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domenica 28 luglio 2019

Marisa e il romanzo che ci riporta sull'Appennino

E dunque, da dove cominciare? Forse dai tre anziani fratelli che nel giro di pochi mesi scompaiono uno dopo l'altro, tanto da destare il mormorio della gente, perché uno va bene, due anche, ma tre non può essere più un caso. Oppure dalla figura di Saverio, giornalista come credo di aver conosciuto in diverse redazioni locali, spezzatino di talento, di amore per la professione e disillusione, se non altro lui prova a esorcizzare la routine di una vita con le complicazioni - e quali complicazioni - dei sentimenti. O forse, ancora, da un intero paese dell'Appennino tosco-emiliano, con le sue storie sedimentate nel tempo, le memorie che non sono mai univoche, gli intrecci di interessi e relazioni, il fluire incessante di pettegolezzi, confidenze, illazioni. 

Non so bene da dove cominciare, per parlarvi de L'ultimo dei Santi di Marisa Salabelle, e credo che questo sia già un buon inizio, vuol dire richiamare la ricchezza del libro, con i suoi molteplici spunti e possibili piani di lettura. Un giallo, sì, certamente: ma un libro, un bel libro, soffre se chiuso dentro una definizione di genere. 

Ne L'ultimo dei Santi ci sono misteri, investigatori, indagini, una trama che si scioglierà in modo imprevedibile. Però non è un caso che sia stato scelto per aprire la collana Appenninica, curata dal sottoscritto e da Marino Magliani per la casa editrice Tarka.

Perché dentro ci sono i colori e gli odori dell'Appennino, perché dell'Appennino c'è la gente, perché persino il paese di Tetti, per chi frequenta i posti, diciamo, tra Pistoia e Porretta Terme, è posto che esiste e si riconosce. Perché Marisa ci racconta cos'è stata questa montagna non troppo tempo fa, ancora nel secondo dopoguerra, e cosa è oggi: sempre più marginale, abbandonata, incerta sul suo futuro. 

Ma chissà, forse sarà anche grazie a libri come questi, buone storie per buone penne, che riusciremo a immaginarci un futuro per la nostra montagna. 

lunedì 8 luglio 2019

Bartolo e l'amicizia che non basta più a un uomo buono

L'anno che Bartolo decise di morire, nessuno si era accorto di niente.

L'incipit è questo, fulminante. Come una promessa che sarà mantenuta fino in fondo, in un libro che proprio intorno alle promesse che con l'età si smarriscono ha uno dei suoi temi più forti e suggestivi.

E' bello L'anno che Bartolo decise di morire di Valentina Di Cesare, bello e sorprendente. Soprattutto è il romanzo di una voce originale, che sa essere se stessa e sa farsi riconoscere: la voce di un'autrice che, insieme ad altre - penso a Paola Musa e Nina Quarenghi di cui vorrei parlarvi presto - ha recentemente arricchito e qualificato il catalogo di Arkadia editore.

Quante cose accaddero in quell'anno, l'anno in cui Bartolo decise di morire, l'anno che è richiamato all'inizio di quasi tutti i capitoli in cui si dipana la narrazione. Accadono, ma quasi sempre sotto la superficie delle relazioni e delle parole, e anche questo è un problema, peggiore di tanti disastri che la vita può riservare, più o meno all'improvviso. Accadono, ma sono slittamenti profondi, voragini non monitorate, fenomeni carsici di cui c'è evidenza solo quando è troppo tardi. 

Bartolo è un uomo sorprendentemente normale, un uomo buono, che vive la vita della sua cittadina, quella dove è nato e dove ha fatto ritorno, quella degli amici dell'adolescenza, quando tutto sembrava possibile, persino prendersi gioco del tempo. Sa ascoltare, sa addirittura sentire, perché come dice il vecchio maestro Nino: Il dolore degli altri non si ascolta, si sente.  Molto meno è ascoltato, e sentito. 

Intorno ci sono ancora gli amici di una volta, legami che in qualche modo hanno sopravvissuto ai diversi destini, quasi tutti incerti e discutibili. Ma a un certo punto, è chiaro, non bastano più le quattro chiacchiere al bar, ci vorrebbe altro.

