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lunedì 20 maggio 2019

I gatti sono come i venti che portano storie

Racconta Paolo che a casa ha una gatta, si chiama Mina, ha 15 anni ed è zoppa, ma lo aspetta sempre sul molo della sua isola immaginaria, sonnecchia mentre lui balza di storia in storia. E' l'unico essere vivente a cui non deve spiegare che quando guarda fuori dalla finestra sta lavorando - e questo mi sembra già tanto.

Racconta Paolo che il gatto mediterrano ama la solitudine, non conosce il peso del ricordo, non vuole essere altro che se stesso in un mondo in cui tutti vorrebbero essere qualcos'altro: insomma, la sua è una vita pagana, epicurea, forse zen.

Racconta Paolo che il gatto mediterraneo è un'isola, e l'isola è isolata, appunto, però il mare che è intorno non è solo separazione, è anche viaggio e possibilità di incontro e poi non ci sono solo le correnti, c'è anche il vento che sorvola il mare e porta le storie da una costa all'altra: e questo il gatto lo sa benissimo. 

Quante cose ci sono in questo gioiello di poche pagine e molte emozioni, L'istinto del gatto mediterraneo di Paolo Ganz (Piccola filosofia di viaggio, Ediciclo). Sembra un libro fatto apposta per me, che da qualche mese ho provveduto a dotarmi di felino domestico, una gattina di nome Lola. Però ancor di più me lo sento cucito addosso perchè dentro c'è il viaggiare, di più, ci sono i luoghi: ci sono più che in un libro dedicato ai mercantili che solcano il mare.

Mina è un po' tutti i gatti del mondo, soprattutto quelli che abitano i porti e gli angiporti del nostro Mediterraneo. E i gatti di Paolo sono vele che prendono il vento per consegnarci ad altre destinazioni. 

Quello del gatto, racconta Paolo, è un mondo piccolo, anzi, un mondogatto: come in genere lo è quello di scrive e persino di chi viaggia e va lontano per cercare nuove rotte verso casa. 

Sì, è proprio isola, il gatto. Come le isole dell'Egeo che Paolo ha saputo regalarci in altri ottimi libri. Isola e isole, arcipelaghi. Come i gatti, come le storie che non smettono di cercarsi e riconnettersi. 


giovedì 27 settembre 2018

Le isole sono tutto e il contrario di tutto

Sostiene Silvia che si può essere molto felici su un'isola, anche se è evidente che la cosa vale soprattutto per chi a quell'isola appartiene da sempre. Sostiene Silvia che le isole sono tutto e il contrario di tutto, ma che certo non sono solo grumi di terra circondati dal mare. Sostiene Silvia che vale anche per chi, come lei, è donna di terraferma, tanto quello che conta è sentirle dentro.


Cose così, trovate dentro L'inquietudine delle isole di Silvia Ugolotti, ultima perla che ci regala Ediciclo con la sua Piccola Filosofia di Viaggio, piccoli grandi libri che in poche pagine concentrano sguardi sul mondo e movimenti dell'anima. E lo dico con sincerità: tra tutti i titoli di una collana che dovrebbe abitare gli scaffali di ogni viaggiatore, questo è uno dei più belli.

Vorrei vederle tutte, dice Silvia: e si intende che l'inquietudine è più sua che delle isole. E' fame di mondo che non sarà mai saziata, chiaro, a fronte delle centotrentaduemila isole che qualcuno è riuscito a censire. Ma non importa, perché ci possono essere le Azzorre e le Comores, le Eolie e Far Oer, non importa perché in fondo si insegue sempre l'isola delle isole, un sogno che è molti sogni, un'utopia che si dilegua con l'approdo che segue.

Quante cose, in questo concentrato di viaggi che a volte esigono una nave e a volte solo una buona dose di fantasia. Geografia che si compone, attraverso un rosario di destinazioni, letture, emozioni. E ci sono le isole paradiso, più o meno perduto, e le isole inferno, a volte fin troppo reali. Le isole mito e le isole che i nostri piedi calpestano e comprovano.

