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lunedì 21 gennaio 2019

Una baita di montagna per ritrovare ciò che si era

Il giovane uomo urbano che ero diventato mi sembrava l'esatto contrario di quel ragazzo selvatico, così nacque in me il desiderio di andare a cercarlo. Non era tanto un bisogno di partire, quanto di tornare; non di scoprire una parte sconosciuta di me quanto di ritrovarne una antica e e profonda, che sentivo di avere perduto.


Succede a volte, succede di sentirsi in un vicolo cieco. Si gira a vuoto,  ci si agita senza andare da nessuna parte. Succede anche allo scrittore che ha già scritto cose importanti, ma che ora contempla il foglio bianco: e magari non è il solito blocco dello scrittore.

La soluzione, allora, può essere di tornare a ciò che si era e, allo stesso tempo, al luogo in cui si era. Soprattutto se quel luogo è la montagna, con la sua perenne lezione di essenzialità. 

Succede, ma non sempre a quanto succede si fa seguire la scelta giusta: si tratta di ritrovare, non di scoprire; di tornare, non di andare.

Paolo Cognetti un giorno abbandona la sua Milano per trasferirsi in una baita a duemila metri, raggiunta solo da una mulattiera. Si lascia dietro di sé comodità e delusioni, si abbandona a un altro tempo, si tuffa in una solitudine che non fa paura. Comincia ad ascoltarsi e il silenzio è un regalo. La matassa comincia a dipanarsi: e dentro le giornate cominciano a entrare fatiche che alleggeriscono il cuore - riuscirà a fare l'orto? - e altre persone, che nelle loro solitudini sanno recuperare il senso di una relazione.

Da tutto questo ecco un libro - Il ragazzo selvatico - che Terre di Mezzo ha rieditato ora, splendidamente illustrato da Alessandro Sanna. Io l'ho letto solo ora, pensare che precede, non solo cronologicamente, le Otto montagne con cui Cognetti ha vinto lo Strega.

Solo ora, ma ho l'intenzione di tenermelo stretto per un pezzo. E chissà che anch'io non  riesca a ritrovare il ragazzo che un giorno sono stato. 

domenica 13 maggio 2018

Che bella, la geografia dell'anima disegnata dalle canzoni

Ecco il libro che non avevo messo in conto. Al massimo, pensavo, lo avrei sfogliato qua e là, come si fa con un atlante, appunto, per inseguire qualche curiosità. Invece ho cominciato e non mi sono fermato. Anzi, ho cominciato a  leggere e poi a fare alcune altre cose.

Per esempio, abbandonare il divano per il computer, accendere Spotify e costruirmi la mia personale playlist per la lettura. Per esempio, andare su un negozio on line - per i libri non lo faccio, ma per i cd sì - e acquistare un bel po' di musica, che non conoscevo o che non mi ricordavo di aver ascoltato una vita fa. Il portafogli ora piange, ma anche il cuore è più leggero.

Le città da cantare di Riccardo Canesi, sottotitolo Atlante semi-ragionato dei luoghi italiani cantati, con prefazione di Mogol, è davvero una bella proposta della casa editrice Tarka, un libro che vi raccomando, sempre che siate consapevoli che le canzonette non sono solo canzonette. Perché così è: sono la colonna sonora della vita, impregnano non solo il nostro tempo ma anche i luoghi di cui cantano. Nel caso, anche a voi potranno succedervi strane cose, tipo scoprirvi a cantare Alberto Fortis nel cuore della notte.

Riccardo Canesi io lo conoscevo come appassionato di geografia - appassionato anche nella difesa delle ragioni della geografia - ignoravo il suo lato di cultore della canzone. Così sono due le passioni che stanno dentro questo libro e pensare che a volte basta che ce ne sia una, perché un libro abbia buone radici.

Ne viene fuori una bella geografia dell'anima, un viaggio verso i tanti altrove della nostra penisola: le città che io ho imparato a conoscere non solo con i miei passi ma anche con i libri e che ora scopro di poter conoscere ancora di più attraverso le canzoni.

Così per Livorno d'ora in avanti non potrò prescindere da Piero Ciampi. Per Milano non potrò mai fare più a meno di Jannacci, il primo Jannacci. E per Genova, cosa potrò fare senza Bruno Lauzi e Fabrizio De Andrè? Nomi che faccio solo per comodità ovviamente. Perché poi viene anche da interrogarsi sulla canzone composta da Franco Fortini o di cercare qualcosa di più di Giuni Russo - che non non è solo quella canzone su Alghero in compagnia di uno straniero - oppure su Roberta Alloisio - chi era questa donna che dalla Liguria ci portava fino a Buenos Aires?

Viene così, domandandosi di anni andati, canzoni che forse era un altro a sentire, luoghi che non so se esistono davvero o se abitano le mappe della mia immaginazione. Per capirlo vorrei andare a qualche incontro con questo libro: per ascoltare non solo parole, ma anche canzoni, al posto dei tanti, troppi discorsi che di solito infarciscono le presentazioni.