Basta, finisco qui, non voglio sciupare una lettura che lascia il segno con le domande che ognuno di noi si dovrebbe porre: sul dolore degli altri, sul coraggio delle relazioni, sul tempo e l'amicizia. Domande doverose, sì, solo che viene semplice, come a certi personaggi del libro di Valentina, nasconderle prima di tutto a se stessi.




lunedì 28 gennaio 2019

In Svizzera il detective che usa i mezzi pubblici

"Un detective che usa i mezzi pubblici." Francesca sorrise con dolcezza. "Che cosa c'è di più autenticamente elvetico?"

Elia Contini non è un mostro di empatia e come investigatore privato è piuttosto improbabile. Del resto non sembra che sia una professione con molte opportunità nella quieta e ordinata Svizzera. Contini, poi, è un uomo svagato, distratto, a disagio con le tecnologie che oggi sono imprescindibili. Ama starsene per i fatti suoi: e questo, in effetti,  è anche di altri investigatori. Però la sua principale qualità è la pazienza: annota i dettagli, ragiona adagio, adopera la lentezza.  Ci sta bene, in una storia svizzera che è anche una storia di montagna.

Elia Contini l'ho scoperto con Gli svizzeri muoiono felici - già il titolo è intrigante - ovvero con l'ultimo romanzo (Guanda editore) di Andrea Fazioli, scrittore di Bellinzona che già ha ottenuto importanti riconoscimenti. 

Il personaggio è come una di quelle persone che sembra facciano apposta a schivarti, ma alla fine riescono a occupare un posto nel cuore. La trama, poi, è sorprendente, rovescia le convenzioni della detective story. Gioca a carte scoperte, col delitto raccontato in presa diretta fin dalle prime pagine. 

Ma sono gli umori, le atmosfere, le traiettorie esistenziali che contano davvero. Sono le parabole dei personaggi che intrecciano le cime delle Alpi ai deserti dell'Africa. Fanno di questo noir un noir diverso dagli altri. Non la storia di un uomo chiamato a risolvere un caso, ma la storia di culture diverse che viaggiano e si incontrano. Da leggere, merita. 

lunedì 3 settembre 2018

Preda e predatore tra Liguria e Sudamerica

Le cose si accettano. Come il fatto di sentirsi quel rotolo di pancia sotto la canottiera o avere solo un nome, e lui è Leo e basta. 

Leo, che in questa storia abbraccia due epoche e due continenti. Leo, che  non sai più se sia preda o predatore. Leo che si affanna per accaparrarsi un rudere di villa ma che più di un atto di proprietà si contenterebbe di conoscere il destino di una persona cara. Leo, il protagonista del libro con cui Marino Magliani torna al romanzo: Prima che te lo dicano gli altri, edizioni Chiarelettere.

E' bello inseguire Leo pagina dopo pagina, immergersi nella trama degli eventi, persino stare col fiato sospeso per vedere come andrà a finire, nemmeno fosse un thriller. Bello anche semplicemente immergersi in una scrittura che, a mio modesto parere, è assieme lirica e potente, scabra e intensa, allergica agli effetti speciali eppure affilata come una lama. 

Quante cose che ci sono, dentro questo libro: alcune, certo, che ho avuto modo di scoprire dentro altre opere di Marino, non fosse altro che fanno parte della sua biografia. Solo che anche quest'ultime si sciolgono dalla precedente scrittura - di viaggio e paesaggio - e si mettono al servizio di una storia dura, intensa, a volte spiazzante. 

E ci sono due anni, a mezzo secolo di distanza l'uno dall'altro: uno, il 1974, che è stagione battuta dalla nostalgia, l'altro, il 2024, che è futuro già compromesso dal nostro presente.

C'è la Liguria di una volta, di carrugi e campi coltivati, ma anche la Liguria di oggi, con il cemento, le multiproprietà, la speculazione e il degrado che dal mare son saliti in montagna: La Liguria invasa da tedeschi e dai rovi.

C'è l'Argentina, che più o meno è l'Argentina di oggi,  tango, pampa e malinconia, ma anche troppi scheletri negli armadi. L'Argentina con il suo passato che è spettro ed è ingombro, con le efferattezze dei generali e il silenzio assordante dei tanti desaparecidos. 

E c'è Leo, appunto, Leo alle prese con il mistero di un morto che si può dubitare sia morto.

