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sabato 11 febbraio 2017

Se il jazz è una domanda: how far can you fly?

E' così che può cominciare. Con qualche nota sul pianoforte che non scivola via come la musica di sottofondo al supermercato o alla guida dell'auto. 

Prima c'è solo un disco mai sentito di un pianista jazz che è meno di un nome. Prima ci sono i gesti distratti di sempre: un'occhiata alla copertina, un tasto pigiato per avviare l'ascolto, una manopola girata per regolare il volume. Qualche istante ancora di silenzio. Poi la vita di uomo sono le dita che si muovono sulla tastiera. La vita di un altro uomo è un cuore che ascolta. 

Sì, è così che può cominciare. Con le prime note di How far can you fly? E la domanda del titolo è subito per chi ascolta: già, quanto lontano puoi volare? 

Con quelle note,  molto lontano. Non più nel salotto di casa, ma nella notte di una metropoli calda e piovosa. Nelle distese di dolore e bellezza che possono convivere dentro un uomo. In una storia che aspetta di essere raccontata, con il rispetto che le è dovuto.

Sì, è così che è cominciata. E così che Walter Veltroni ha scoperto Luca Flores, meraviglioso talento jazz perseguitato dal male di vivere, capace di comporre un capolavoro di dolcezza e malinconia come How far can you fly? pochi giorni prima di uccidersi, nel 1995.

E la musica si è fatta domanda, poi ricerca, poi scrittura. Indagine nel mistero di una esistenza che l'arte non è riuscita a riscattare. 

E per risolverlo, il mistero, Walter Veltroni ha fatto davvero tutto quello che si poteva fare. Ha esaminato documenti e foto, contattato amici, raccolto testimonianze di concerti e registrazioni, ripercorso la storia di un'Italia che stava scoprendo il jazz e in particolare di una Firenze che per qualche anno del jazz è stata una sorta di capitale straordinariamente viva.

Ne è venuto fuori questo libro intenso e commosso, dolente e composto: Il disco del mondo. Vita breve di Luca Flores, musicista (BUR). Un libro onesto, che alla fine non rivela, non risolve. Il mistero rimane mistero, come è necessario. 

Però se sono mancate le parole, quelle note sono ancora un ponte con la nostra vita. Attraverso il dolore, attraverso la pioggia. Così fragile nella sua bellezza, ma ancora in piedi. 

Ora sta a me ascoltare How far can you fly? Ecco, sono le prime note. Volevo mi accompagnassero mentre continuavo a scrivere. Invece mi fermo. Mi fermo qui. 










Ecco, è proprio così che può cominciare. Anzi che è cominciata, per Walter Veltroni. Un disco mai sentito, di un musicista jazz in cui non ci è mai imbattuti. I gesti distratti di sempre. Un'occhata alla c

Con qualcosa che non avevi ascoltato prima e che ora in qualche modo ti obbliga all'ascolto. Perché c'è vita che pretende di essere ascoltata, in quelle note.

domenica 6 settembre 2015

Questo paese, che mi sembra più vero del mondo


Perché questo paese mi pare certe volte più vero di ogni altra parte del mondo che conosco?

E quale paese: quello di adesso, di cui ormai si riesce appena a seguire tutte le novità; o quell'altro che conoscevo così bene, di quando si era bambini e ragazzi, e ciò che ne sopravvive nella gente che invecchia?

O non piuttosto, quello dei vecchi di allora, che alla mia generazione pareva già antico e favoloso?

E' difficile dire.

(Luigi Meneghello, Libera nos a Malo, Bur)

sabato 12 aprile 2014

Ai viaggiatori a piedi i buoni propositi di Jerome

Non riuscimmo ad attuare interamente il nostro programma, per il semplice fatto che le azioni umane sono sempre inferiori agli umani propositi. E' facile dire e credere, alle tre del pomeriggio, che "ci alzeremo alle cinque del mattino, faremo una colazione leggera alle cinque e mezzo, e partiremo alle sei".

"Così riusciremo a fare un buon tratto di strada, prima che il caldo diventi afoso" osserva uno.

"In questo periodo dell'anno, l'aurora è la parte migliore della della giornata. Non vi sembra?" aggiunge un altro.

"Oh, indubbiamente".

"L'aria è così fresca e pura".

"E la luce è così dolce!".

