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martedì 1 settembre 2015

In America, sulla strada del blues

E allora è davvero questa la strada che racconta l'America, la sua storia, la sua sofferenza, i suoi sogni. Questa la strada indissolubilmente legata alla sua musica e capace di rappresentare, nel bene e nel male, l'immaginario degli States. Mica quella che va verso il selvaggio Ovest, quella di Jack Kerouac e del pollice alzato a chiedere un passaggio da parte dei tanti epigoni della beat generation. Ma questa, che l'America la taglia da nord a sud, o per meglio dire da sud a nord. Da New Orleans a Chicago. Dal delta del Mississippi al cuore dell'industria dell'Illinois. La strada del blues.

E' questa strada che Giuliano Malatesta racconta in un bel libro, Blues Highway (Arcana edizioni). Un viaggio che non è solo un itinerario in un secolo di musica americana, dalla Chicago di Muddy Waters al quartiere francese di New Orleans, passando per Memphis di Elvis Presley.

No, non può essere solo questo, lungo i chilometri della mitica 61, la strada dove, secondo Bob Dylan, Abramo sacrificò Isacco.  Non sarebbe possibile, sulla highway intimamente legata alle piantagioni di cotone, alle lotte per i diritti, alla grande migrazione verso il nord industriale.

Il blues? Malinconia e speranza di riscatto. La colonna sonora che accompagna una storia che non è più solo di un popolo, che si incide nel cuore di chi vuole ascoltare. Il blues che ci portiamo dietro, con la voce della grande Bessie Smith:

Mi sono svegliata stamattina, e il blues girava intorno al mio letto
Sono andata a fare colazione; il blues mi era entrato dentro il pane

sabato 24 novembre 2012

Se i ragazzi non si fidano più della nostra cultura

Il mondo cambia di continuo, a volte lentamente, per passaggi quasi impercettibili, a volte in modo brusco, in una sola stagione, in un minuto. 

I ragazzi leggo altri libri, ascoltano altra musica, amano e odiano in un altro modo, ragionano seguendo strade invisibili, e noi adulti non dobbiamo solo rimproverarli perché non conoscono Cechov o Debussy, Pasolini O Bob Dylan.

Dobbiamo invece assolutamente capire dove stanno andando, perché ci salutano senza nemmeno voltarsi, perché non si fidano più della nostra cultura.

Oggi loro sentono che la vita è altrove e la memoria non basta a reggere l'urto con le onde fragorose del mondo che sarà, che è già qui: serve energia, e quella non la trovi più nei cataloghi e nei musei.

(Marco Lodoli, La fine dell'Umanesimo, da Repubblica)

venerdì 22 giugno 2012

Johnny Cash, è con noi l'uomo in nero

Il grande solitario e la sua chitarra. Il fuorilegge onesto. Il vagabondo a cui si inchinò anche Bob Dylan.

Cos'altro dire del grande Johnny Cash, l'uomo che ha cantato l'America, l'America intera, dalle piantagioni di cotone alle pianure solcate dai treni, dai bar fumosi ai penitenziari?

Anche in Italia è arrivata la sua autobiografia, pubblicata da Dalai editore Non l'ho ancora letta, ma ne sono sicuro, non sono pagine buone solo per i patiti del rock 'n roll stelle e strisce. C'è una grande storia lì dentro, una storia cominciata nell'Arkansas degli anni Trenta, la grande depressione e i campi calpestati a piedi scalzi, roba esattamente come in Furore di Steinbeck.

Le prime canzoni scritte da militare, il succcesso perfino troppo facile e poi una singola smania di insuccesso.

I vagabondaggi da un capo all'altro del continente, notti insonni nel deserto, qualche accordo per farsi compagnia, l'acqua di cactus per sopravvivere. I concerti in carceri come Folsom e San Quintino. Le tossicodipendenze, al plurale.

Il figlio di braccianti che diventa il man in black, l'uomo in nero che di sè dice:

Mi vesto in nero per i poveri e gli sconfitti, che vivono senza speranza, affamati ai margini della città.

E lui che vive ai margini del sogno americano. Ai margini e fuori dal tempo, dove tutto corre veloce, dove tutto è business.

Passano gli anni, sembra quasi dimenticata quella sua canzone insieme a Bob Dylan, contenuta in Nashville skyline, anno di grazia 1969.

Tutto cambia, tutto scivola via, come uno di quei treni nella notte americana. La sua musica appartiene davvero a un altro mondo? Chissà.

Johnny Cash nel frattempo è un mito, un mito involontario, forse anche un po' inconsapevole. Perfino chi si assorda con la musica rap gli si inchina.