E oltre alla storia, ai suoi personaggi, ci sono frasi che a volte sono sciabolate di luce e a volte sembrano fatte della stessa terra che descrivono. Altre volte ancora sembrano raccontare qualcosa, molto, dello stesso Marino, lui che in questi anni ha saputo portarci tanta buona letteratura dal Sudamerica.

Mi piaceva, sai, tradurre. Perché tradurre è far finta di raccontare la stessa cosa, ma mai quella.

Forse in questo libro ha fatto qualcosa del genere anche con Leo. E con se stesso.


 

sabato 11 novembre 2017

Nella casa dei bambini, dove c'è un noi



La fantasia è pericolosa, dicevano nella casa, allontana dalla verità. Invece avevano ragione i bambini, gli incendi c'erano stati, le milizie del governo avevano bruciato le case per frenare la rivolta. Ma loro, chiusi nella Casa, non potevamo saperlo.

Prendete un posto così, che tra queste pagine si chiama Casa dei bambini  ma che verrebbe da chiamare in un altro modo, orfanotrofio e peggio. Sistemateci un gruppo di bambini che per vari motivi di un passato spesso incerto hanno perso i genitori. Pensate ai loro giorni trascorsi con privazioni che diventano abitudine, la fantasia tenuta al guinzaglio e la verità sottratta, perché si reputa pericoloso sapere cosa sta succedendo fuori. E poi provate a riflettere a cosa può significare il mondo oltre quel muro di recinzione, la vita oltre.

E' da questa situazione che parte La casa dei bambini, il romanzo di Michele Cocchi (Fandango Libri), che ho avuto la fortuna di presentare l'altra sera a L'Ora Blu di Firenze e prima ancora di leggere con sorpresa e piacere.

Come succede quando un libro che funziona, c'è buona scrittura senza effetti speciali, c'è buon uso - anzi, cura - della parola. Sarà che Michele Cocchi prima di darsi al romanzo si è misurato con la brevità del racconto e prima ancora con la poesia.

Ma c'è anche complessità che sa farsi semplice. Che è prima di tutto complessità delle emozioni e delle scelte di vita. Perché quella Casa è luogo da cui non si può non voler fuggire, ma anche luogo a cui in qualche maniera i quattro protagonisti della vicenda - Sandro, Nuto, Dino e Giuliano - non riescono e non riusciranno mai davvero a liberarsi. E non lo vorranno, non forse altro che per la forza dei ricordi.

C'è un noi che cresce e dà un senso, dentro quella Casa, nei legami tra quei quattro ragazzi. C'è un noi da cui non si potrà prescinde nemmeno dopo, quando le strade della vita porteranno fuori, verso destini diversi. Magari obbligando a nuove appartenenze, che comunque non avranno mai più la stessa capacità di coinvolgimento:

Avrebbe fatto parte dei ribelli, eppure presagiva che nemmeno questa sarebbe stata una vera famiglia.

E quanto mi viene da pensare a quel noi, quanto ci sarebbe bisogno di ritrovarlo, un noi, nell'epoca che ha sostituito i selfie alle foto di squadra (o di classe). Con la preoccupazione che in realtà possa restare solo una foto, appunto, nell'album dei ricordi.

E per il resto, ecco i dilemmi chiamati in causa dalla fame di verità e di libertà. Ma ecco soprattutto la voglia di narrare - e in certe pagine siamo dalle parti del romanzo di avventure - ecco una narrazione che ha saputo nutrirsi di buone letture - da Romano Bilenchi a Italo Calvino - e dell'odore dei nostri boschi, su in montagna.


venerdì 25 novembre 2016

Un ventilatore e intorno le persone e tutto un paese

Quegli oggetti sono rimasti lì, immobili, a volte solo per qualche anno, a volte per più di un secolo. Senza saperlo sono stati il paesaggio di fronte a cui si sono svolti i momenti più intimi dell'esistenza di tutte quelle persone che ora non ci sono più, ma che ci sono state, e in un certo senso ci sono ancora, riportate in vita, in una sorta di invisibile vita, proprio da quegli oggetti che sono sopravvissuti loro.