La prima mattina, si mantiene il proponimento. Ci si riunisce alle cinque e mezzo. Il gruppo è silenzioso; individualmente, si è alquanto rabbiosi, propensi a lagnarsi dei cibi e anche di tutto il resto; l'atmosfera sembra carica di nervosismo represso in cerca di uno sfogo. E la sera si ode la voce del tentatore:

"Se partissimo alle sei e mezzo precise, potrebbe bastare, io credo"

(Jerome K. Jerome, Tre uomini a zonzo, Bur)

mercoledì 11 dicembre 2013

I racconti che ronzavano nella mente di Katherine

In questi ultimi anni aveva la mente gremita di racconti, come un alveare è pieno di api: ronzavano proprio lì sulla soglia, aspettando di venire distesi sulla carta; e appena ne aveva lasciato entrare uno movendo la mano, ecco apparirne un altro, che fino allora era rimasto appartato nell'ombra, in attesa della sua occasione.

Scriveva i racconti di getto, in poche ore, quasi in preda ad una allucinazione.

Quando le era possibile cercava, come Kafka, di comporli senza interrompersi mai, dalla prima all'ultima parola: nove, dodici, quindici ore di seguito, venticinque pagine in una giornata; velocemente, sempre più velocemente, perchè l'ispirazione non le sfuggisse e la morte non la afferrasse prima di portare il racconto alla posta.

(Pietro Citati, Vita breve di Katherine Mansfield, Bur)

mercoledì 5 giugno 2013

Se i popoli si fanno un'idea sbagliata gli uni degli altri

Anche lo stereotipo, però, ha il passo lento.

nasce da un'immagine, si clona in un'altra e poi in un'altra ancora, finisce in un libro e poi in un altro ancora, diventa tema di discussione nei circoli intellettuali, è rilanciato dagli amici, colto a mezza voce dai camerieri, riportato nelle cucine, diffuso nelle case popolari, intuito dai politici, urlato dai demagoghi, cavalcato dai giornali, gonfiato dalle masse...

Ci mettono secoli, i popoli, a farsi un'idea gli uni degli altri. E spesso se la fanno sbagliata. 

(da Gian Antonio Stella, L'orda, Bur)


sabato 23 marzo 2013

Quell'inverno, in preda ad astratti furori

Io ero, quell'inverno, in preda ad astratti furori. 

Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch'erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto.

Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un'ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. 

Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l'acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.

(l'incipit di Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia,  Bur)

sabato 15 dicembre 2012

Se l'arte moltiplica i mondi diversi



Grazie all'arte, anziché vedere un solo mondo, il nostro, lo vediamo moltiplicarsi, e quanti sono gli artisti originali, altrettanti mondi abbiamo a nostra disposizione, più diversi gli uni dagli altri di quelli che ruotano nell'infinito; mondi che mandano ancora fino a noi il loro raggio inconfondibile molti secoli dopo che s'è spento il fuoco, si chiamasse Rembrandt o Vermeer, da cui esso emanava.

(Marcel Proust, Il tempo ritrovato, Bur)

martedì 11 dicembre 2012

Il maestro di Delft che riuscì a fermare il tempo

Da un lato, ammiriamo il senso di autocontrollo e di padronanza di sé che le opere di Vermeer ci trasmettono, dall'altro, però, ci chiediamo se il maestro avesse qualcosa che teneva represso dentro di sé e che contribuì a scatenare la frenesia che 'lo portò, in poco più di un giorno, dalla salute alla morte'. 

Per alcuni aspetti, egli è come l'uomo mancante di alcuni dei suoi quadri, quello che è appena uscito dalla stanza o che è in procinto di arrivare. E' impaziente di essere trovato, di essere visto, ma nell'attesa dipinge la quiete.
 

Mentre torno alla Piazza del Mercato attraversando l'Oudemansteeg, il rintocco delle campane della Chiesa Nuova scandisce il tempo, riempiendo l'aria notturna. 

Il tempo passa, ruota  su se stesso e poi riprende a muoversi. Nessuno riuscirà a fermarlo, anche se talvolta sogniamo di poterlo fare.

 E Vermeer ci è riuscito come nessun altro.

(Anthony Bailey, Il maestro di Delft, Bur)

mercoledì 27 giugno 2012

Gli uomini dimenticati di Albert Cossery

Albert Cossery era uno convinto che la sua missione di scrittore fosse di fare in modo che chi leggeva un suo libro il giorno dopo non andasse a lavorare. Era una delle sue battute più celebri, però sono convinto che alla parola missione in realtà fosse allergico. Meglio, molto meglio, rigirarsi dall'altro lato del letto.

Albert Cossery in primo luogo era un disertore della vita, un pigro assolutamente convinto delle ragioni del non far niente.

