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martedì 7 aprile 2020

Le lacrime che fanno davvero grandi gli eroi

Sul promontorio piangeva, seduto, là dove sempre 
con lacrime, gemiti e pene straziandosi il cuore,
al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime.

Ecco, è così che entra in scena. Non mentre abbandona Troia vinta e saccheggiata, non mentre sfida il canto delle Sirene oppure trova il modo di sfuggire a Polifemo. Dopo aver narrato le vicende di Itaca e altri luoghi, Omero gli si avvicina e lo coglie così: un uomo che guarda il mare e piange, sospirando il ritorno per cui è disposto a rinunciare all'immortalità.

E' con questa immagine che si apre Le lacrime degli eroi di Matteo Nucci (Einaudi), libro affascinante, per certi versi spiazzante, a cui sono tornato più volte. Mi sembra una lettura particolarmente adatta in tempi come questi, in cui l'inquietudine morde ma spesso non ci lascia sfogo. 

Comincia con Ulisse, questo libro, ma abbraccia tutto l'antico mondo degli eroi. Di loro conosciamo le imprese, li abbiamo seguiti nei loro combattimenti e nelle loro vendette, non riusciamo a immaginarceli senza le loro armi: sono tali per il coraggio, la fermezza, lo sprezzo del pericolo. Eppure - e di questo riusciamo a essere meno consapevoli - piangono, piangono molto.

Sono inzuppati di lacrime, i versi che gli sono stati dedicati. Lacrime di dolore e rabbia, di amore e nostalgia, ma in ogni caso lacrime.

Persino di Achille, dell'eroe dalla cui ira funesta discende un intero poema, ricordiamo più volentieri le lacrime sul corpo di Patroclo, oppure le lacrime al cospetto di Priamo, il re nemico che ormai è solo un anziano che piange i figli persi.

Lacrime e a volte - incredibile - persino il desiderio del pianto: desiderio nobile, debolezza che non sminuisce ma rende ancora più grandi. Desiderio che Matteo Nucci trasforma in un viaggio attraverso le storie e i sentimenti. Parlando al nostro tempo, alla nostra mortalità, a ciò che siamo e possiamo essere.

mercoledì 20 novembre 2019

I tanti " si dice" della morte di Penelope

Mi chiedo, a volte: dopo vent'anni, lo ama ancora? E' possibile? O si sacrifica per proteggere il figlio, per impedire che gli sottraggano il potere, il dominio dell'isola, l'eredità del padre?

Ecco quello che non si è mai studiato sui banchi di scuola e che nemmeno ci siamo mai domandati, tanto era intensa e convincente la poesia di Omero, col suo happy end millenni prima di Hollywood, Ulisse che torna e si sbarazza dei pretendenti prima del riconoscimento finale tra marito e moglie, prima dell'abbraccio, delle lacrime, della notte di amore turbata solo dal rimpianto per il tanto tempo sciupato.

Però mi sa che nei panni di Penelope non ci si sia mai messi. Pensare che già in quel passaggio del riconoscimento c'è qualcosa che non torna, su cui peraltro si sono magnificamente cimentate la fantasia e la penna di un grande scrittore italiano (Luigi Malerba in Itaca per sempre). Cosa è davvero successo? Siamo davvero convinti che accanto al finale che diamo per scontato non ce ne siano altri possibili o verosimili?

La morte di Penelope di Maria Grazia Ciani (Marisilio) è un piccolo, denso, affascinante libro che entra nei silenzi di Penelope per raccontare un'altra storia. Adopera un punto di vista diverso: quello di Penelope appunto. Riscrive il finale dell'Odissea ma senza inventarsi tutto di sana pianta, semmai inoltrandosi nelle zone scure di una storia che abbonda di "si dice", versioni alternative che già nell'antichità sono state fatte proprie da commentatori e mitografi. 

Si dice, per esempio, che Penelope, la moglie fedele per antonomasia, fosse stata sedotta da uno dei Proci. Si dice che proprio per questo Ulisse la ripudiò o addirittura la uccise. Penelope, tra l'altro, cuigina di Elena di Troia, andata in sposa a Ulisse che però era stato uno dei primi pretendenti di Elena, per l'appunto...

Contro l'impenetrabile sposa di Ulisse - spiega nella postfazione l'autrice - i Greci hanno giocato a modo loro, fantasiosi, cinici, bugiardi e detrattori quali erano per indole

E per sapere cosa sia successo, o forse cosa avrebbe potuto succedere, il consiglio è di arrivare alle ultime pagine di questo piccolo grande libro.

 

lunedì 11 novembre 2019

Ulisse e il ritorno che necessariamente ci cambia

Sto seduto sulla costa sassosa di questa terra che dovrebbe essere Itaca, ma che ora non riconosco. 

Ecco, è appena arrivato. Per la precisione si è appena risvegliato dopo che i Feaci lo hanno lasciato a terra. Cosa strana, tra l'altro, che si sia addormentato, però così è, per tutto il poema l'eroe si dimostra facile alle lacrime e ai sonni. 

