Avevo visto una povera capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia; ci guardava con occhio spaventato; si rifuggiva in un angolo della sua gabbia, e allorché udiva il canto allegro degli altri uccelletti che cinguettavano sul verde del prato o nell'azzurro del cielo, li seguiva con uno sguardo che avrebbe potuto dirsi pieno di lagrime. Ma non osava ribellarsi....
Non mi fosse cascato l'occhio su una bancherella, tra le occasioni a due euro, sono sicuro che mai e poi mai avrei acquistato Storia di una capinera di Giovanni Verga. E' uno di quei libri che sai che sono usciti, che sono parte significativa del percorso di uno scrittore importante, ma che difficilmente ti viene da leggere. Se li hai scansati a scuola, è finita lì.
Invece l'ho preso, l'ho portato a casa, l'ho perfino letto. E diciamocelo, non è che mi abbia conquistato. Lo confesso, tra l'altro, come lettore che tiene come cosa cara sia i Malavoglia che tante Novelle del nostro. Però non è che sei innamorato di Tolstoi ti piace Tolstoi fino all'ultima pagina.
Ed è così, siamo in un altro mondo di stile e di emozioni. Anche se in questo mondo non è male avventurarsi, di tanto in tanto. Il mondo di un'epoca in cui lacrime si scriveva lagrime, in cui i romanzi epistolari di anime tormentate andavano per la maggiore, in cui il pathos aveva la meglio - anche con Verga - su ogni tentazione di letteratura verista.
Che successo che fu ai tempi Storia di una capinera. Un best seller assoluto, anzi, un long seller, che conquistò soprattutto il pubblico femminile, bagnando per interi lustri fazzoletti e diari. Ancora nel 1906 aveva venduto qualcosa come 20 mila copie, contro le 5 mila dei Malavoglia.
Ed è con la storia di questa povera ragazza costretta dalla famiglia a farsi monaca, e che solo per un lampo di vita conosce l'amore, proprio con questa, che Verga conquista la fama. Come cambiano le carte in tavola. Grandi successi, oblii definitivi.
Non mi fosse cascato l'occhio su una bancherella, tra le occasioni a due euro, sono sicuro che mai e poi mai avrei acquistato Storia di una capinera di Giovanni Verga. E' uno di quei libri che sai che sono usciti, che sono parte significativa del percorso di uno scrittore importante, ma che difficilmente ti viene da leggere. Se li hai scansati a scuola, è finita lì.
Invece l'ho preso, l'ho portato a casa, l'ho perfino letto. E diciamocelo, non è che mi abbia conquistato. Lo confesso, tra l'altro, come lettore che tiene come cosa cara sia i Malavoglia che tante Novelle del nostro. Però non è che sei innamorato di Tolstoi ti piace Tolstoi fino all'ultima pagina.
Ed è così, siamo in un altro mondo di stile e di emozioni. Anche se in questo mondo non è male avventurarsi, di tanto in tanto. Il mondo di un'epoca in cui lacrime si scriveva lagrime, in cui i romanzi epistolari di anime tormentate andavano per la maggiore, in cui il pathos aveva la meglio - anche con Verga - su ogni tentazione di letteratura verista.
Che successo che fu ai tempi Storia di una capinera. Un best seller assoluto, anzi, un long seller, che conquistò soprattutto il pubblico femminile, bagnando per interi lustri fazzoletti e diari. Ancora nel 1906 aveva venduto qualcosa come 20 mila copie, contro le 5 mila dei Malavoglia.
Ed è con la storia di questa povera ragazza costretta dalla famiglia a farsi monaca, e che solo per un lampo di vita conosce l'amore, proprio con questa, che Verga conquista la fama. Come cambiano le carte in tavola. Grandi successi, oblii definitivi.
(da La libertà di Giovanni Verga)
Ecco, forse la verità del nostro Sud, di quella che è stata l'unificazione di Italia, o per dirla in altro modo, l'annessione del Meridione al Regno di Italia, finora si è intesa meglio con le parole della letteratura che con le analisi della storia.
Soprattutto quello che successe subito dopo, quando Giuseppe Garibaldi si era dovuto ritirare in buon ordine, perché lui e i suoi uomini erano diventati un impiccio per il nuovo Regno.
In genere sui libri del liceo la questione si liquida in poche righe: il brigantaggio che mise a dura prova l'esercito regio per qualche anno. Un problema di ordine pubblico, al massimo di criminalità organizzata, un po' come in altri anni la mafia.
E invece fu vera guerra, guerra civile, guerra sociale. Costata un'enorme quantità di morti, chi dice addirittura centomila. Massacri, terrore, le solite vittime di ogni guerra sporca. Trame, cospirazioni, tradimenti. Paesi spazzati via, vite cancellate.
Ci voleva un libro come Il sangue del Sud di Giordano Bruno Guerri, per gettare luce su tutto questo e raccontarlo con coraggio, ma anche con equilibrio, senza idealizzare nessuno e senza alimentare strane nostalgie. Senza nemmeno la tentazione di idealizzare come una sorta di Che Guevara nostrano un brigante tipo Carmine Crocco, che pure diceva cose sacrosante:
Molti, molti si illusero di poterci usare per le rivoluzioni. Le loro rivoluzioni. Ma libertà non è cambiare padrone. Non è parola vana e astratta
Rimane l'orrore per tutto quello che fu fatto, per come fu piegato il brigantaggio: rastrellamenti, fucilazioni di massa, rappresaglie che noi siamo abituati a collocare in altri periodi della nostra storia e ad attribuire in esclusiva a altri eserciti.
Ma questa è anche la storia di come la verità fu cancellata, rimossa, nascosta. Commissioni di inchiesta e depistaggi. Armadi della vergogna, anche per il nostro Sud. All'inizio della storia di Italia. Come un marchio di fabbrica, un difetto di costruzione, un peccato originale.