Ecco, questa è un'idea che tante volte è passata anche a me per la testa. Anzi, più che un'idea, a volte una sorta di rivelazione. Mi è successo, per esempio entrando nella casa di una persona che non c'era più, ma dove i suoi oggetti erano rimasti dove prima, come sentinelle condannate all'attesa vai a sapere di cosa. Soprammobili in salotto, fotografie incorniciate, cartoline in vista su una scrivania, libri abbandonati su un comodino come se la lettura dovesse riprendere, perfino elettrodomestici a volte. E' vero, malgrado il loro silenzio, gli oggetti custodiscono le vite trascorse e a volte alimentano qualcosa che allude a un'altra vita. Come i nomi, del resto.

E' successo anche a me, ma intorno a questa idea - o a questa rivelazione - Valerio Aiolli ha saputo scrivere un intero romanzo. Lo stesso vento, pubblicato da Voland, è un gran libro, dove c'è un ventilatore che un giorno Fausto, apprendista operaio fiorentino, regala alla ragazza che sposerà, Adriana. Pegno di amore davvero inusuale, certo. Ma comincia così la storia di quel ventilatore, che in queste pagine compare e scompare allo stesso modo di un fiume carsico, cucendo molte altre storie.

Intorno c'è l'Italia che crede nei proclami di Mussolini, c'è l'Italia distrutta dalla guerra e poi rapita dall'ottimismo del boom, c'è l'Italia percorsa dai venti del Sessantotto e poi un'altra Italia ancora, certamente con meno sogni e visioni. E ci sono le persone, le esistenze comuni segnate da amori e separazioni, nascite e lutti, giorni di lavoro e giorni di festa.

Il ventilatore passa di mano in mano, di generazione in generazione, di luogo in luogo. Da apparecchio all'avanguardia diventa curiosità da mercatino delle pulci. In fondo sempre inerte, anche quando le sue pale girano. Eppure è davvero fiume, che porta con sé le storie della vita. Allo stesso modo della scrittura di Aiolli che è grande scrittura: ma questa non è una rivelazione,  è da diversi libri che si sapeva.

venerdì 4 marzo 2016

Complicazioni e maldicenze in una piccola cittadina del Maine

Aveva sposato una ragazza dell'estate. E, come vi direbbero, in molti, non era quasi mai una buona idea. Aveva sposato una ragazza dell'estate che veniva dal Massachusetts, e già solo questo presentava complicazioni.

West Annett, cittadina del Maine, terra di antichi pionieri e protestanti particolarmente rigidi. America rurale, un altro pianeta rispetto a New York e San Francisco, ma stesso pianeta rispetto alla Guerra Fredda e alla paura dell'atomica. Tyler Caskey è un giovane pastore di anime, brillante nei suoi sermoni, forte nei sentimenti per la comunità che è chiamato a guidare. Solo che ha una moglie che non ti aspetti per un uomo di religione e che certo non si aspettano i suoi fedeli: una donna bella, giovane, sensuale, annoiata.

Cosa può succedere con una moglie così in un piccolo mondo antico come quello? E soprattutto cosa può succedere dopo che la morte piomba sulla famiglia di Tyler e  Tyler sembra aver smarrito le parole giuste per rivolgersi ai suoi fedeli?

 Grande romanzo Resta con me di Elizabeth Strout (Fazi editore), scrittrice che come poche altre sa disegnare con tratti essenziali e precisi  movimenti dell'animo, relazioni complesse, storie di vita ordinaria. 

Romanzo di solitudini e incomprensioni, Resta con me. Ma anche romanzo corale, del pregiudizio che fa presto a mettere radici, della maldicenza che è l'altro verso di una vita insoddisfatta e insicura.

Difficile trovare un varco quando tutto questo assedia una vita già colpita duro. A meno che non si spazzi via il tavolo delle carte, con il più clamoroso dei gesti. Il più autentico, quello di un cuore che non si preoccupa delle conseguenze. Quale sia, spetta a voi scoprirlo. 

sabato 23 agosto 2014

Faccio il poeta, anzi no, l'avvocato

"Quando mi siedo davanti al computer, mi coglie la disperazione!" è una cosa molto letteraria da dire.

"Quando mi siedo davanti al computer mi sento inutile" è, secondo me, un'affermazione un po' più vicina alla verità. Perché ci sono poche cose che possano far sentire più ridicoli, in questo anno del signore 2011, del sedersi a tavolino a scrivere un "romanzo".