In realtà qualcosa fece, nella sua vita: pochi libriccini distillati goccia a goccia, cioé parola su parola, riga su riga. Capolavori che ai tempi colsero di sorpresa personaggi del calibro di Albert Camus e Henry Miller e di cui ancora oggi dobbiamo essergli grati.

Gli uomini dimenticati da Dio (Bur editore) per me è stato il primo: una rivelazione.

Cinque racconti, cinque storie di bellezza trattenuta e sconcertante che fiorisce nei quartieri più miserabili del Cairo, tra l'umanità più malridotta e abbandonata a se stessa.

Dimenticavo, anche questo non me l'aspettavo, beata ignoranza: Cossery era egiziano (e questo libro è stato pubblicato per la prima volta proprio nella capitale egiziana, nel 1941). Voce dissonante, singolare, spiazzante di una letteratura che ha sempre avuto in serbo molte più sorprese di quanto abbiamo saputo riconoscere.

Il Cairo di Cossery, con le sue storie che si snodano tra via della Donna incinta e il sentiero dei Ladri, non è il Cairo di un altro grande egiziano come Nagib Mahfuz, con libri come Vicolo del mortaio.

Qui non c'è colore, non ci sono radici, forse non c'è nemmeno storia. Questi uomini dimenticati da Dio potrebbero appartenere al mondo intero, o più precisamente, essere profughi cacciati dal mondo intero, apolidi della speranza, esuli di una realtà da cui ci si difende solo con il sonno o con l'hashish.

Dimenticati da Dio: condannati senza nessuna possibilità di clemenza o di riscatto.

O forse sì, con un'unica possibilità, la grazia della parola quale quella che Cossery ci ha saputo offrire.

mercoledì 6 giugno 2012

Senza perdere tempo a piangerci addosso

Tendiamo a convincerci che tutto peggiori semplicemente perché così succede entro i confini del nostro mondo. 

Un po' alla volta diventiamo meno capaci di fare cose che ci piacerebbe fare, sentiamo di meno, vediamo di meno, mangiamo di meno, soffriamo di più, i nostri amici muoiono, sappiamo che anche noi faremo presto la stessa fine...

Non c'è da sorprendersi, forse, se scivoliamo in un facile pessimismo generalizzato nei confronti della vita, ma è un attitudine molto noiosa e rende gli ultimi, tristi anni di una vita ancora più tristi. 

Se invece intorno al nostro mondo ci sono persone appena 'agli inizi', persone per cui gli anni a venire sono ancora lunghi e pieni di chissà cosa, questo ci rammenta - anzi, ci permette di sentire ancora - che non siamo semplici puntini alla fine di esili linee nere proiettate verso il nulla, bensì facciamo parte dell'ampio e variegato fiume che pullula di inizi - ne siamo ancora parte integrante, e lo sarà anche la nostra morte, così come lo è la giovinezza di questi ragazzi. 

E allora, finché abbiamo la forza e la capacità di capirlo, non perdiamo tempo a piangerci addosso.

(Diana Athill, Da qualche parte verso la fine, Bur)

martedì 22 novembre 2011

Un Don Chisciotte nella Firenze in guerra

Era un grande scrittore e un grandissimo giornalista, Romano Bilenchi, troppo presto dimenticato. Appartiene a un altro mondo e a un'altra epoca, ma tuffarsi nelle sue pagine è sempre un piccolo grande piacere, che prima di tutto ha a che vedere con il piacere di una lingua pulita e densa.

Non solo con la lingua, però. In quetsi giorni mi è capitato tra le mani il suo Amici (Bur Rizzoli), libro che racchiude storie e incontri di un uomo che seppe mantenersi fedele alle sue amicizie. E' una straordinaria carrellata di artisti e intellettuali che animarono la Firenze degli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta, da Elio Vittorini a Mario Luzi, da Mino Maccari a Ottone Rosai.