Ecco, mi metterei in ascolto e sfoglierei il libro, questa volta sì, saltando dall'indice a una qualche pagina. Sempre più convinto che Marcel Proust aveva ragione persino in questo:

Non disprezzate la musica popolare... a poco a poco essa si è riempita del sogno e della lacrime degli uomini. Per questo vi sia rispettabile. 

lunedì 20 aprile 2015

Morte di un uomo felice, nella Milano di piombo

E' anche questa la parola scritta, una chiave per spalancare la porta di un tempo che non si è mai vissuto e che solo così, appunto, ci può essere restituito. Spalancarla non per restare sulla soglia, accontentandosi di un'occhiata. Ma per entrare dentro e sentirla tutto intorno.
Giorgio Fontana è nato nel 1981 ed è in quell'anno che colloca la storia che racconta in Morte di un uomo felice (Sellerio). Milano, estate che appartiene ancora ai cosiddetti anni di piombo, con la sua scia di sangue. Giorgio Fontana posa il suo sguardo attento, schivo, partecipe su un magistrato sulla linea del fronte. Giacomo Colnaghi, così si chiama, che sta indagando sull'organizzazione terroristica che ha ammazzato un noto esponente politico.

Detta così, gli ingredienti sono quelli del noir italiano, forse del romanzo di azione. E invece siamo completamente fuori dalle regole del genere. Perché è molto altro a catturare la nostra lettura. E in primo luogo proprio la figura complessa di questo magistrato, col suo senso del dovere e con le molte domande, con la sua religiosità che è dubbio, solidarietà, distanza dalle forme. Con la sua intima battaglia tra distacco e partecipazione. 

C'è tanto passato che pesa, nella sua vita, a partire dall'uccisione del padre, uomo della Resistenza le cui idee non sono mai state assimilate in famiglia e che per il figlio è un'assenza che non è mai davvero riuscito a superare. Tanto passato che si proietta nel presente per farsi responsabilità e abbandono, possibilità di condividere la sofferenza e ripiegamento.

Verso una fine che non sarò anch'io a raccontare, ma che appartiene tutta alla nostra storia. 


lunedì 30 marzo 2015

Tra maori e polacchi, il mondo dimenticato a Montecassino


La Storia quasi sempre è storia dei grandi, non di coloro che la fanno e la subiscono davvero: dei generali e non delle truppe. Ma se la Storia, in questo senso, quasi sempre è amnesia e silenzio, la forza della scrittura sa restituire voce a chi non l'ha mai avuta, sa raccontare le storie nella Storia, forse perfino conservare brandelli di vita.

A tutto questo - mica poco - ho pensato immergendomi de Le rondini di Montecassino di Helena Janeczeck (Guanda), romanzo corale che raccoglie e racconta parabole di vita e di morte intorno alla terribile battaglia con cui, per quattro mesi nel 1944, gli Alleati tentarono di sfondare le linee tedesche in Italia. Ma chi erano gli Alleati? Americani chewing gum in bocca e cioccolata da distribuire? Inglesi capaci di andare all'assalto con il gusto di un'ultima battuta?

E no, c'era un mondo, in quella battaglia. Indiani, nepalesi, maghrebini. Un migliaio di ebrei che imbracciarono le armi per rivendicare il diritto a esistere, mentre il loro popolo veniva spinto verso le camere a gas. Un battaglione di maori che mai si sarebbe immaginato di combattere in Europa. Persino un esercito, quello polacco, resuscitato dai suoi stessi carnefici sovietici, quanto ne rimaneva, almeno, dopo le stragi di massa e l'invio nei gulag siberiani.

Non c'è la penna dello storico, in queste pagine, ma la penna della grande narratrice, che annoda e srotola storie, cambiando punti di vista, spostandosi da un tempo all'altro per raccontare le vicende di chi, pur combattendo con i vincitori, non è sfuggito al destino dei vinti. 

E per raccontarli può servire anche l'incontro in un taxi di Milano, o un viaggio in Italia del nipote di un veterano maori, oppure le esperienze di due ragazzi cresciuti a Roma nei nostri anni.... perché è anche così che si fa storia.

mercoledì 6 agosto 2014

Chi riscopre Tarchetti, poeta della Scapigliatura

Meno male che c'è chi non si arrende e, anzi, proprio ora ci prova. Malgrado la crisi, malgrado i conti che non tornano mai, malgrado i tempi bui non solo per le vendite ma anche per la fatica che fa a farsi largo la qualità. Meno male che esistono ancora case editrici senza grandi spalle, ma che vanno avanti con le  loro proposte che niente hanno a che vedere con calcoli miopi che alla lunga fanno solo male. In natura c'è la biodiversità, ma anche nella cultura c'è qualcosa di simile, da tenere come cosa preziosa.

Prendete per esempio DeComporre edizioni, casa editrice di Gaeta, piccola, coraggiosa, intraprendente. Ricca soprattutto di passione, e lo posso dire, visto che ho avuto modo di conoscere le persone che la animano.

Ecco una loro proposta: Disjecta di Iginio Ugo Tarchetti.

Chi era, Iginio Ugo Tarchetti? Nemmeno io lo conoscevo, eppure un posto nella letteratura italiana ce l'ha avuto. Siamo verso la metà dell'Ottocento. Tarchetti è un ragazzo che ha appena voltato le spalle a una promettente carriera nell'amministrazione militare. Si è trasferito a Milano, che non è più la Milano degli Asburgo e delle Cinque Giornate. E' sempre più la Milano della buona borghesia, ma allo stesso tempo è la città dove soffia una brezza di inquietudine, che chissà, forse un giorno si farà tempesta.