No, in realtà eccone una: sedersi a tavolino e scrivere una poesia.

Il ruolo dello scrittore è diventato assurdo. Forse i lettori non se ne sono ancora accorti, ma gli scrittori lo avvertono intensamente. Conosco un poeta che, se gli si chiede cosa fa nella vita, risponde "L'avvocato" anche se non lavora come avvocato da più di dieci anni. 

Gli sembra che starsene in una stanza di Londra, nel 2011, e dire "Faccio il poeta" sia come dire "Accendo i lampioni a gas" o "Sono il banditore del villaggio".

(Zadie Smith, Perché scrivere, Minimum Fax)

lunedì 13 gennaio 2014

La magia del quaderno perduto di Pirandello

Adesso scrivo con un pennino comprato al mercato dell'antiquariato. Voglio provare le stesse sensazioni del passato, di quando Pirandello intingeva nel calamaio. Scrivo al massimo quattro-cinque parole, poi rituffo il pennino d'oro (ebbene sì, lo avevo comprato d'oro, non avevo badato a spese) nella boccetta anche questa rigorosamente d'epoca. Con cura, faccio scivolare sul bordo di vetro la goccia blu superflua che sarebbe caduta imbrattando il foglio. Il gesto di allungare la mano verso il calamaio dà ritmo alla scrittura, è un movimento che aiuta la fantasia a prendere forma concreta, non è una perdita di tempo, tutt'altro. Mi trovo perfettamente a mio agio nonostante in ufficio lavori al computer. E per vivere ancora di più queste sensazioni scrivo a lume di candela...

Che cosa straordinaria, per un uomo che lavora nell'editoria, poter mettere le mani su un manoscritto di Luigi Pirandello che dire perduto è poco, perché della sua esistenza in effetti non si era mai avuto sentore: la prima novella, scritta da ragazzino, il primo passo nei territori della letteratura.

Che cosa straordinaria e quali emozioni si possono scatenare anche solo riconoscere le prime lettere, individuare quella grafia, capire che si tratta di un documento autentico, che sulla carta c'è davvero un Pirandello che nessuno aveva avuto sotto gli occhi...

 Ma cosa potrà mai succedere, se questa novella è in realtà incompiuta, la sua trama congelata su una pagina, i suoi personaggi bloccati come per una istantanea, in attesa del seguito?

Succede, potrà succedere, quello che ci racconta Il quaderno perduto di Pirandello (Felici editore), primo romanzo di Giovanni Parlato, giornalista navigato che qui, in uno dei libri che più mi hanno sorpreso del 2013, si rivela anche grande narratore.

Storia di una sfida letteraria, questa, mossa da una tentazione che non si sa se sia più truffa o immedesimazione. Storia di pagine che, a distanza di tanti anni, una volta riscoperte, ancora sanno parlare, destare emozioni, sollecitare scelte. Storia che è più di una storia, è una storia molteplice, che si frange su numerosi piani e sviluppi, complessa come può essere una novella di Pirandello, dolce e rassegnata come può esserlo solo una sera siciliana.

In ogni caso storia popolata di ombre e possibilità, storia sospesa in quella magia che solo certe terre e certa letteratura sanno evocare.

mercoledì 6 novembre 2013

Cercare una persona tra le righe di un libro

Quando una persona cara ci dà un libro da leggere, la prima cosa che facciamo è cercarla fra le righe, cercare i suoi gusti, i motivi che l'hanno spinta a piazzarci quel libro in mano, i segni di una fraternità.

Poi il testo ci prende e dimentichiamo chi in esso ci ha immersi: tutta la forza di un'opera consiste proprio nel saper spazzare via anche questa contingenza!

Eppure, con il passare degli anni, accade che l'evocazione del testo faccia tornare alla mente il ricordo dell'altro: alcuni titoli sono allora di nuovo dei volti.

(Daniel Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli)

lunedì 4 novembre 2013

Pennac: l'uomo scrive libri perché si sa mortale

L'uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale. Vive in gruppo perché è gregario, ma legge perché si sa solo.

La lettura è per lui una compagnia che non prende il posto di nessun'altra, ma che nessun'altra potrebbe sostituire. Non gli offre alcuna spiegazione definitiva del suo destino ma intreccia una fitta rete di connovenze tra la vita e lui.