Quello che conta è che appena arrivato, dopo vent'anni che è partito. Vent'anni in cui non ha fatto che sospirare il ritorno, eppure eccolo: si guarda intorno e non riconosce la sua isola. 

Comincia così Itaca per sempre di Luigi Malerba (Oscar Mondadori), gran libro di un autore che dovrebbe essere più cercato e consigliato. Uscito quasi un quarto di secolo fa, rimane uno dei più belli tra gli innumerevoli ispirati al ritorno di Ulisse. E alle tante domande che queste vicende continuano a destare.

Ulisse non riconosce, Ulisse non è riconosciuto: si traveste da mendicante però non pare solo l'ennesima trovata dell'uomo astuto per antonomasia. Possibile che a non riconoscerlo sia anche l'amata moglie Penelope? 

Malerba in realtà ce la racconta in un altro modo, che a me intriga ancora di più. Lei Ulisse lo ha riconosciuto subito, però tace. E' ferita dal silenzio del marito, dal fatto che persino a lei non abbia voluto svelarsi. Il suo silenzio ora è punizione che colpisce gli affetti dell'uomo che briga per liberare il suo regno dalle pretese dei Proci, ma forse ha sbagliato qualcosa nelle valutazioni di ciò che conta davvero nella vita.

Come proseguirà il libro, non voglio raccontarvelo. Però ve lo raccomando, come potente metafora del ritorno, forse di ogni ritorno, necessariamente costretto a fare i conti col cambiamento di chi è partito come di chi è restato. Così come della fatica, del dolore, dell'umiltà, che esige non l'impresa di tornare a ciò che si era prima, cosa impossibile, ma di restituirsi a una possibilità di futuro.    



 






sabato 21 settembre 2019

Un libro per Itaca, le molte isole dentro un'isola

Itaca? E' davvero una sola isola? O piuttosto ce ne sono tante, sospese tra i libri e i dati di fatto, tra i sogni e le possibilità di un vero viaggio? E tra tutte qual è l'Itaca che inseguiamo, quella che ci meritiamo sul serio, grazie alle pagine che abbiamo divorato, ai muscoli che abbiamo affaticato per salite impervie, agli incontri e ai tramonti a cui ci siamo affidati?

Beh, ho finito questo libro e le domande hanno preso a volare, come farfalle che per quanto si faccia non si lasciano catturare dal retino. E meno male, perché domande così sembrano fatte apposta per volare leggeri, verso un'isola di cui tutti hanno sentito parlare, ma pochi conoscono davvero.

 Luca Baldoni, invece, è evidente che Itaca la conosce bene, tanto quanto si può dire di conoscere un luogo. Anni fa ci è arrivato una prima volta, contro ogni pronostico non per inseguire l'ombra di Ulisse ma solo per fame di tranquillità e di bellezza. Se n'è innamorato e ci è tornato più volte. Poi ci sono stati i libri, i cammini, gli studi, le fantasie, i tanti tasselli di un puzzle piacevolmente complicato. E infine tutto questo è diventato un libro - Itaca. L'isola dalla schiena di drago (edizioni Exorma) - che è bello per molti motivi, come Itaca stessa è bella per molti motivi. 

Dentro c'è il mare, c'è la luce, c'è l'incanto dell'incontro. Dentro ci sono le storie, incredibile quante ne ce sono: Itaca è una piccola isola che reclama l'immaginario di un continente. 

Mica solo l'Odissea - anche se è una gran cosa rituffarsi nella questione omerica non con gli studi degli specialisti, ma con i passi dell'uomo che cammina e sente i luoghi. Ci sono i pirati e gli hippie, i veneziani e gli ottomani, i mercanti del Mar Nero e gli esuli di vari disastri della storia, ci sono persino poeti come Byron e Foscolo. E sì, c'è anche una città che non c'è più, o che forse non è mai esistita se non nell'immaginazione, una città dal nome splendidamente pretenzioso, Jerusalem. 

Quanto basta per accendere la fantasia. Per azzardare un ragionamento sui biglietti aerei per viaggi prossimi venturi, in questo ultimo margine di estate che già è autunno. Oppure no, quanto basta per allungare ancora di più le gambe sul divano, tanto con Luca Baldoni siamo già a Itaca, ci siamo arrivati senza averlo messo in conto. 

lunedì 31 luglio 2017

Il libro che è troppo di tutto e che funziona

Sì, tutto in questo libro è troppo. Troppe pagine, troppi personaggi, troppi dialoghi, troppe storie che si intrecciano, troppi sbalzi di umore. Forse anche troppa voglia di stupire e catturare il lettore. Troppa smania di proporre grande letteratura, che poi è una cosa naturale se sei un grandissimo scrittore, che per di più ritorna alla narrativa dopo dieci anni.