Scogli sferzati dai venti del nord e palme su spiagge tropicali, cieli di stelle e fari che sono salvezza nella notte. Isole che ci sono, isole che ora ci sono e ora non più, isole che navigano. Ma soprattutto l'isola che non c'è - soprattutto quella - l'isola che non c'è e che pure continua a esserci, finché non si smetterà di desiderarla.

Quell'isola, mi sa, che era nei racconti di un padre che rincalzava le coperte prima di accompagnare al sonno una bambina. Mi racconti il mare? E lui che cominciava: C'era una volta un'onda.... E con l'onda quell'isola, che è un'altra isola, ma non è poi molto diversa dalla mia Mompracem. 

sabato 21 luglio 2018

E se le mappe fossero il nostro specchio?

Molto si potrebbe dire di quanto è bello perdersi. Cosa più difficile da farsi, oggigiorno, ma è uno svantaggio sopportabile. Possiamo sempre spegnere i nostri cellulari, rassicurati dal pensiero che le mappe saranno ancora lì in caso di bisogno.

Sono molti i libri in cui mi sono tuffato per inseguire il mio amore per le carte geografiche e per spremere i pensieri che poi ho provato a fissare nel mio Il sogno delle mappe (Ediciclo, Piccola Filosofia di Viaggio). Nemmeno ho finito qui, altre letture certo non mancheranno. Già da ora, però, voglio consigliarvi questo libro: Sulle mappe. Il mondo come lo disegniamo (Ponte alle Grazie editore).

Il tiolo è già una spia che si accende. Non il mondo qual è, ma il mondo come lo disegniamo. Con tutta la scienza che la cartografia chiama in causa, ecco, ci sono praterie intere per lo sguardo soggettivo, per la scelta arbitraria, persino per il sogno. Questione di punti di vista: e verrebbe da dire che proprio per questo le mappe sono uno specchio che oltre a restituirci il mondo ci restituiscono qualcosa, molto, di ciò che noi siamo. 

Mi piace questo libro, che non è il libro dello specialista, semmai del grande divulgatore di scuola britannica, capace di dire molto con semplicità e divertimento, sostenuto da un'inguaribile curiosità.

E certo queste pagine sono anche un atto di amore in cui mi riconosco. Allo stesso modo dei libri che difendono la cara vecchia carta contro ogni pretesa definitiva degli e-book, magari con toni da fine della storia. 

Ma se invece le mappe avessero un futuro? - si interroga e ci interroga Garfield - E se ci fossimo resi conto dei limiti del GPS su uno schermo di piccole dimensioni e volessimo tornare a una visione più ampia?

Giuro, pensavo anche a questo, negli ultimi giorni trascorsi sulle spiagge di Cefalonia. Provando a indovinare i titoli dei libri che altri come me divoravano sulle sdraio. 

lunedì 20 novembre 2017

I luoghi inquieti di un mondo da rimettere a posto

Il mondo è pieno di luoghi così: incerti, suscettibili e variabili che non sempre si rivelano o a cui semplicemente non facciamo caso. Spazi che cambiano come cambia il vento, la stagione o il punto di vistadi chi li osserva.

Eccolo, l'ultimo regalo che ci fa Ediciclo, con la sua Piccola filosofia di viaggio, collana che mi è sempre più necessaria con i suoi sguardi corsari e i suoi vagabondaggi tra parola ed esperienza. Il disordine del mondo, sottotitolo Piccolo atlante dei luoghi fuori posto, si va ad aggiungere ad altre uscite che non c'è volta che mi capita di chiamare in causa, tipo L'arte di perdere tempo di Patrick Manoukian,  La voce delle case abbandonate di Mario Ferraguti o La vocazione di perdersi di Franco Michieli.

Stefano Scanu, l'autore, di mestiere fa il libraio e forse anche per questo manifesta una certa predisposizone alla catalogazione di ciò che lo circonda e non solo degli scaffali. In queste pagine, poi, ci prova con l'intero pianeta. Obiettivo, misurarsi con il suo caos e per quanto possibile mettervi ordine. E' il sogno ultimo, la ragione stessa della fame di conoscenza applicata alla geografia. Missione impossibile, d'accordo. Ma ci sono missioni impossibili che invitano al galoppo come i mulini a vento con Don Chisciotte.