Piccolissime, segrete connovenze che dicono la paradossale felicità di vivere, nel momento stesso in cui illuminano la tragica assurdità della vita. Cosicché le nostre ragioni di leggere sono "strane" quanto le nostre ragioni di vivere. E nessuno è autorizzato a chiederci conto di questa intimità.

I rari adulti che mi hanno dato da leggere hanno sempre ceduto il passo ai libri e si sono ben guardati dal chiedermi cosa avessi "capito".

A loro, naturalmente, parlavo delle loro mie letture. Vivi o morti che siano, a loro dedico queste pagine.

(Daniel Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli)

venerdì 25 ottobre 2013

La storia raccontata, che è come una preghiera

Quell'improvviso armistizio dopo il frastuono della giornata, quell'incontro al di là di ogni contingenza, quel momento di silenzio raccolto che precede le prime parole del racconto, la nostra voce finalmente identica a se stessa, la liturgia degli episodi... 

Sì, la storia letta ogni sera assolveva la più bella funzione della preghiera, la più disinteressata, la meno speculativa, e che concerne solamente gli uomini: il perdono delle offese.

Non confessavamo nessun peccato, non cercavamo di conquistarci nessuna fetta di eternità, era un momento di comunione, tra di noi, l'assoluzione del testo, un ritorno all'unico paradiso che valga: l'intimità.

Senza saperlo, scoprivamo una delle funzioni essenziali del racconto e più in generale dell'arte, che è quella di imporre una tregua alla lotta degli uomini.

(Daniel Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli)

sabato 5 ottobre 2013

Per un romanzo ci vuole fiducia nel mondo

Per scrivere un romanzo, mi sembrava, uno scrittore dovrebbe vivere in un mondo dotato di senso, un mondo in cui poter credere, da poter mettere a fuoco per bene e su cui poi scrivere accuratamente. 

Un mondo che, almeno per un certo tempo, rimanga fisso in un posto. Inoltre, dovrebbe esserci una specie di fiducia nella correttezza di quel mondo. 

Fiducia nel fatto che il mondo conosciuto abbia una ragion d’essere, e che valga la pena di scriverne, che non vada tutto in fumo mentre lo fai.

(Raymond Carver, Il mestiere di scrivere, Einaudi)

giovedì 13 giugno 2013

Cartesio, il filosofo che scriveva in prima persona

Cartesio rompe con la tradizione segnalandolo innanzitutto con un discorso stilistico: il Discorso sul metodo è scritto in prima persona.

Così una delle più grandi opere filosofiche è anche una delle più leggibili, e serve come adeguato punto di partenza per una nuova epoca che pone al centro l'individuo.

Il Discorso sul metodo non comincia con formule matematiche o proposizioni scientifiche, nè schierando autorità esterne, ma con un essere umano in carne e ossa - Cartesio stesso - che siede solo, e pensa.

Il testo sprigiona un'atmosfera confortevole, accogliente: si riesce quasi a sentire il fuoco crepitare sullo sfondo. 

Siamo in un ambiente familiare: quello del romanzo, della narrativa, del teatro, del film. E' umano e, sì, moderno. 

(Russel Shorto, Le ossa di Cartesio, Longanesi)

martedì 13 novembre 2012

Il bisturi della parola per dissezionare la vita

Perché ti racconto tutto questo? Non ho una risposta da darti. Una delle mie risposte precise, brevi, "chirurgiche", come le chiami tu. E' l'emorragia della vita che bussa alle tempie. Come l'ematoma della tua scatola cranica. Adesso lo so, Angela, sei tu che stai operando me.

Pensare che mi sono deciso a leggere questo romanzo solo 10 anni dopo che si è imposto all'attenzione generale con la vittoria dello Strega e comunque molto tempo dopo che ho visto il film che ne è stato tratto. Sarà che con me funziona così, mi riesce difficile leggere un libro dopo che ho visto il film, spero che non sia solo "perché la storia la conosco già".

Ma che meraviglia Non ti muovere di Margaret Mazzantini. Un libro che ti strappa il cuore fin dalla prima pagina. Quella giornata di pioggia, il motorino che scivola sull'asfalto bagnato, la corsa in ambulanza della ragazza di 15 anni, verso l'ospedale dove lavora il padre, verso una speranza di salvezza esile come un filo di luce attraverso una porta socchiusa. 