All'ombra della Madonnina il nostro entra in contatto con i salotti della Scapigliatura e ne diventa una delle penne più rappresentative. Scrive, scrive molto, prima di morire troppo presto, a nemmeno 30 anni, consumato dalle difficoltà economiche e dalla tisi: epilogo quasi scritto sui muri per un poeta dell'Ottocento, per uno scapigliato che come tale non immaginiamo a mettere su famiglia e a invecchiare.

Disjecta è la sua raccolta poetica, pubblicata postuma nel 1879. Io la trovo bella, intensa, commovente. Può piacere o non piacere. Fatto sta che a riproporla, nella sua versione originale e integrale, è oggi DeComporre. Non uno dei nostri grandi editori. E allora: facciamo tesoro dei nostri piccoli.

mercoledì 25 giugno 2014

Tra Linus e Stephen King, quanto ci manca OdB

Era piccolo, tondo, curioso. Era un gigante. Irrequieto a oltranza, anarchico anche negli abbracci. Era Oreste del Buono. Detto Orestino da Federico Fellini. Detto Odb per brevità. Detto Mahatma per deferenza dai fumettari che ha scoperto, nutrito, accudito per una trentina d'anni sulle scintillanti pagine del suo Linus. Oltre a migliaia di articoli, i romanzi, i racconti, le centonovanta traduzioni, ha firmato cento dimissioni in vita. Tutte revocabili per cambio di umore....

Che meraviglia il ricordo che del grandissimo Oreste del Buono ci ha fatto qualche tempo fa, sulle pagine del Venerdì di Repubblica, Pino Corrias: grande anche lui per il modo con cui sa restituirci personaggi che è bene tenerci cari, con qualche legittima preferenza per la Milano che era la Milano di Enzo Jannacci e Beppe Viola.

Anch'io me ne ero quasi dimenticato. Ma quante cose devo a Odb. Solo per cominciare, i numeri di Linus che ancora oggi custodisco con maniale gelosia - e su cui non mi sono solo divertito, ho imparato cose del mondo più che in mille saggi; i Gialli Mondadori, per i quali si dice OdB abbia letto e proposto mille titoli, con la scoperta, tra l'altro, di Raymond Chandler, Dashiell Hammett e di altri "narratori della scuola dei duri col cuore morbido"; e Stephen King, la cui lettura lo avrebbe folgorato una notte, alla Fiera di Francoforte, da dove il giorno dopo partì una telefonata perentoria all'editore: "Comprate tutto, è un genio"...

Solo per cominciare, con questo uomo che aveva letto di tutto e che in casa conservava qualcosa come 30 mila libri, un alluvione di libri che aveva rotto gli argini delle librerie per occupare ogni spazio, tanto che per attraversare la sala bisognava passare sopra una scala in orizzontale, gettata sopra di essi.

Oreste del Buono amava Corto Maltese di Hugo Pratt e amava più di ogni altro libro Alice nel Paese delle Meraviglie. Aveva più di un punto in comune con Luciano Bianciardi, anarchico senza tempo. Anche lui si definiva anarchico, magari anarchico stalinista. Insofferente a molte cose, ma quasi sempre capace di emozionarsi.

Per il suo Milan, magari. E soprattutto per quel piacere del leggere che oggi, come no, vive un'epoca di stento. Di quanti Odb avremmo bisogno, oggi. 

domenica 6 aprile 2014

Le domanda che Rumiz si faceva sul grande Kapu

Diavolo di un uomo, pensai mentre ci avviavamo al check-in, dove starà la sua forza?

Come avrà fatto, quella specie di curato di campagna, a tornare con i taccuini pieni di storie?

Sul volo da Zurigo a Milano mi accorsi che ringraziava le hostess per ogni nonnulla. "La nostra professione dipende dagli altri", sorrideva quasi per scusarsi della sua gentilezza. "Se non hai rispetto per gli altri, ti si chiudono tutte le porte". 

Era euforico, non mostrava di avere più di diecimila ore di volo alle spalle. Non criticava nessuno, neanche le persone più detestabili. In Polonia girava voce che di fronte alla domanda: "Cosa pensa di Hitler?" avesse risposto con un memorabile: "Non era una brava persona"

(Paolo Rumiz, La leggenda dei monti naviganti, Feltrinelli)

mercoledì 4 settembre 2013

Il commissario malinconico nelle nebbie di Milano

"Vede, il fatto che dia importanza a un vecchio conto mi piace. Non le servirà a nulla, probabilmente, ma mi piace che la storia l'abbia un po' turbato. Lei ha immaginazione. E poi è un sentimentale, come me" rise. "Chi lo direbbe?"
"Io" disse Ambrosio.

Non avevo ancora incontrato il commissario Ambrosio - malgrado la notorietà raggiunta e il volto che, per una serie televisiva, ai tempi gli ha prestato Ugo Tognazzi. Non lo conoscevo  - e a parte interrogarmi su tanta distrazione per un appassionato di gialli come il sottoscritto, mi piace il gusto di questa scoperta tardiva. Mica è sempre necessario inseguire l'ultimissima tra le ultime novità. C'è tanto da scoprire, tra quanto abbiamo tralasciato negli anni.... Scoperte, davvero, che hanno un altro sapore.

E dunque, ho appena finito di chiudere Il caso Kodra, il romanzo con cui Renato Olivieri ha dato vita al commissario Ambrosio. Non ci sarei mai arrivato, senza il trafiletto di un settimanale che, prima del commissario, ricordava proprio Olivieri, giornalista colto e raffinato, innamorato delle cose belle e della sua città, Milano. Quanto bastava, per lasciarsi tentare.