Ci prova, Stefano Scanu, inseguendo isole che sono penisole che forse sono isole, città dalla toponomastica clamorosamente ingannevole, luoghi inquieti che non sono quello che sembrano. Allora persino una cabina telefonica - una delle poche che ancora resistono - può diventare una sorta di Enterprise, la nave spaziale di Stra Trek che fa rotta verso altri pianeti...

E che dire della dedica a Mercatore, il cartografo fiammingo che con le sue mappe cercò di inchiodarte ciò che fermo non voleva e non vuole stare?

Solo per dire, il resto alla vostra lettura.

giovedì 4 maggio 2017

Il piacere della gentilezza, arte dei camminatori

Ciò di cui vorrei parlare è la gentilezza universale, vale a dire non la regola da applicarsi in un determinato posto e in una certa circostanza, ma l'intelligenza delle regole. 

Gentilezza universale, che bella espressione. Come per dire che non è che possiamo permetterci di essere gentili solo a casa propria, oppure di essere gentili solo con i nostri vicini e non ncon coloro che arrivano da lontano. E' qualità che ci riguarda sempre, la gentilezza. E' qualità che non va mai presa sottogamba, quasi fosse solo una questione di forma. A parte che anche la forma è importante, quali possono essere le conseguenze di un saluto non dato, di un rimgraziamento fatto mancare?

Ecco, di tutto questo parla Bertrand Buffon, ne Il piacere della gentilezza, ultima scoperta che ho fatto tra le ormai numerose uscite di quella splendida collana che è la Piccola filosofia di viaggio di Ediciclo. Intrigante fin dal titolo che incrocia il piacere con la gentilezza - e non  era scontato - in queste pagine si ritrova il senso di ciò che deve rappresentare davvero la buona educazione.

E già che ne parli io mi suona strano, dopo una vita trascorsa a sbuffare su tante regole che, a mio parere, avrebbero duvuto far la stessa fine del Galateo del Monsignor Della Casa - roba da cortigiani, roba da gente snob.

Ma ovviamente c'è anche un'educazione del cuore. Ovviamente ci sono parole che è bene coltivare - poco importa se quasi sempre sono pronunciate per abitudine, come in una stanca liturgia.

Il senso della gentilezza va ricercato nella relazione che si stabilisce - spiega Buffon - Il suo scopo è di attirare gli uni verso gli altri e, in un certo senso, di farli incontrare.

Cosa evidente per chi, come me, cerca spesso di partire per qualche cammino. In città quasi sempre ci si incrocia per strada e nemmeno si solleva lo sguardo. Ma in un sentiero di montagna c'è sempre il modo di scambiarci un saluto: e in quel modo diventiamo comunità, anche con chi dopo pochi secondi ci sparirà per sempre alla vista. La gentilezza - dice ancora l'autore - è un'arte collettiva.

Un'arte - aggiungo io - che va particolarmente coltivata da chi viaggia. A volte basta una parola. Magari un arrivederci o un grazie in una lingua che non è la nostra.


venerdì 17 marzo 2017

Il viaggio come arte di perdere tempo

Per me, viaggiare è fermarsi. Fare una pausa oziosa tra la tappa appena raggiunta e quella successiva.

Ma che regalo, è concedersi tempo, tanto tempo, per godersi l'ultimo libro che ci propone Ediciclo con la sua collana Piccola filosofia di viaggio. Ho ancora nel cuore l'emozione di altri titoli - per dire, La voce delle case abbandonate di Mario Ferraguti oppure La vocazione di perdersi di Franco Michieli - ma ora ho fatto in modo che a lungo mi tenesse compagnia L'arte di perdere tempo di Patrick Manoukian.

E' un libro che parla di viaggio senza parlare di mete e itinerari, ma di pause e di imprevisti. E io l'ho letto come Manoukian viaggia: perdendo tempo, che in realtà spesso è un modo di guadagnarlo; fermandomi e lasciando vagare il pensiero; incontrando altri pensieri che non avevo messo in conto.