Johnny Cash è tornato dal deserto. E la sua è come la voce del profeta. Dell'uomo che ha attraversato il deserto per indicarci qualcosa che è davanti a noi, solo che non ce ne siamo accorti.  

giovedì 5 aprile 2012

Cara Fernanda, grazie per la tua America


Ci sono molte cose per cui dovremmo essere tutti grati a Fernanda Pivano: per il suo sorriso e per la dolcezza con cui ci ha preso per mano e ci ha presentato alcuni dei grandissimi del Novecento, senza presunzione, senza affettazione, come avrebbe fatto una sorella maggiore; per i libri e gli autori che ci ha permesso di conoscere; per un'idea di cultura non confinata nel chiuso delle biblioteche e delle accademie, ma capace di nutrirsi di orizzonti, distanze, alternative...

Io la ringrazio per la sua America, per l'America che mi ha donato, che ha rovesciato sulle mie inquietudini, sulle mie idiosincrasie, perfino sui miei pregiudizi.

L'America che era l'altra America, un'America non scontata, un'America che era lontana e allo stesso tempo poteva cominciare oltre il cortile di casa. La via Emilia come il West. La Maremma come la California. Firenze come Boston, più o meno.

Perchè c'era l'America che non potevo proprio digerire, paese incomprensibile e odioso, industria di errori e orrori, dal Vietnam agli indiani massacrati, dalle sentenze capitali alle stragi di matti armati fino ai denti... Poteva essere facile odiare l'America. L'avrei odiata, non fosse stata per Hemingway e Jack Kerouac, per Fitzgerald e Allen Ginsberg, per Bob Dylan e parecchi altri...

Pagine, emozioni, riflessioni per cui devo essere grato alla cara vecchia Nanda. Con lei l'America mi è diventata un pollice puntato lungo una strada, un'improvvisazione jazz, un campus universitario. Guazzabuglio e possibilità. Sogno.

Da qualche tempo Fernanda Pivano se n'è andata, però non dimentico che donandomi tutto questo, donandomelo proprio in anni difficili, mi ha aiutato a essere un po' migliore di quello che ero e forse sarò.

sabato 17 settembre 2011

Edmondo e il suo tiro mancino

Un libro sullo sport, dunque? Non preoccuparti, "pavido" editore. Questo è un libro sui pretesti

Mi sa che ha ragione Gabriele Romagnoli, in una  recensione che non è una recensione, che piuttosto è anch'essa un pretesto, uno splendido pretesto, soprattutto per parlare di un grande della nostra cultura che troppo presto ci è venuto meno, Edmondo Berselli.

Il più mancino dei tiri è un libro di pretesti, di allusioni (e illusioni?) ambulanti, di nostalgia canaglia. E' un frullato di citazioni e rivelazioni, di collegamenti scoperti e rivendicati, di evasioni e dissacrazioni.

Un libro dove le punizioni di Mariolino Corso (le foglie morte dell'Inter degli anni mitici) evocano i fatali amori di Juliette Gréco, dove gli autogol annunciati di Comunardo Niccolai scatenano una riflessione sulle possibilità dell'autoprofezia, dove le preoccupazioni di un portiere come Enrico Albertosi - non si sa dove andiamo a parare, non male per un portiere - diventano occasione di riflessioni sulle pagine errabonde di Sterne o Musil.

E poi ci sono Bob Dylan e Karl Kraus, la Divina Commedia e i presocratici, Giulio Andreotti e Walter Matthau.... e a proposito, era quest'ultimo che, nella parte di giudice della Corte Suprema in Una notte con vostro onore sentenziava:

Diffidate di chi ha la scrivania sgombra. Di sicuro è uno che nasconde tutto nei cassetti. E se non ha niente neanche nei cassetti, a che diavolo gli serve una scrivania?

La scrivania, mi sa, Edmondo Berselli ce l'aveva. Però per  questo libro non si fa sforzo a pensare una scrivania senza carte sopra di essa, oppure nei cassetti. Almeno è questo che che Berselli rivendica: conta solo la divagazione, secondo i venti e le correnti del grande oceano di carta; conta solo ciò che si ricorda.

Perché poi la pagina più fantastica è quella di Fernand Braudel, il grande storico francese, che prigioniero durante la seconda guerra mondiale riesce a scrivere niente meno che lo straordinario Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II. Nella baracca di un campo, senza poter consultare niente.

E a modo suo anche Berselli, sospinto dagli elisei della memoria e del piacere affabulatorio: ci sia Gianni Rivera o Marcel Proust. Solo ciò che si ricorda conta nella vita.

sabato 24 luglio 2010

L'America come sa raccontarla Bob Dylan

Con la mente in grande fervore, avevo perfino covato il desiderio di andare a West Point. Mi ero sempre immaginato che sarei morto in qualche eroica battaglia

Come cambiano le cose della vita, come rimbalzano sogni e ambizioni sul panno verde dove si gioca il nostro futuro. In ogni caso colpo fortunato, questa volta. Il mondo ha perso un ufficiale dell'esercito americano, ma Bob Dylan è diventato Bob Dylan, a vantaggio di tutti noi.