E dunque, ecco questa singolare figura di investigatore, che fa la sua apparizione nel 1978, e non è un duro, un cinico, tanto meno un corrotto. Piuttosto un uomo malinconico, solitario, abituato ad alleviare i dolori della vita con buone letture invece che con eccessi alcolici.

Sono entrato bene nel libro - sarà anche per l'epigrafe dal Macbeth di Shakespeare (La vita non è che un'ombra che cammina; un povero attore che si pavoneggia e si agita per la sua ora sulla scena...), che a suo modo la dice lunga.

E poi il corpo di quella donna disteso per strada - pare un incidente stradale - la nebbia di Milano (Ambrosio non lo immaginerei in nessuna altra città) e il primo passo di un'inchiesta che sgorga dal dubbio, ma prima ancora, forse, dalla nostalgia e poi dalla curiosità... che piacere, avere scoperto Olivieri e il suo commissario.... 

lunedì 17 dicembre 2012

Se mi fa ancora compagnia la vita agra di Bianciardi

Avrebbe compiuto 90 anni proprio in questi giorni e non mi sembra nemmeno vero, sarà che le parole che ho raccolto sulle sue pagine è come se avessero sempre riguardato la mia vita, il mio tempo.

Luciano Bianciardi, per quanto mi riguarda, è più di uno scrittore amato - ovvio, se di tanto in tanto, e non solo per sfizio, ho perfino adoperato lo pseudonimo di Paolo Bianciardi. L'affetto che gli riservo è quello che potrei avere per un vecchio compagno di università con cui tante volte ho tirato tardi, tra birre e chiacchiere. Un compagno che se n'è andato via troppo presto, ma che in qualche modo è rimasto al mio fianco.

 Pensare che Luciano l'ho conosciuto in ritardo e per vie traverse, come in realtà succede per molte delle migliori amicizie. Non su un suo libro, ma grazie a una splendida biografia, Vita agra di un anarchico, di Pino Corrias: la storia di una vita che sa farsi romanzo e di un mondo colto nel passaggio da un'epoca all'altra. Biografia ma anche poesia metropolitana con sottofondo musicale da scegliere a piacimento tra il jazz di Charlie Parker e le canzoni di Enzo Iannacci.

Da qualche tempo è uscita una nuova edizione del libro di Corrias, con queste righe in introduzione:

Il mio viaggio cominciò per caso a Milano, da un nome che condusse a un libro su una bancarella e poi a uno spiraglio. Lo spiraglio rivelò un mondo. Il mondo di Luciano Bianciardi che si era dissolto tra libri introvabili, amici dispersi, racconti mai narrati. E da quel mondo riemerse la sua avventura che ne intrecciava tante altre....

Un titolo, un volto, una corrispondenza dell'anima.... a volte comincia così e dura una vita: è il bello dei libri, di alcuni libri.

 E ancora mi rimane il sapore di quella vita agra, ancora accompagno Luciano Bianciardi, lo scrittore di provincia, anzi della Maremma Far West di Italia, che sbarcò giovane e anarchico nella Milano che stava diventando Milano.

Ancora mi emoziona la sua storia di genio e spreco, di libertà e malinconia, di lucidità e nebbia alcolica, solitudine rumorosa che fa bene tenersi vicino al cuore.

domenica 2 dicembre 2012

Cosa significa fare il liceo al Forte dei Marmi

Dire che vivi qua è una scelta abbastanza impegnativa.

Va tutto liscio se stai a Roma o Milano o Ponte Biscottino, ma se dici che vivi a Forte dei Marmi la gente va fuori di testa e non ti lascia più andare. 

Perché al Forte ci sono stati tutti, almeno una volta. Però d'estate, per le vacanze. Poi uno si rimette i vestiti, torna in città e ricomincia con la vita reale. Restare al Forte dopo agosto invece sembra una follia, come fare un giro sulle montagne russe e non scendere a fine corsa, starsene lassù seduto come un ebete, mentre la musica finisce, le luci si spengono, le famiglie tornano al parcheggio e se ne vanno.

Se poi per disgrazia viene fuori che a Forte dei Marmi ci hai pure fatto il liceo, allora davvero ti guardano come se gli dicessi che ti sei laureato a Gardaland. "Ma dài, esiste un liceo a Forte dei Marmi?". 

E subito prendono un'espressione sognante, tutti impegnati a immaginare una struttura in riva al mare fatta di palme e canne di bambù, con scimmie e pappagalli che girano liberi per le aule mentre si insegnano materie tipo storie dell'abbronzatura, teoria dei gavettoni e cocco bello.

(da Fabio Genovesi, Morte dei Marmi, Contromano di Laterza)

sabato 5 maggio 2012

L'immigrato, il giornalista e una vita che bastava

Sono arrivato da clandestino e ho imparato a confondermi con il paesaggio e il mio paesaggio è la città immersa nel traffico. 

In Manuale di sopravvivenza per immigrati clandestini c'è una storia che c'era bisogno di raccontare, come tante altre del resto, quella di Joan Lovinescu, immigrato rumeno, la sua vita disastrata tra mense della Caritas e baracche di lamiera, un presente che non potrà mai fare davvero i conti col futuro, un presente che è solo una mano tesa per l'elemosina e un'altra giornata da arrangiare.

C'è Piero Colaprico, l'autore, grande giornalista che con il suo lavoro ha già illuminato molte pieghe oscure dei nostri tempi e che ora sa accendere un cono di luce su una delle tante esistenze che, soprattutto in una città come Milano, sono polvere facile da nascondere sotto il tappeto.