Dev'essere un tipo particolare, Manoukian, viaggiatore a oltranza, giornalista free lance, autore di romanzi polizieschi e libri per ragazzi, figlio della generazione che negli anni Sessanta faceva l'autostop e fuggiva da molte cose.
A 20 anni, mentre lavorava come lavapiatti in un ristorante di Long Island, sentì parlare di un concerto che doveva tenersi in una certa Woodstock. Per raggiungerla fece 4 mila chilometri fino a San Francisco, solo per capire che Woodstock non era sulla West Coast, ma piuttosto vicino ai luoghi da cui era partito. Un chirurgo lo fece salire in macchina, gli diede ospitalità per la notte, poi insieme alla famiglia partì a sua volta e per qualche giorno gli lasciò casa e auto.

Quelli erano i tempi e Manoukian iniziò a capire che nei viaggi, davvero, non conta dove arrivi, ma come ci arrivi. Conta cosa c'è in mezzo.

Il viaggio è movimento, ma il viaggio vive dei momenti in cui ci si ferma. Sembra un paradosso, ma non vale così anche per la musica? Ci vogliono i silenzi, perché le note si facciano musica.

Il fatto è che siamo sempre portati a considerare il viaggio come qualcosa che succede nello spazio. Invece è in primo luogo qualcosa fatto di tempo: del resto non siamo anche noi soprattutto tempo?

Allora provate a sostituire il tempo allo spazio. Vedrete quante cose cambiano: il viaggio diventa ritmo, diventa dondolio di altalena tra la voglia di partire e quella di fermarsi, diventa sofà su cui è bello abbandonarsi per guardare il mondo.

Forse sotto sotto anch'io già la pensavo così. Avevo bisogno delle parole giuste - quelle di Manoukian - per crederci davvero.







venerdì 13 gennaio 2017

Cos'è che ci spinge alla partenza

Qual è dunque l'ideale che ci anima ormai, la favola dell'uomo nomade d'oggi?

Gira intorno a questo interrogativo uno dei pochi titoli che ancora mancava alla mia lettura tra le tante proposte dalla splendida collana Piccola filosofia di viaggio di Ediciclo. Piccoli libri, appunto, ma grandi domande su ciò che accompagna i nostri viaggi e ciò che con i viaggi cambia in noi e nel mondo.

Il richiamo della strada del grande viaggiatore Sèbastien Jallade prende di petto la domanda che viene prima di tutte le altre domande sul viaggio, la domanda senza la quale forse ci potrebbe essere turismo, spostamento fisico più o meno volontario da un luogo all'altro di una mappa geografica, ma non viaggio.

Che cos'è che ci mette davvero in movimento?

Attenzione allora al sottotitolo del libro: Piccola mistica del viaggiatore in partenza. Che è certamente intrigante ma ci suggerisce anche che Jallade non si contenta di risposte in superficie. Non ci si lascia la casa alle spalle solo per una felice intuizione, non ci si può accontentare solo del gioco delle circostanze.

No, partire è una scelta che ci chiama in causa, che mette in gioco la nostra vita come poco altro. In fondo è un atto di libertà e la libertà non è solo lasciare qualcosa, è anche dare una forma, un senso, almeno un sentimento a ciò che succederà dopo la partenza.

E se un tempo chi viaggiava per scelta era soprattutto un esploratore o un avventuriero, oggi nel mondo apparentemente senza più sorprese, possiamo sempre essere scopritori. Se non altro di noi stessi. Senza patire troppa nostalgia per l'ampiezza del mondo di una volta.

Importanti, non banali le riflessioni di Jallade. In particolare quelle su un nomadismo senza legami - e magari da turismo organizzato - a cui contrapporre positivamente una sedentarietà in un posto dove non abbiamo radici, ma in cui possiamo comunque provare a reinventarci. 

Perché in questo mondo ci sono molti modi di vivere l'altrove. E ci può essere un viaggio, ma anche una scelta più definitiva, dove la partenza non implica il ritorno.


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