Conoscevo il musicista, conoscevo il poeta (perchè per me Bob Dylan poeta è sempre stato, piaccia o non piaccia la sua musica, degno candidato al Nobel per la letteratura), con Chronicles ho scoperto un altro lato ancora, quello di uno scrittore capace di scrivere un'autobiografia che non è un'autobiografia, di raccontarsi senza mettersi su un piedistallo, perfino di mostrarci un'intera epoca senza nemmeno provare a rispettare le sequenze degli anni.

Perché questo è Chronicles, un libro buono anche per chi non sopporta le canzoni di Bob Dylan, un libro che si fa leggere per molte ragioni.

Io ci ho ritrovato la storia di un ragazzo che sa cogliere il tempo che cambia e raccontarlo come pochi altri hanno saputo fare. Altro che latte e miele, altro che canzoncini su cuori infranti, motivetti orecchiabili e ballabili, anestetico per ogni coscienza.

Immorali distillatori di liquori clandestini, madri che affogavano i loro figli, Cadillac che avevano benzina solo per cinque miglia, alluvioni, incendi nelle sedi dei sindacati, buio pesto e cadaveri sul fondo dei fiumi non erano roba per i radiofili. Non c'era niente di allegro nelle canzoni folk che cantavo io. Non cercavano di piacere a nessuno e non trasudavano dolcezza. Non si facevano gentilmente portare a riva dalle onde

Quanta grande letteratura americana mi ricorda tutto questo... L'America di Woody Guthrie e delle dure battaglie sindacali, delle praterie e delle metropoli che crescono, dei padroni e dei vagabondi. L'America del Greenwich Village a cui approda un Dylan giovanissimo, ricco solo della sua chitarra. L'America di Jack Kerouac, di Allen Ginsberg, degli altri poeti irrequieti e stralunati della Beat generation.

E c'è Bob Dylan che in tutto questo è assai diverso dall'icona che ci è stata trasmessa, che non è il provocatore, non è il contestatore di professione, non è l'artista che vive ai margini nè sopra le righe, non è né il menestrello nè la rock star. Semplicemente lui, un uomo che mette su famiglia e che parla volentieri di sua moglie.

Quante cose, in questo libro.

sabato 8 maggio 2010

Con Andrea De Carlo la magia della parola


A cena Andrea De Carlo aveva scosso la testa e noi con lui: chi verrà mai a questo incontro in Casentino, lontano da ogni grande città, in una sera come questa, poi, maggio che pare novembre, con la nebbia sul passo che si taglia sul coltello.

Più tardi siamo arrivati alla Mausolea, la villa scelta dalla Fondazione Baracchi per il secondo incontro de Le Parole e il Silenzio, questa volta dedicato alle strade della creatività. E sorpresa, la sala era gremita, piena di persone che avevano deciso di uscire sotto la pioggia e fare chilometri per parlare di scrittura e di lettura.

Andrea De Carlo non si è risparmiato. Ha parlato dell'urgenza della scrittura che lo ha accompagnato fin da bambino, quando sognava sulle avventure di Emilio Salgari (dopo ci siamo reciprocamente riconosciuti come salgariani convinti, certe cose sono come il Dna) e ascoltava la musica del grande Bob Dylan. Ha raccontato dei personaggi dei suoi romanzi che lo accompagnano anche dopo che ha spento il computer e ha concluso il libro, grumi di realtà, compagni di vita. Ha spiegato che le parole sono importanti, sono ponti per condividere non passerelle per esibirsi, per questo
vale usare quelle che impegnano maggiormente la lingua e risuonano più a lungo nelle orecchie.

Ma poi i veri protagonisti sono stati loro. I ragazzi delle scuole superiori, che hanno dedicato un venerdì sera (con il compito di latino che li aspetta questa mattina...) a parlare con uno scrittore, dopo aver letto insieme Due di Due, un libro che a distanza di 20 anni parla ancora ai loro cuori (come prima ha parlato alla mia generazione. E poi le persone del Club del libro del Casentino che dall'anno scorso si ritrovano ogni mese perché è vero, in questa valle non c'è nemmeno una libreria, però i libri vanno accompagnati, vanno condivisi, i libri non solo solitudine, ma possibilità di relazione.

E io sono tornato a casa con quelle due citazioni conclusive che mi giravano per la testa.

Oscar Wilde: L’arte, tutta, è completamente inutile. Aveva torto marcio, è ovvio, il grande Oscar

E George Bernard Shaw: Si usa uno specchio di vetro per guardare il viso; e si usano le opere d'arte per guardare la propria anima.

Vero, verissimo. Andrea De Carlo con questa serata ci ha aiutato a esserne convinti.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...