E c'è una terza persona, immaginaria, che sta dentro il romanzo, non nella realtà di ogni giorno, questa strana figura di ex poliziotto che ha giocato la sua vita sui tavoli sbagilati e ora sta pagando un conto salatissimo, solo che ancra può tentare di dimenticarselo, impegnato com'è a pedinare Joan Lovinescu.

Di questa terza persona e di tutta la storia costruita intorno, lo dico francamente, si poteva fare a meno. Bastavano la prima e la seconda, bastava questa vita allo sbando, questa Milano degli ultimi e degli accampamenti nelle peggiori periferie, bastava un grande giornalista deciso a raccontare tutto questo.

lunedì 30 aprile 2012

Quanta storia di Italia in questa storia romantica


Il guaio non è tanto che i sogni della gioventù non vengono mai al mondo; piuttosto, è che ci vengono immancabilmente, ma sempre con un attimo di ritardo.

Che gran romanzo che è Una storia romantica di Antonio Scurati (Bompiani editore), immenso affresco storico e partitura di tanti destini individuali che si annodano e si sciolgono. I fatti del Risorgimento e le passioni, gli ideali, le delusioni, i tradimenti.

Uno di quei libri in cui è bello tuffarsi senza riemergere più fino all'ultima parola, lasciando che i protagonisti ci accompagnino come ombre nelle nostre giornate. Chissà se vi catturerà di più il romanzo corale di Milano che insorge, in quella straordinaria pagina della nostra storia che sono le Cinque Giornate. Oppure il romanzo di Jacopo e Aspasia, la storia di due giovani che nell'insurrezione si amano e si perdono, ora sciogliendosi negli eventi, ora rimanendo fedeli solo a se stessi e al loro sentimento.

Quante cose, in questo libro, dove la gloria della Rivoluzione e la generosità della giovinezza sono visti anche con il senno di poi, magari attraverso la parabola di Italo, il rivoluzionario repubblicano diventato monarchico per convenienza, parabola che stringi stringi è anche la storia del nostro paese.

Un libro che finisce per infliggere un crampo di nostalgia; che ci obbliga a qualche dolorosa riflessione su un'epoca che ha fatto piazza pulita dei grandi ideali, lasciandoci forse qualche grammo in più di buon senso, ma anche desolazione e opportunismo; un libro che ci aiuta a riscattarci dalla mediocrità dei sentimenti in svendita.

lunedì 20 febbraio 2012

Gli anni Ottanta, una radio e i Rolling Stones


Erano i tempi in cui assieme a Eugenio Finardi, che chissà perché piaceva tanto, si cantava se una radio è libera ma libera veramente piace anche di più perché libera la mente. E qualcuno non si limitava a canticchiarla allo specchio, o improvvisando tre accordi alla chitarra, qualcuno ci provava davvero, a fare una radio, chi l'avrebbe mai detto.

Oppure no, erano i tempi in cui tanta gente aveva fatto indigestione di cortei e assemblee, e come darle torto, così aveva disoccupato le strade dai sogni, tirato giù qualche poster dalle pareti, abbandonato l'eskimo in fondo all'armadio, e c'era chi aveva acquistato un biglietto per la California, chi aveva fantasticato su un pullmino per l'Afghanistan, chi si era rassegnato alla panchina sotto casa.

Oppure no, erano i tempi in cui tutto sembrava promettente, spumeggiante, inebriante, bastava tagliare i ponti con certe ideologie, bastava stare al passo e magari saperci fare, pensate alla Milano da bere,  magari Firenze era Firenze, però c'era sempre una passerella e un vernissage, un assessore da corteggiare e un conto in banca da curare. È un mondo senza futuro. Finalmente possiamo rilassarci, diceva Cipputi ed era più lungimirante di un maestro di pensiero della rive gauche.

Oppure no, erano i tempi in cui, gratta gratta, sotto quella patina scintillante non c'era niente, però non è che tutto fosse come prima, c'era qualcosa, almeno qualcosa da fare, mica solo  dibattiti e discoteche, briscole alle case del popolo e patatine fritte in birreria, e non si cambierà il mondo, ma al mondo si può stare meglio con la musica giusta, con i locali dove si respira aria nuova, con altre parole e altri suoni in circolo nelle vene di una città.

Anni Settanta, anni Ottanta, anni.... Non importa nemmeno dire di quali anni racconti Daniele Locci in questo suo primo romanzo, che dei migliori debutti presenta tutta l'originalità e la freschezza, con in più la sapienza e la forza narrativa degli autori più navigati.


martedì 6 dicembre 2011

Quando andare in treno non era viaggiare

Non considero viaggiare l'andare in treno, affermava perentoriamente John Ruskin, uno dei più raffinati intellettuali dell'Ottocento inglese, grande viaggiatore.

C'è stato un tempo, insomma, in cui il treno era un prodigio di velocità che sembrava sottrarre qualcosa, o molto, all'esperienza del viaggio. Così come è successo per l'automobile, il cui uso alcuni hanno osteggiato nemmeno si trattasse di vendere l'anima al diavolo, mentre per altri è stato come riscoprire il piacere della lentezza.

Treno sì, treno no. O treno come, forse è più giusto. Alta Velocità per presentarsi per tempo in un ufficio di Milano o Roma, oppure le infinite tappe della Transiberiana?