E il padre che non entra in sala operatoria, il padre che attende fuori e cominca a raccontarsi, a raccontare se stesso alla figlia che è di là, a dissezionare la sua stessa vita come se fosse lui su un tavolo operatorio e il bisturi tagliasse l'epidermide delle certezze, delle cose che altri possono sapere di un professionista rispettabile, di un uomo di successo.

E segreti che il tempo ha seppellito ma non cancellato, ricordi che ritornano e sono lame che penetrano nella carne, sentimenti di colpa che sono il fardello della vita.

E la storia, va bene, la storia. Ma questo libro è in primo luogo la potenza del linguaggio, è la parola precisa, insostituibile, necessaria, la parola che coglie con precisione ogni emozione, come un bisturi che non sbaglia.
 

mercoledì 7 novembre 2012

Un po' di nostalgia per il romanzo lungo

Sta tramontando l'epoca del romanzo lungo, travolto prima che dal gusto del lettore dalle nuove tecnologie?

In diversi se lo stanno domandando e recentemente anche Gail Rebuck, presidente della Random House, una delle più grandi casi editrici del mondo, ha risposto così a chi gli domandava se in futuro si leggeranno ancora romanzi: "Sì, ma quanto lunghi?"

E certo, la nuova epoca dell'editoria digitale e dei lettori multitasking infligge un deprimente senso di obsolescenza ai cultori del Dottor Zivago o della Recherche. Scrive Enrico Franceschini su Repubblica:

I lettori non hanno più tempo da dedicare a libri di 400 o 500 pagine, sottoposti come sono a troppe distrazioni dal web, fra social network, email, tablet e telefonini intelligenti.

E può non dispiacere l'età dell'oro che si annuncia per il romanzo breve, di cui bene parla Ian McEwan:

Spesso i critici reagiscono a un romanzo breve come se un autore avesse sbagliato qualcosa o non avesse osato abbastanza, ma un libro più lungo non significa necessariamente un libro migliore, anzi.

D'accordissimo, tanto più che si possono catalogare come romanzi brevi anche Morte a Venezia di Thomas Mann o The Dead di James Joyce. Però in tutto questo mi sento un po' dinosauro. Che bello, sprofondare di tanto in tanto in quegli oceani di carta e perdersi nelle trame, ripartendo ogni giorno da dove ci si era lasciati il giorno prima, magari rallentando verso la fine, perchè è un dispiacere che quella storia non prosegua, che quel personaggio ci dica addio...

giovedì 23 agosto 2012

E se sono stati gli islandesi a inventare il romanzo?

 Diceva il grande Jorge Luis Borges, che era argentino e con l'Islanda apparentemente non c'entrava nulla:

A partire dal dodicesimo secolo gli islandesi scoprono il romanzo, l'arte di Cervantes e di Flaubert, senza che il resto del mondo se ne accorga

Solo apparentemente non c'entava nulla, è ovvio: perché a qualsiasi lingua appartengono i libri alla fin fine si ritrovano tutti nella stessa biblioteca, una biblioteca universale che non può non essere di tutti. Però è vero, questa cosa dell'Islanda si conosce poco.

Nemmeno io ho mai letto le saghe, e sì che anche in Italia ormai sono disponibili in diverse buone traduzioni. Sarà che le ho sempre classificate come una lettura da addetti ai lavori o da adepti di un folclore nordico che alla fine stanca. Con tutta la simpatia per i vichinghi e per le loro straordinarie navi con cui sfidavano i mari più gelidi.

Però che fascino, queste saghe, parola che di per se stessa fa vibrare sensazioni di lontananza, ma pure di intimità, come a evocare sere di neve e vento e racconti condivisi intorno a un fuoco.

Saga, in lingua norrena (l'antica lingua dei popoli della Scandinavia), significa proprio racconti. Da qualche parte ho letto che l'origine della parola richiamerebbe la figura di una dea misteriosa, della stessa stirpe di Odino e Thor, definita come "colei che vede".

Credo che mai o quasi mai si conoscano gli autori delle saghe. Molte notti, molte veglie, molte versioni passarono prima che qualcuno trovasse il modo di metterle per scritto. Ho letto anche che nell'islandese di oggi la parola "autore" richiama un'altra parola che significa "chi inizia una storia".