Troppo e in questo troppo ci si può perdere e allo stesso perdere il controllo delle proprie emozioni. Qualche tempo fa, a un gruppo di lettura a cui partecipo, questo libro mi ha dimostrato di poter attrarre su di sé grande amore e grande odio. Io stesso l'avevo abbandonato dopo le prime duecento pagine, solo che dopo aver sentito le opinioni del gruppo di lettura ci ho ripensato, l'ho ripreso in mano, ho cambiato marcia. Prima avevo faticato su ogni pagina, la seconda volta ho bruciato le pagine come per un giallo. Succede, a me succede addirittura spesso: a volte proprio per i libri più importanti, come l'Ulisse di Joyce.

E sono contento di averlo letto fino in fondo. Sono contento ora di provare a proporvelo. Non dico niente, né della trama, né dei protagonisti. Diciamo che è la storia di una famiglia molto particolare, che si dipana tra Washington e Israele in quattro settimane che forse è poco definire convulse.

Anche se la lettura non vi catturerà catturerete frasi memorabili, da sottolineare e segnare nel vostro taccuino. A piene mani. Anche se talvolta vi annoierete vi sorprenderete spesso a ridere come matti.

Lui è Jonathan Safran Foer. Il libro è Eccomi (Guanda). Può funzionare, in questi giorni di agosto. 

venerdì 7 aprile 2017

Mille giorni al Giglio, il lungo viaggio nella piccola isola

Infine, ci sono quelli che finiscono sull'isola dopo un naufragio. La letteratura ne è piena. E anche le cronache di questi ultimi tempi. Io sono tra questi, con una variante. Il naufragio non era il mio.

Così va la vita. Sei persona di terraferma, che magari di abitare un'isola lo hai solo sognato, senza peraltro sapere bene cosa significhi, perché l'isola è il mare d'estate, la vacanza, una settimana o forse due e poi via. Invece così va la vita, appunto, la Costa Concordia naufraga e su quell'isola, per motivi professionali, ti succede di passare una bella fetta della tua vita, qualcosa come tre anni.

Questo quanto è capitato a Michele Taddei, giornalista toscano, questo quanto ci racconta in  Cuore di Giglio (De Ferrari editore). Che non è un reportage, non è un diario o una testimonianza professionale, non è la cronaca dell'evento che ha catapultato il Giglio nella storia, separando di netto il prima e il dopo.Come i libri scritti davvero bene sfugge a tutte le facili definizioni: è molte cose e semmai, essendo molte cose, mi piace considerarlo un bel libro di viaggio.

 Ma come, ci sarà chi obietta, se dentro ci sono tre anni su una piccola isola?

Obiezione respinta. Ci sono grandissimi libri di viaggio che si misurano con una condizione di immobilità o comunque con uno spazio molto limitato. Prendete Prateria, di Least Heat Moon, magnifica cascata di parole per raccontare una sperduta contea in mezzo al nulla del Kansas. Solo per fare un esempio.

E dunque, quante cose ci sono dentro questo libro, quasi la storia della Concordia avesse smosso tutto, scatenando una tempesta di altre storie. Storie di mare e di terra, storie che stringono il cuore e altre che regalano una sorprendente dolcezza. Fari e vigne, chiacchiere e brindisi. Racconti che passano di bocca in bocca, davanti a un tramonto d'estate oppure al riparo in una notte di tramontana. Il passato che affiora ovunque, basta uscire per una passeggiata, basta tendere le orecchie tra una mano di carte e l'altra: e ora è l'ultimo allevatore di capre dell'isola, ora un archeologo originario delle Falkland come una sorta di Monument Man, ora sono i gigliesi di un tempo portati via dai turchi. Buone letture nelle ore più lunghe in inverno, perché ora c'è tempo per leggersi perfino Moby Dick, un altro capitano e un altro disastro del mare. Pirati e naufragi, magari in acque lontane - l'Andrea Doria, la Principessa Mafalda.

E' così con i libri di viaggio che sono davvero libri di viaggio. Non raccontano solo un viaggio, fanno viaggiare il lettore, lo portano lontano sul tappeto volante delle parole. E non c'è solo un altrove, ci sono tanti altrove, quante sono le citazioni, le suggestioni, i rimandi, gli intrecci delle storie.

Puoi accompagnare Michele fino all'estremo lembo dell'isola, respirare forte, guardarti intorno, distrarti per un attimo. E magari sei già in Patagonia, con Coloane, o forse nell'isola dei Feaci, con Ulisse. Poi ti scuoti e ti ritrovi: nella meravigliosa isola del Giglio, dentro la storia. 








mercoledì 24 agosto 2016

Cosa c'è prima dei barconi del Mediterraneo

Ho impiegato molto tempo per capirlo. Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a partire e tanti altri ad andare incontro alla morte. Sedersi per terra intorno a un fuoco e ascoltare le storie di chi ha voglia di raccontarle, come hanno fatto altri viaggiatori fin dalla notte dei tempi.

Dovessi scegliere le righe in grado di riassumere il senso e lo spirito de La frontiera di Alessandro Leogrande (Feltrinelli), non avrei dubbio, sono senz'altro queste. Giungono verso la fine di questo libro denso e intenso, che non è un romanzo, ma che si legge come un romanzo, che indaga sulle tragedie dei nostri giorni e sa allo stesso tempo acquistare un respiro più ampio, che racconta vicende di un'infinità di persone e che pure porta dentro la narrazione anche l'esperienza, il vissuto di chi scrive.