 Ciò che rimane indiscutibile è quanto ci ricorda Luigi Marfè in in suo saggio - Lo spazio raccontato nell'epoca del turismo - che, al di là del titolo decisamente ostico, è un'appassionante galoppata attraverso tanta letteratura di viaggio:


Resta però indiscutibile il fatto che i mezzi di trasporto trasformano la percezione del lontano

Del lontano e del vicino, aggiungo. Anche se poi la cosa più importante è attraversarli i posti. Non saltarli di slancio, con la forza dei mezzi e senza nemmeno uno straccio di fantasia.

lunedì 28 novembre 2011

La rumorosa solitudine di Luciano Bianciardi

Sono passati 40 anni dalla morte di Luciano Bianciardi, 20 dalla prima edizione della Vita agra di un anarchico, di Pino Corrias: la storia di una vita che sa farsi romanzo e di un mondo colto nel passaggio da un'epoca all'altra. Biografia ma anche poesia metropolitana con sottofondo musicale da scegliere a piacimento tra il jazz di Charlie Parker e le canzoni di Enzo Iannacci.

Il libro di Corrias, per quanto mi riguarda, mi fece conoscere Luciano Bianciardi e mi fece approdare alla Vita agra. Ed è anche curioso che la biografia, chiamiamola così per comodità, di uno scrittore si faccia leggere prima dell'opera di quello stesso scrittore. Però sono contento così.

A distanza di 20 anni quel libro ritorna, in una altra edizione. Leggo, dalla nuova introduzione dell'autore:


Il mio viaggio cominciò per caso a Milano, da un nome che condusse a un libro su una bancarella e poi a uno spiraglio. Lo spiraglio rivelò un mondo. Il mondo di Luciano Bianciardi che si era dissolto tra libri introvabili, amici dispersi, racconti mai narrati. E da quel mondo riemerse la sua avventura che ne intrecciava tante altre....

Un titolo, un volto, una corrispondenza dell'anima.... a volte comincia così e dura una vita: è il bello dei libri, di alcuni libri. E ancora mi rimane il sapore di quella vita agra, ancora accompagno Luciano Bianciardi, lo scrittore di provincia, anzi della Maremma Far West di Italia, che sbarcò giovane e anarchico nella Milano che stava diventando Milano.

Ancora mi emoziona la sua storia di genio e spreco, di libertà e malinconia, di lucidità e nebbia alcolica, solitudine rumorosa che fa bene tenersi vicino al cuore.

domenica 3 luglio 2011

Due buone domande che arrivano da San Francisco

Spulciando le pagine di San Francisco-Milano di Federico Rampini. Tanto per non arrendersi senza condizioni all'indolenza di questa domenica. Per coltivare qualche buona domanda. Per pensare non alla California alle cose sotto casa.

Sapevate che a San Francisco è stato un cinese a capo della polizia a cancellare la mafia cinese? Riflessione di Rampini:


Il giorno in cui a Milano circoleranno pattuglie di polizia con agenti albanesi e marocchini, faranno meglio il loro mestiere

Vi viene mai mente che l'educazione è una carta vincente per una città? Assicura Rampini:

Sarà per le origini protestanti e puritane, ma una caratteristica ben visibile nella società americana è che generalmente i più ricchi ci tengono a essere anche i più educati. Da noi è piuttosto vero il contrario, e questo rende maledettamente difficile organizzare una città civile


Tanto per cominciare.

martedì 15 febbraio 2011

La Spoon River del ferroviere anarchico

E' un bel libro Una storia quasi soltanto mia, un libro genuino, pulito, capace di toni sommessi e di parole che fanno bene. Bello fin dal titolo, capace di indirizzare subito sulla strada giusta e di evitare il possibile equivoco con un lampo di poesia. Perché in queste pagine è raccolta la lunga intervista che qualche anno fa Piero Scaramucci - giornalista esperto e di impegno civile - ha fatto a Licia Pinelli, la vedova del ferroviere che dopo la strage di Piazza Fontana volò da una finestra del commissariato di polizia di Milano.

Non è un libro politico, questo, non è l'ennesima ricostruzione di una storia che ha segnato l'Italia. Al centro di queste pagine c'è proprio Licia, la vedova, la donna che quel giorno del 1969  ha dovuto voltare le spalle a una vita e cominciare a impararne un'altra. Donna schiva, refrattaria a ogni palcoscenico illuminato, ma inflessibile nella richiesta di giustizia. Donna che malgrado tutto ha saputo essere porto sicuro per le sue figlie. Donna che in questa intervista è come se ritrovasse la possibilità della parola e dello sguardo interiore.

Sapete, c'è una cosa che mi ha commosso particolarmente in questa storia, che è anche la storia di una famiglia e di una Milano popolare, quella delle case a ringhiera. E' l'amore tenace di Licia e di suo marito Pino per un libro, l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.

Dice Licia:

Pensa, la prima volta me lo hanno regalato che avevo quindici anni, e man mano che me regalavano una copia io regalavo quella vecchia

Dice Licia di Pino:

Rileggeva qualche poesia e ci faceva i suoi commenti su dei bigliettini, ormai per ogni pagina c'erano bigliettini, segnetti... In definitiva anche se lo leggi tutto non è che lo esaurisci, c'è dentro la storia di un paese e ogni volta può rispondere a una tua domanda: un libro di poesie serve a questo

Licia conserva ancora la copia dell'Antologia di Pino. E c'è tutta una poesia di Spoon River, incisa nella lapide della sua tomba, al cimitero di Carrara.