In fondo come per quell'altra "saga", che parlava di una guerra sotto le mura di Troia, solo che invece dei ghiacci e i vulcani di Islanda c'erano i lidi del Mediterraneo. I versi di Omero come le saghe dell'Islanda.

Vedere, raccontare, iniziare.

Appena posso me le vado a comprare le saghe, me le porto a casa per regalarmi un sogno del Nord.

sabato 21 luglio 2012

Mi chiamo Tabucchi, come tutti

Non inganniamoci: scriviamo sempre dopo gli altri.


Nel mio caso, a questa operazione di idee e frasi di altri che acquisiscono un altro senso quando vengono ritoccate livemente, bisogna aggiungere un'operazione parallela e quasi identica: l'invasione nei miei testi di citazioni letterarie totalmente inventate, che si mescolano con quelle vere. E perché, mio Dio, lo faccio?

Credo che in fondo, dietro quetso metodo, ci sia un tentativo di modificare leggermente lo stile, forse perché è già da tempo che penso che, nel romanzo, sia tutta una questione di stile...

Sì, è vero. Scriviamo sempre dopo gli altri. E a me non provoca problemi ricordare di frequente questa evidenza. Di più: mi piace farlo, perché dentro di me si annida un dichiarato desiderio di non essere mai unicamente me stesso, ma di essere anche, sfacciatamente, gli altri.

Mi chiamo Tabucchi, come tutti....

(Enrique Vila-Matas, da La Repubblica)

sabato 25 febbraio 2012

Un grande romanzo sul senso della colpa

L'avevo cominciato prendendolo un po' sottogamba, Espiazione di Ian McEwan - come capita con un libro che ti trovi in casa senza sapere bene perchè. E non senza qualche diffidenza, sarà che l'ambientazione in una residenza dell'aristocrazia rurale britannica non è certo nuova.

Ma poi che pagine che sono queste. Anche se non pretendono di essere facili e scorrevoli come un torrentello di parole.

Espiazione è un grande romanzo sulla colpa, anzi, sul senso della colpa. Sui grandi interrogativi della morale fuori da ogni grande visione morale, perché in gioco qui c'è semplicemente il modo di stare al mondo, di relazionarci agli altri.

Semplicemente: si fa per dire. Perché la colpa è anche questo: segno, cicatrice. Ciò che rimane quando gli eventi sono alle spalle.

E forse la cosa che fa più impressione è proprio questo. Quanto rimane nel passare del tempo. La forza delle conseguenze che discendono anche da un singolo gesto, da una debolezza o da uno smarrimento.

La colpa di una ragazzina di 13 anni che scarica la colpa su una persona innocente. E'accusato che per tutta la vita ne sarà segnato. Però anche l'accusatore che non se ne libererà più. Tanto che la narrazione scandisce un percorso di espiazione di un'anziana: un tempo era proprio lei quella ragazzina.

Alla fine chiudi questo libro e mettendolo via già sei alla prese con la malinconia del lettore, che sa fin troppo bene che anche questa volta i fili di questa storia, i suoi personaggi, svaniranno dalla sua memoria.

Però ecco, sono sicuro che l'emozione di questa lettura rimarrà anche quando di questo libro mi rammenterò poco o niente.

Succede, succede proprio con i grandi libri.

lunedì 26 dicembre 2011

Isaac Newton, il ragazzo che raccoglieva conchiglie

Mi sembra di essere stato solo un ragazzo che gioca sulla riva del mare, divertendosi a trovare ogni tanto un ciottolo più levigato o una conchiglia più bella delle altre, mentre il grande oceano della verità si stendeva tutto da scoprire davanti a me

Che bella questa citazione di Isaac Newton, che ho trovato all'inizio di La lettera di Newton di John Banville (Guanda editore).  Parole inattese dall'uomo che ha gettato le più solide fondamenta della scienza moderna, una scienza fatta di rigore, forze meccaniche, corrispondenza di cause ed effetti, numeri. Gravitazione universale, calcolo differenziale, leggi dell'ottica, tanto per dire.

Un ragazzo che gioca in riva al mare e raccoglie ciottoli o conchiglie di verità... Altro che mela che cade (ma è proprio vero?), come se l'universo intero si fosse messo d'accordo per comunicargli una delle più entusiasmanti verità.

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