Ha scritto davvero un bel libro, Alessandro Leogrande, giovane scrittore e vicedirettore del mensile Lo Straniero. Senza retorica, con sguardo pulito, entra dentro l'immane tragedia dei nostri giorni, l'esodo di milioni di persone dai paesi della disperazione. Si interroga sulla nostra frontiera, quella linea immaginaria attraverso il Mediterraneo che unisce e più spesso separa, che è di tutti e di nessuno, che è possibilità di salvezza e tomba per tanti. Ma soprattutto intende andare oltre ciò che c'è alla fine del viaggio: un elenco di morti - di cui per la verità spesso ignoreremo anche i nomi - oppure una lista di richiedenti asilo scampati alla traversata ma non alle incognite del futuro.

E' importare scomporre questo esodo collettivo nei nomi, nei volti, nelle storie. E soprattutto è importante raccontare le storie di questi uomini, donne, bambini. Storie che iniziano prima, molto prima.

Libro importante, La Frontiera, proprio perché ci racconta questo prima. Sia esso l'Eritrea di una speranza rivoluzionaria degradata a orrenda dittatura, oppure la Libia implosa in terribili guerre tribali.

Storie, storie che sarebbe bello ascoltare dalla labbra stesse di chi ce l'ha fatta, perché è proprio con il racconto - dai tempi di Ulisse naufrago nell'isola dei Feaci - che lo straniero si fa davvero ospite. Ma in ogni caso racconto importante, racconto prezioso, in quest'epoca di confini che cambiano, di mura che si consolidano, di distrazione che cresce per il grido di dolore del mondo.


giovedì 30 gennaio 2014

Il Porto delle storie e il viaggio di Ulisse

C'è chi sostiene che il lungo viaggio di Ulisse verso casa e prima ancora la guerra di Troia non c'entrino con i nostri mari caldi, con i profumi della macchia mediterranea, con i pomeriggi riarsi dal sole e i campi a olivo e vite. Piuttosto con le acque gelide del Baltico, con le terre abitate dagli antenati dei vichinghi, su a nord. Come succede alle storie che si raccontano intorno a un fuoco, quelle vicende si sarebbero incamminate verso il sud, per poi trovare un poeta, o più poeti, in grado di donare loro la bellezza del verso. E non mi importa che sia un'ipotesi fondata piuttosto che l'ennesima idea strampalata. Mi piace questa idea delle storie che si muovono assieme agli uomini, passando di bocca in bocca. 

L'ho presa alla larga, molto alla larga, ma era esattamente a questa storia di storie in viaggio che pensavo l'altra sera, mentre insieme ad Angela Terzani ed Alen Loreti partecipavo all'inaugurazione del Porto delle Storie. Una realtà che non so bene come definire - bar condiviso, spazio di approdo, luogo di scambio di parole e idee - ma che senz'altro è un'altra prova provata di un paese che dà il meglio di sé dove forse meno ci si aspetta. E il meglio si può trovare anche in un ex circolino dell'Arci, fino a ieri malmesso e abbandonato a se stesso, nascosto in un reticolo di strade alla periferia di Campi Bisenzio.

Certo, ci sarebbero molte altre cose da dire: i prodotti del commercio equo e solidale, il rapporto con Libera, il lavoro prezioso di una cooperativa che già in passato ho avuto modo di conoscere, le gambe che una nuova amministrazione comunale sta dando a diverse buone idee.... Però a me piace soprattutto questa idea delle storie, questo stesso nome che evoca le storie.... Il Porto delle Storie....

E mentre i miei pensieri vagavano tra il Baltico e il Mediterraneo, inseguendo parole di viaggi e su viaggi, ecco, mi è venuto in mente che è esattamente questo ciò di cui abbiamo bisogno: porti a cui approdare, porti in cui cercare riposo e mescolare le nostre parole, in cui lasciare il bagaglio dei nostri racconti e prepare altre partenze.  Bello, come no. Necessario, anche. 

Più tardi una persona amica mi ha risvegliato dalle mie elucubrazioni. Bisogna levare l'articolo, per capire il senso: così mi ha detto. E il sostantivo si è fatto anche verbo. Non solo un porto per ormeggiare le storie. Ma un luogo dove io porto le storie.

E la cosa mi è piaciuta ancora di più. E mi è venuta in mente che in questa storia di storie c'è un'altra storia, bella, che merita di essere raccontata. Quella di un porto, quella di uomini e donne che, come Ulisse, tornano e poi ripartono.

martedì 15 ottobre 2013

Quando Proust e Joyce confessarono di non essersi letti

Pare che almeno una volta i due mostri sacri della letteratura del Novecento - Marcel Proust e James Joyce - si siano incontrati. Accadde a Parigi, all'Hotel Majestic, il 19 maggio 1922. Dai due non c'era da aspettarsi molto, visto l'allergia di Proust alle uscite in società e la riluttanza di Joyce alle buone maniere.