Non so spiegarlo, ma mi commuove. Come se la poesia fosse più tenace delle follie della storia.

venerdì 19 novembre 2010

La leggenda dell'uomo che inventò il libro perfetto

Perché devo sempre scrivere io su questo blog, quando c'è chi scrive cose bellissime e racconta storie di libri  che arrivano dritte al cuore e non lo mollano? Leggete questa storia, che ci regala (pensate, su Facebook) l'amico Francesco Panaro. Bellissima.

Staccate la spina dell’abat-jour, spegnete tutti gli ordigni, accostate le imposte delle finestre e se avete un lumino ad olio accendetelo, sedetevi davanti a questo moderno leggio: questa è la leggenda dell’uomo che amava i suoi non scritti libri e che inventò per gli altri il libro perfetto. Un uomo nato a Trieste nel 1902 e morto a Milano nel 1965. Questa è la storia annunciata pochi giorni fa,  la storia dell’altra mia vita sbiadita in questa. Prima di iniziare a raccontare la leggenda di Roberto Bobi  Bazlen  –  editor silenzioso che stava in punta di piedi, che guidava la mano, la scrittura della miglior parte del Novecento  –  lasciatemi ritornare solo per un attimo ai giorni nostri, lasciatemi dire cosa è necessario più di tutto oggi, lasciatemi sussurrare che non è indispensabile scrivere libri, romanzi per primi e tutta la compagnia stampante poi. Niente, nulla è più importante in questo tempo. Non sono necessari tutti quegli obelischi, quelle colonne di scienza che si vedono in ordine nelle patinate librerie…

Ero questo a diciotto anni e lo sono ancor oggi, meno radicale di Bobi: non pubblicare prima di sessant’anni, prima di quell’età non si può avere niente di importante da dire. La maggior parte degli scrittori, dei filosofi, dei critici e di eminenti cialtroni smentiscono, rinnegano, contraddicono se stessi anche prima dei sessanta. Non c’è solo il rumore di televisione e giornali in giro, c’è anche troppo rumore di carta stampata: tutti hanno da dire qualcosa – forse perché fare lo scrittore o il giornalista è meglio che lavorare – nella maggior parte dei casi sono ovvietà, inutilità: poesie, romanzi, racconti, parabole, consigli a mano larga per tutti. Naturalmente non bisognerebbe inibire solo il poeta, lo scrittore o il filosofo che bolle dentro se stessi, ma anche quello di tanti altri: agite, fondate una squadra di fedeli servitori della letteratura che irrompe nello studio privato di questi dantealighieri  e  jamesjoyce, sequestrate penna, calamaio e carta vergata. Condannateli a non accendere più le polveri del loro fecondo pensiero! Ecco, questo ho pensato tutta la vita.

Eppure, eppure per buona parte del Novecento un altro ha agito allo stesso modo, anzi nella maniera più radicale che si conosca. Solo un taoista consapevole come lui – e un inconsapevole come me – poteva decidere che non avrebbe mai pubblicato niente in tutta la sua vita. E che non avrebbe mai scritto qualcosa in forma di libro. Vi direte, questo è il tipico caso della volpe e dell’uva, questo signore non ha pubblicato mai nulla perché gli editori non hanno voluto pubblicarlo. No, questo triestino era Roberto Bobi Bazlen, ragazzo, poi uomo, antica, silenziosa, vera leggenda sconosciuta, uno degli editor più importanti che l’Italia e il mondo editoriale abbia mai avuto. Ma pochi lo conoscono. Lui di libri suoi non ne ha mai pubblicati ma ha inventato il libro perfetto. 
Non fatevi prendere sottogamba da questo sconosciuto che pigia lettere su una tastiera di notebook per le pagine di Facebook da un luogo che non c’è, come un corsaro, con un occhiale scuro al posto della benda nera sull’occhio, che scrive storielle senza mercato per i propri amici. Questo sconosciuto signore non racconta romanzetti inventati, credetegli sulla parola: Bobi era il revisore segreto, molto segreto all’epoca, di Eugenio Montale e delle sue Occasioni. Montale di Bobi diceva, in maniera quasi distaccata, tipico del poeta, che era «una leggenda cartacea inattendibile, un maestro inascoltato, un confessore inconfessato». Nel dopoguerra si è battuto per la pubblicazione in Italia del pensiero di Nietzsche proprio quando l’Einaudi e buona parte di tutta l’intellighenzia  italiana lo temeva, censurandolo. Con l’aiuto economico della famiglia Zevi e di Roberto Olivetti costruì la casa editrice Adelphi a propria immagine e somiglianza. Mise in moto la pubblicazione di “Robinson Crusoe” di Defoe, le opere di Georg Büchenr, Niccolò Tommaseo, le novelle di Gottfried Keller, Kafka, Musil. Portò con sé il poco più che ventenne che poi sarebbe diventato per tutti Roberto Calasso.