Ma il personaggio più straordinario - meriterebbe un romanzo - non ha un nome e un posto nella storia della nostra cultura. Era un marchese spagnolo - un nobile decaduto che fa tanto Don Chisciotte - che nella Firenze della guerra, per risparmiare, mangiava in una trattoria di quart'ordine frequentata anche dai membri della Resistenza in clandestinità. Aria di grande di Spagna che non riesce a persuadersi alla sua decadenza, poeta molto convinto delle sue liriche dalla scarsa fortuna, era uno che parlava così: "Che era, Bilenchi, quella guapa signora bionda che paseava con voi?", "Era mia moglie, signor marchese".

giovedì 21 aprile 2011

Ogni dialogo ha bisogno del suo posto


Ah, per Giunone, che bel posto per riposare! Con questo platano così ampio di fronde e così alto! E che slancio quell'ippocastano, che bellissima ombra! E' al colmo della sua fioritura e spande profumo per tutto il luogo. Una sorgente deliziosa scorre sotto il platano con acque fresche, come si può sentire con il piede. E la bellezza del posto, quant'è amabile e dolce! Melodia estiva che risponde al coro delle cicale. Ma più gentile di tutto è quest'erba, cresciuta così soffice sul dolce pendio, perché chi vi si sdraia possa appoggiarvi la testa. Sei stata una guida stupenda, Fedro caro

Sono le parole con cui prende avvio uno dei più grandi dialoghi di Platone, il Fedro, pietra miliare della storia della filosofia. Il ragionamento sull'amore, il destino delle anime dopo la morte, la dottrina delle idee... quante cose che si trovano, nelle parole del giovane ateniese Fedro e soprattutto di Socrate.

Ma l'inizio è questo e mi fa pensare cosa di esso dice un filosofo dei nostri tempi come James Hillman, in una conversazione con la storica Silvia Ronchey (pubblicato da Bur col titolo Il piacere di pensare.... anche questo un dialogo....). E cioé che quelle parole non solo una delle più belle descrizioni di un ambiente della letteratura greca. Sono di più, sono una condizione stessa del dialogo.

Ognuno dei dialoghi platonici comincia in un luogo. Nel senso che quei dialoghi sono collocati nello spazio. Noi, astratti pensatori occidentali, non prestiamo attenzione a dove sono collocati e ne discutiamo le idee, i concetti

Ma poteva il dialogo sull'amore e sulla bellezza, sui sentimenti e i desideri prescindere da quel giardino meraviglioso?

Può essere un dettaglio, ma magari anche questo è un modo per rimettere a posto la nostra vita: trovare i posti giusti alle nostre parole (e a quelle degli altri).

martedì 23 novembre 2010

Da qualche parte verso la fine, con Diana

Sono stati scritti libri su libri sulla giovinezza, e ancora di più sulle complesse e ardue esperienze legate alla procreazione, ma non c'è un granché sull'invecchiamento. E visto che ho ormai imboccato da un po' quella strada, (...) mi sono detta: "Perché non provarci?" E quindi ecco, ci provo

Ci ha provato, Diana Athill, straordinaria editor che per oltre mezzo secolo ha lavorato per regalarci le pagine dei grandissimi della letteratura mondiale (Philip Roth, John Updike, Mordecai Richeler, V. S. Naipul, Margaret Atwood.... può bastare?). Ci ha provato ed è venuto fuori questo piccolo grande gioiello, che a me incanta già dal titolo: Da qualche parte verso la fine (Bur).


Diana Athill ha ormai da tempo varcato la bella soglia dei 90 anni, può permettersi di guardarsi indietro e raccontare la sua vita per intero. Ma in realtà non è questo che fa, questo libro non ci squaderna la sua carriera, non indugia più di tanto su incontri con personaggi famosi e su storie personali. Questo libro ha per argomento la vecchiaia, la sua vecchiaia. Raccontata senza piangersi addosso, ma anche senza tanta retorica sulla saggezza dell'età.


Quando si comincia ad accusare l'età è consolante stare con qualcuno che ha i tuoi stessi acciacchi, dice Diana Athill, ma in realtà è come se avesse invitato tutti noi nel salotto di casa, avesse preparato il tè e ora, con molto garbo, avesse iniziato a intrattenerci con le sue parole.

E non ci risparmia niente, questa bella signora. E dunque eccomi qui, nella vecchiaia inoltrata, diretta verso la mia fine inevitabile.... E non c'è nemmeno il conforto della religione, la realtà è nuda e cruda. C'è piuttosto un corpo che ogni giorno perde qualcosa, c'è una vita che si dirada di possibilità, c'è il rimpianto sempre in agguato.

Eppure, eppure, c'è anche il sorriso. C'è la forza di guardare in faccia le cose e poi di viversele. Gustandosi fino in fondo tutto quello che c'è da gustarsi.


Non sono sicura che scavare nel passato in cerca di peccati sia un'occupazione utile per chi è molto anziano, considerato che ormai si può fare ben poco per porvi rimedio. Ho raggiunto una fase in cui si spera di essere perdonati per la concentrazione esclusiva con cui ci si dedica a vivere il presente

E che grande lezione di vita.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...