Niente mi diverte meno di ciò che, vent'anni fa, veniva chiamnato esclusivo, affermava Proust. Non riesco a trovare il mio posto nell'ordine sociale se non come vagabondo, proclamava Joyce.

E l'incontro? Se possiamo prestare fede a un terzo scrittore, Ford Madox Ford, è così che andò:

Proust: Come dico, monsieur, in Dalla parte di Swann, che senza dubbio avrete...
Joyce: No, monsieur.
(pausa)
Joyce: Come il signor Bloom dice nel mio Ulisse, che voi, monsieur, avrete senza dubbio letto....
Proust: A die il vero, no, monsieur.
(pausa)

E per ulteriori informazioni, sul contesto e sull'epilogo, c'è un libro che vi raccomando davvero, un regalo di 101 incontri straordinari: One on One di Craig Brown (edizioni Clichy). Consigliato, davvero. 

domenica 14 luglio 2013

Che cosa può essere un'isola

Nessun luogo, come l'isola, è così aperto e così difficilmente assimilabile, al punto da diventare una sorta di "altro" per eccellenza.

La relazione con questo "altro" è difficile da dominare, da circoscrivere, da confinare. Ma tale relazione va gestita nel rispetto della distanza, l'unica realtà che consenta un autentico avvicinamento.

Esiste una differenza mai cancellabile che discende da una lontananza mai risolta e che in nessun modo si deve sopprimere.

L'incertezza identitaria di cui l'isola fa dono fa sì che essa sia luogo in cui si sperimentano a un tempo esilio e asilo.

Ogni Ulisse lo sa. 

(Donatella Puliga, L'ospitalità è un mito?, Il Melangolo)

martedì 24 luglio 2012

Quando le "correzioni" hanno trovato il giusto tempo

Ci sono libri belli di cui ti vien voglia di scrivere fiumi di parole, fosse solo per condividere il piacere di quella lettura. Ci sono libri bellissimi di cui invece non ti senti capace di dire praticamente niente, sarà che dovresti dire troppo, sarà che ti sembra di sciupare qualcosa, sarà che in effetti non c'è niente da aggiungere e l'unica cosa che puoi fare davvero è un'opera di sottrazione, per lasciare che parli solo il libro, direttamente, senza filtri.

Le correzioni di Jonathan Franzen per me è un libro così. Un libro che mi ha regalato emozioni che da tempo non provavo e di cui non riesco a parlare, sarà che per parlarne in realtà dovrei parlare di me stesso.

In queste pagine ho visto la mia vita e la vita di tante persone che mi sono vicine. Ci ho trovato il mondo di oggi, la sua economia, la cultura che va per la maggiore. Allo stesso tempo sono entrato prepotentemente dentro la storia di una famiglia, inferno e squarci di tenerezza.

Pensare che per anni è rimasto dalle parti basse della pila di libri "in attesa di lettura", come una pratica burocratica che si cerca di non evadere, rimandandola alle calende greche. Una volta l'avevo perfino attaccato, due o tre paginette di approccio e poi l'immediata resa, per pigrizia: troppe pagine, caratteri troppo fitti, e poi che sarà mai, solo un altro buon scrittore americano.

(a dimostrazione che ogni libro ha il suo tempo. Mi era successo anche con l'Ulisse di Joyce)

Poi ho scoperto che Le correzioni aveva la dimensione ideale per un viaggio in aereo e una vacanzina in bicicletta. Ora l'ho finito da qualche giorno ed è sempre qui, accanto al mio computer. Non ho il coraggio di rimetterlo sullo scaffale.

E rifletto sulle "correzioni" del titolo, sulle traiettorie che non sempre sono quelle di una palla di biliardo, sui diversi movimenti che a volte dovremmo imprimere alle nostre vite, sulla triste constatazione che quasi sempre non siamo noi a correggere la vita, piuttosto è la vita che ci corregge: refuso da cancellare, variabile dipendente, discolo da rimettere in riga.

giovedì 21 giugno 2012

Sorpresa, è a Teheran la fiera del libro

Ma è proprio lo stesso paese? Occhi sgranati, titolo da leggere due volte, attenzione all'equivoco. Sì che lo è: è dell'Iran che si parla. Dell'Iran e di Teheran, che anche quest'anno ha ospitato la sua Fiera del Libro. 


E dunque, il paese da cui è arrivato Leggere Lolita a Teheran - lo splendido libro di Azar Nafisi su un manipolo di donne che sfidano il regime leggendo a loro rischio e pericolo lo scandaloso Nabokov - è lo stesso di una Fiera del Libro che con i numeri surclassa anche la Buchmesse di Francoforte. 

Mezzo milioni di visitatori, duemila case editrici e, tra gli stand, anche i libri di Dostoevskij e Murakami.