Non starò qui a snocciolare il lungo rosario degli autori che ha portato in Italia e l’infinito archivio dei libri che aveva letto, Bobi Bazlen nel 1925 scrisse a Montale «…vorrei far scoppiare la bomba Svevo con molto fracasso», e così fu. Da noi tradusse e pubblicò per primo Freud. Bobi consigliava e sconsigliava. Non aveva amato il Gattopardo, ne sentiva l’odore di un colto e ricco  scrittore provinciale che voleva far sognare e cullare la borghesia. Non sopportava Vittorini un’antipatia ricambiata. Il film Ladri di biciclette lo aveva liquidato come «…punto più basso nel quale sia caduta l’Italia (…). Stalin è stato scambiato con De Amicis (…)». Aveva anche detto in proposito che persone che piangono per un film di quel genere non possono che ammalarsi di infleunza… E subito dopo Roma, pazza per quel film, fu invasa da una accidentale epidemia. Non scambiatelo per uno che ha lanciato invettive e sentenze gratuite.

I nomi e i titoli usciti in Italia sono veramente tanti, e Roberto Bobi  Bazlen vive in quegli autori. E se c’è poco o nulla di scritto da lui è stata una scelta forse estrema, l’incompiutezza, per pochi, è il punto di arrivo. Io credo che l'esistenza, anche nel nostro piccolo, debba avere le stesse parole che, si dice, ebbe Ljuba Blumenthal per il suo compagno Bobi, perdono per l'accostamento e l'appropriazione: «la sua vita erano le altre persone, quello che lui poteva capire di loro, o fargli capire (…). Lui non cercava di immaginarsi come fosse una persona, lui lo era. E quando ha scoperto  che era questo il suo posto, non ha potuto più scrivere. Aveva capito dove stava la sua forza, e stava nelle persone».

lunedì 9 agosto 2010

Rileggere Cuore o Lord Jim per non voltare la testa

Dal pugile che a Milano massacra una donna - a caso, la prima che ha incontrato - senza che nessuno dei passanti muova un dito al massacro di Srebenica sotto gli occhi dei soldati olandesi che non fanno niente per proteggere gli inermi.

E noi, nell'uno e nell'altro caso cosa avremmo fatto? Ci chiediamo mai: cosa avremmo fatto se... ? Con quanta indifferenza, o piuttosto, con quanta paura, ci troveremmo a fare i conti?

Mi ha colpito quello che Adriano Sofri ha scritto ieri, sulle pagine di Repubblica. Mi hanno colpito soprattutto le ultime righe - che vi ripropongo qui sotto - in cui tra i tanti consigli che si potrebbero dare offre proprio questo: rimettere in mano ai ragazzi libri come Cuore o Lord Jim.

Solo effetto nostalgia? E se invece pagine come quelle di Edmondo de Amicis o di Joseph Conrad ci aiutassero a seminare di nuovo il senso della responsabilità e persino del coraggio?

A ciascuno di noi, specialmente se ha appena finito di commemorare Srebenica e di dedicare il suo sarcasmo a un ministero olandese, o di commentare l'orrenda storia dell'altroieri a Milano, vien fatto di chiedersi: che cosa avrei fatto se fossi stato un ufficiale olandese, un passante a Milano? E' la domanda che si fa chi legge Primo Levi, soprattutto se è un ragazzo e non è ancora indurito, la domanda per cui Primo Levi e altri che erano tornati da lì non vollero più vivere.
C'è una differenza fra le tante, i cinquant'anni che separano Auschwitz da Srebenica. Le cose infatti continuano a succedere. Si possono ascoltare molti consigli, e andare in palestra, e portare non so quale spray nella borsetta. Però non mi sembrerebbe inutile che i bambini e i ragazzi leggessero qualcosa che somigliasse al libro Cuore o a Lord Jim. O anche alla storia del giovane uomo maschio che si trovò a passare proprio nel punto in cui stavano per lapidare un'adultera.

domenica 15 novembre 2009

Cercando la luce con Edward Hopper


"Quello che vorrei dipingere è la luce del sole sulla parete di una casa"

Parole di Edward Hopper, uno dei maestri della pittura americana del Novecento e, per quanto mi riguarda, il pittore che tra tutti ha la capacità di destarmi emozioni, anzi, di raccontarmi storie. E di questo ne ero già convinto prima, ma ora che sono ritornato dalla mostra che Milano gli sta dedicando (a Palazzo Reale fino al 31 gennaio), credo di aver capito qualcosa di più di Hopper come delle sue storie.

Perché in effetti è strano: di lui ne parlo come uno scrittore, ogni quadro come un racconto di Raymond Carver, tanto per fare un nome quasi scontato. Pensare che è in primo luogo è un pittore della luce, prima ancora di figure umane... eppure, eppure, quante sue opere sono storie accennate, sospese, fissate in un attimo impregnato di incertezza, attesa, possibilità...

Perchè Hopper in effetti non è solo luce, è anche sguardo.

E' il suo sguardo che coglie istanti di vita quotidiana e domestica: occhiate indiscrete e furtive, frammenti rubati attraverso una finestra, magari da un treno in corsa - più precisamente dalla metropolitana sopraelevata di Chicago.

Ed è lo sguardo delle sue donne, mai davvero sensuali, sempre irrisolte, sempre sospese su un futuro che intanto è solo un presagio o un movimento del cuore.

Sono libri, le opere di Hopper. Libri aperti a metà e di cui vorresti girare alla svelta le pagine che mancano alla fine, per saperne di più. Sono viaggi, le opere di Hopper. Viaggi nelle nostre solitudini metropolitane, viaggi anche nella grande America: e che voglia di andare dietro alla vita di questo pittore, di inseguire davvero la sua luce, i suoi orizzonti, le sue storie, a Chicago come a Cape Cod... Chissà che non ci riesca, prima o poi.

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