per diventare ancora più bella.

Non mi aveva preso, quel libro. Eppure me lo porterò a lungo con me.

E a proposito, chissà cosa mi sarebbe successo, se negli scorsi mesi Un uomo solo lo avessi visto anche al cinema, con il film diretto da Tom Ford... Esperimento mancato.

sabato 14 aprile 2012

Se un paese si conosce camminado lungo i confini

Wolfgang Buscher è uno di quei giornalisti viaggiatori che non cercano mai un viaggio semplice e disinvolto, che piuttosto si carica sulle spalle un bel bagaglio di inquietudini e perplessità.

Mi era già capitato di fare la sua conoscenza, grazie a un bel libro nel quale raccontava un suo viaggio a piedi da Berlino a Mosca. E ora lo ritrovo,  nelle pagine di Germania, un viaggio (Voland) che racchiudono un nuovo impegnativo itinerario.

Non un paese esotico, ma va bene così, anzi: è un pezzetto che mi piacciono i viaggi dietro casa, mi sembra che in genere abbiano di più da raccontare, che presuppongano uno sguardo meno banale.

Sicuramente non è un viaggio scontato. Sarà per il  modo singolare di Buscher di andare al fondo delle cose sfuggendo per la tangente.

Che poi è quanto fa davvero, perché il suo viaggio non si inoltra nel cuore della Germania, ma si srotola per intero lungo i suoi confini: 3.500 chilometri balzando da un lato all’altro della frontiera, lungo le sponde di fiumi, boschi e montagne, città rase al suolo dalla guerra e oggi trasformate in strani bazar.

Un viaggio per certi versi assurdo, incomprensibile, importante però, perché ci dimostra che è dalla periferia che si può comprendere il centro.

Dal vuoto il pieno: dal paese che non c’è o che sta per svanire ecco ciò che è stato, è e forse sarà la Germania.

lunedì 5 dicembre 2011

Si è spenta la voce di Cassandra

Un'altra grande scrittrice se n'è andata, e chissà se riusciremo a ricordarcene per la sua voce profonda e dolente, piuttosto che per la sua storia, così soverchiata dalle tragedie del nostro Novecento.

Dici Christa Wolf e pensi a Berlino, a ciò che è stata Berlino, a ciò che ancora oggi rappresenta: il nazismo, la guerra e le macerie, il regime socialista e altre macerie morali e politiche, il Muro.... E lei, Christa Wolf, che rappresenta davvero quel cielo diviso che dà il titolo a un suo libro. Gli ideali ma forse anche la collaborazione con la Stasi, l'onnipotente polizia segreta della DDR. Possiamo prescindere?

Per me Christa Wolf è un libro in particolare: Cassandra. Il mito di Troia che rivive con le parole di una delle figure più tragiche. La donna sconfitta e prigioniera che leva la sua voce per meditare sul destino che è di tutti.

Scopro che Christa Wolf per 40 anni, tutti i 27 settembre, scriveva e pubblicava un diario della sua giornata. Così come aveva fatto Maksim Gorki nel 1935, quando aveva invitato tutti i suoi colleghi a raccontare una giornata su questo pianeta.

Non lo sapevo, e ora Christa Wolf per me è anche questa successione di giorni sgranati e raccontati. Quasi una sommessa forma di resistenza alle epoche della Storia.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...