Paese faticoso, paese strano, l'Iran. Perché poi c'è anche l'altro lato della medaglia. Come racconta Alessandro Carlini sul Venerdì di Repubblica, da queste parti sono vietati anche il Simposio di Platone o l'Ulisse di James Joyce. 

Però i libri messi al bando, come i libri proibiti, in qualche modo riuscirete sempre a trovarli, magari per strada. 

Mercato nero di cultura. Reazione vitale di un paese che non si è arreso alla censura e anche così sa restituire alla cultura quel valore che da noi punta tristemente verso l'azzeramento.  

venerdì 17 febbraio 2012

Ma dov'è l'Ulisse di James Joyce?

Dicono che sia una festa per i filologi ma che per tutti gli altri le questioni che pone sono da rompersi la testa.

Dicono che per quanti sforzi si faccia per restituirlo alla sua versione originale non si arriverà mai da nessuna parte, perché è impossibile provare a ricostruire un testo perfetto che non esiste o non esiste più.

Dicono che non ci si può fare proprio niente, perchè lo stesso James Joyce continuò a correggerlo e ricorreggerlo senza sapere più, a un certo punto, cosa aveva davvero tra le mani.

E comunque c'è poco da fare, tanto è un libro che è un'impresa leggere, lasciato lì anche da alcuni dei più grandi estimatori. Lo stesso Hemingway si sperticava in lodi ma lo lasciò dopo poche pagine.

Chissà quante cose si può dire e non dire dell'Ulisse di Joyce. Tutto questo, tra l'altro, me lo rende quasi divertente.


Tuttolibri ha parlato recentemente della nuova edizione proposta dalla Newton Compton, proponendo il confronto tra il suo incipit e quello della classica traduzione di Mondadori, una cinquantina di anni fa.

Così cominciava quest'ultima:

Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall'alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio. Una vestaglia gialla, discinta, gli levitava delicatamente dietro.

E così comincia la nuova traduzione:

Statuario, il pingue Buck Mulligan spuntò in cima alle scale, con in mano una ciotola di schiuma su cui giacevano in croce uno specchio e un rasoio. La vestalia gialla, slacciata, era lievemente sostenuta alle sue spalle dall'aria delicata del mattino.

Ma di quale libro stiamo parlando?





martedì 31 gennaio 2012

Com'era grande il mondo ai tempi di Chateubriand

A mezzogiorno gettammo l'àncora davanti Modone, un tempo Methoni, in Messenia. In un'ora ero già a terra, calpestavo il suolo della Grecia, ero a dieci leghe da Olimpia, a trenta da Sparta, sulla strada che tenne Telemaco per andare a chiedere notizie di Ulisse a Menelao: non era nemmeno un mese che avevo lasciato Parigi

Era il 1811, un'era geologica fa, quando Francois-Auguste de Chateaubriand pubblicava il suo Itinerario da Parigi a Gerusalemme, opera che, si dice, segna il debutto della moderna letteratura di viaggi: non lo sapevo e lo sto imparando solo in questi giorni grazie a un gran bel libro di Stenio Solinas, Da Parigi a Gerusalemme, pubblicato da Vallecchi.

Tornerò su questo libro e tornerò su Chateubriand, però che effetto straniante che ti lascia questo passaggio: da Parigi alla Grecia dei sogni e dei versi antichi in nemmeno un mese.

Davvero era un grande viaggio.

E quanto era più vasto il mondo, allora. Quanto è cambiata da allora la nostra percezione del tempo e dello spazio.

sabato 14 gennaio 2012

Se il mare è il tappeto del salotto

 Tutta l'infelicità degli uomini deriva da una sola causa: dal non saper restarsene tranquilli in una camera.

Blaise Pascal la vedeva così, e se si condividesse il suo terribile giudizio certo riusciremmo a controllare ogni tentazione di viaggio.

Però la cosa si può leggere anche in altro modo. La disgrazia non è viaggiare, è non sapere restarsene tranquilli dove siamo. La disgrazia, aggiungo, può essere anche non saper viaggiare restandosene dove siamo.

Ricordate Il ritorno di Ulisse, il quadro di Giorgio de Chirico, dove l'eroe-viaggiatore sta remando su una piccola imbarcazione? Il mare è in realtà il tappeto di un salotto, l'orizzonte è ciò che si vede attraverso una parete.

Viaggiare restandosene dov'è. Come fa Xavier De Maistre nei suoi libri dove parla di viaggi e spedizioni notturne intorno alla sua stanza.

Viaggiare e andarsene lontano, magari grazie a quegli straordinari biglietti di viaggio che sono i libri. Come afferma Erri De Luca:

Se anch'io sono un altro è perché i libri più degli anni e dei viaggi spostano gli uomini

Sì, ci si può muovere anche così, usando le pagine dei libri come un tappeto magico. I buoni libri - a volte anche i meno buoni - ci portano quasi sempre lontano.

lunedì 7 novembre 2011

Trieste è un'altra, Trieste è dentro di noi

Trieste, quante cose che è per me Trieste, anche se non conosco bene Trieste, anche se in tutta la mia vita ci sarò stato solo una manciata di giorni. I palazzi degli Asburgo e le poesie di Umberto Saba, le maglie della Triestina e i traffici dei container, Italo Svevo e Claudio Magris, gli scacchi al Caffé San Marco e la frontiera che c'è stata, che non c'è più, che forse c'è ancora.... quante cose che è Trieste, centro e periferia, mare e cuore d'Europa, luogo dell'anima  e nostalgia....

Trieste è anche qualcosa di indefinibile, sfuggente, che forse ha a che vedere con il tempo, con la storia, anzi con la Storia, quella con la esse maiuscola, solo che è uno sbaglio, quella Esse maiuscola, perché poi il fiume degli eventi si spezza in mille rivoli, traccia i corsi delle singole vite, le segna e le porta via.

Forse è davvero il tempo che trascorre, a fare Trieste di Trieste. E per me, fiorentino, non è facile capirla, io che abito una città dal passato grande e statico. A Trieste, mi sa, il tempo si manifesta davvero come quel fiume, che passa e si lascia i suoi detriti.

Difficile capirla, ma poi per fortuna ti arriva tra le mani un libro come Trieste è un'altra di Pietro Spirito, giornalista e scrittore che Trieste la ama e la sa raccontare. Non un libro di storia, non una guida - non per caso è l'ultimo titolo della collana Le non guide di Mauro Pagliai - piuttosto un reportage, piuttosto un viaggio nella città e nel suo universo, una peregrinazione, una scommessa.

Una giornata errabonda in motocicletta, toccando i luoghi silenziosi e nascosti che possono svelare l'enigma Trieste. Chilometri e curiosità. L'itinerario di un Ulisse - più nel senso di James Joyce, per l'appunto triestino per elezione, che di Omero - di un Ulisse che cerca di restituire il tempo alla sua città.  E nessuna delle cose che vi suggerirà l'Azienda di promozione turistica: magazzini dello scalo marittimo, invece, valichi di confine, negozi all'ingrosso, stazioni ferroviarie abbandonate...

Eppure ogni tessera va al suo posto, la mappa si ricompone, il segreto rimane, ma come un amico che ti fa compagnia.

Bello, sorprendente questo libro di Pietro Spirito. Buono per chi Trieste non la conosce e forse non la conoscerà mai. Tanto Trieste è già orizzonte che si schiude, davanti a chiunque non si neghi al tempo e alle sue storie.

venerdì 25 giugno 2010

Franzen e l'amore che si tiene a distanza


Ci sono libri belli di cui ti vien voglia di scrivere fiumi di parole, fosse solo per condividere il piacere di quella lettura. Ci sono libri bellissimi di cui invece non ti senti capace di dire praticamente niente, sarà che dovresti dire troppo, sarà che ti sembra di sciupare qualcosa, sarà che in effetti non c'è niente da aggiungere e l'unica cosa che puoi fare davvero è un'opera di sottrazione, per lasciare che parli solo il libro, direttamente, senza filtri.

Le correzioni di Jonathan Franzen per me è un libro così. Un libro che mi ha regalato emozioni che da tempo non provavo e di cui non riesco a parlare, sarà che per parlarne in realtà dovrei parlare di me stesso.

In queste pagine ho visto la mia vita e la vita di tante persone che mi sono vicine. Ci ho trovato il mondo di oggi, la sua economia, la cultura che va per la maggiore. Allo stesso tempo sono entrato prepotentemente dentro la storia di una famiglia, inferno e squarci di tenerezza.

Pensare che per anni è rimasto dalle parti basse della pila di libri "in attesa di lettura", come una pratica burocratica che si cerca di non evadere, rimandandola alle calende greche. Una volta l'avevo perfino attaccato, due o tre paginette di approccio e poi l'immediata resa, per pigrizia: troppe pagine, caratteri troppo fitti, e poi che sarà mai, solo un altro buon scrittore americano.

(a dimostrazione che ogni libro ha il suo tempo. Mi era successo anche con l'Ulisse di Joyce)

Poi ho scoperto che Le correzioni aveva la dimensione ideale per un viaggio in aereo e una vacanzina in bicicletta. Ora l'ho finito da qualche giorno ed è sempre qui, accanto al mio computer. Non ho il coraggio di rimetterlo sullo scaffale.

Rifletto sulle "correzioni" del titolo, sulle traiettorie che non sempre sono quelle di una palla di biliardo, sui diversi movimenti che a volte dovremmo imprimere alle nostre vite, sulla triste constatazione che quasi sempre non siamo noi a correggere la vita, piuttosto è la vita che ci corregge: refuso da cancellare, variabile dipendente, discolo da rimettere in riga.

Ma soprattutto mi lascio ancora accompagnare dai personaggi di questa famiglia che Franzen racconta per quasi seicento pagine fitte fitte. Sono ancora con me i figli, Gary, Chip, Denise, sono con me la madre Enid, il padre Alfred. Soprattutto quest'ultimo direi, l'arcigno, impenetrabile, insopportabile Alfred, l'uomo chiuso nella torre d'avorio dei suoi principi e allo stesso tempo inerme nella sua malattia.

Ricordo una frase:

Quelle erano sere, e ce n'erano state centinaia, forse migliaia, in cui nulla di così traumatico da lasciare era accaduto al nucleo famigliare. Sere di semplice intimità alla vaniglia sulla poltrona di pelle nera; dolci sere di dubbio tra notti di squallida certezza. Gli venivano in mente adesso, quei controesempi dimenticati, perché alla fine, quando si stava cadendo in acqua, l'unica cosa solida a cui aggrapparsi erano i figli

E soprattutto un'altra (buffo, leggendo qualche commento su Anobii, in diversi hanno pescato proprio queste due righe nelle seicento pagine, qualcosa vorrà dire)

La strana verità su Alfred era che l'amore, per lui, non era questione di avvicinarsi, ma di tenersi a distanza


Quanta verità, in questa strana verità. Ma qui mi fermo, perché di questo libro sto già parlando.

venerdì 28 maggio 2010

Quando il viaggiatore non è più ospite


E insomma, a dispetto di quanti preannunciano, con minore o maggiore compiacimento, la morte dei quotidiani, quest'ultimi ogni giorno continuano a proporsi come una finestra sul mondo di cui non so fare a meno. Ogni tanto poi ci regalano qualcosa di prezioso. Come il paginone centrale di oggi di Repubblica, che anticipa alcuni passaggi della lezione dell'arcivescovo Dionigi Tettamanzi sotto il titolo Il dovere dell'accoglienza. Vi posso solo riportare alcuni passi del capitoletto Il migrante.

Come mai oggi non avviene più questo prodigio: che un viaggiatore che giunge da lontano, come Ulisse ai piedi di Nausicaa (Odissea, VI, 201-222), si trasformi in un prossimo che ha bisogno di aiuto e per il quale si diventi ospiti, ovvero "sostegno dei forestieri"?
Vi fu un tempo in cui il viaggiatore tormentato dalla sorte, il naufrago appeso ai resti di una imbarcazione, suscitava pietà, curiosità, accoglienza...
Nella cultura antica, il forestiero e l'ospite diventavano subito un prossimo che ha bisogni concreti: dargli una mano voleva dire muovere subito le mani in suo aiuto. Il viaggiatore giungeva sì da lontano, ma si trasformava subito in vicino: oggi questo "prodigio" non avviene più.
Anche l'Italia, guardando alla storia degli ultimi anni, fino a poco tempo fa accoglieva gli stranieri più da visitatori che da immigranti. La diversità destava stupore e permetteva di imparare qualcosa di nuovo,
Oggi gli immigranti giungono per mare su imbarcazioni che sono praticamente relitti. Tuttavia, vengono sempre meno percepiti come viaggiatori e sempre più come invasori.

mercoledì 7 ottobre 2009

Ulisse, l'uomo che non voleva partire


Non me l'aspettavo, l'ultimo libro di Cecchi Paone, dedicato a Ulisse, è un’intensa rievocazione del mito di Ulisse, colto nel corso di un viaggio che prima ancora di portare l'uomo di Itaca in lungo e in largo affonda nella sua interiorità e imprime una straordinaria traiettoria alla sua storia.

Se il viaggio non è solo spazio fisico colmato, se il viaggio è davvero cambiamento che ha che vedere con noi stessi, Ulisse ne è davvero il campione: lui che si lascia alle spalle le rovine di Troia come eroe per diventare semplice un uomo.
Un uomo che vuole essere semplicemente se stesso, un uomo che resiste alle tentazioni che nel corso del viaggio gli si presentano, offerte di oblio e di eternità, possibilità di alleggerire il grande fardello delle sofferenze umane che lui rispedisce al mittente, perché sottrarsi a quelle sofferenze è anche abdicare alle proprie condizione di uomo.

Ulisse, il prototipo del viaggiatore: proprio lui che non avrebbe mai voluto partire, con la sua casa costruita intorno a un antico olivo, il suo letto scavato in quell’olivo al centro della casa; lui che per questo provò anche a fingersi pazzo di fronte ad Agammenone e agli altri guerrieri, facendosi vedere ad arare la spiaggia e a seminarvi il sale. Lui il cui viaggio è puramente ritorno, prima ancora fame di ritorno.

“Io esisto perché ricordo, io sono perché rammento, io sono tutto ciò che sono stato. Io sono l’uomo che ha distrutto Troia, e sono l’uomo che ha costruito la sua casa per restare…”
Non tutto convince in questo libro, soprattutto nel passaggio dalla terza alla prima persona, quando a raccontare è Ulisse stesso… Però ci sono pagine affascinanti… come quelle sulla discesa nell’Ade, quando Ulisse incontra le ombre degli eroi della guerra di Troia, e sono solo ombre, non c’è gloria, non c’è niente che valesse la pena… e questa discesa nell’Ade è quello che fa di Ulisse l’uomo, non più l’eroe.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...