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giovedì 14 marzo 2019

Piccola autobiografia nel ricordo di Shulim

Sono nato su un treno mentre la città bruciava...

Ecco, comincia così, con queste parole che già spingono dentro i crimini del Novecento, la Piccola autobiografia di mio padre di Daniel Vogelmann, piccolo grande libro che è la storia di un secolo e di una famiglia, di una vita scampata ad Auschwitz e di una ferita che non si è mai rimarginata, di una casa editrice a cui in tanti vogliamo bene e di una speranza consegnata al futuro, malgrado tutto, perché ciò che è stato non deve avere l'ultima parola.

Quante cose davvero in queste poche pagine, scritte senza cercare effetti speciali, ma distillate attraverso la memoria e il sentimento. Non deve essere stato facile, la sfida è già tutta nel titolo, il figlio che presta la sua voce al padre, la prima persona attribuita a un altro che scardina la logica del memoir famigliare.

Tutta una vita, per quanto al figlio è stato dato di sapere. La Galizia orientale, terra scomparsa dalle mappe, con quella città che brucia all'inizio. Vienna, Trieste, coda di un impero alla fine, prima dell'inferno della Grande Guerra. Il trasferimento a Firenze, sulla scia del fratello rabbino, l'incontro con un'altra persona della comunità ebraica importante per la nostra editoria, Leo Samuel Olschki. Il lavoro di tipografo che un giorno, nel lager nazista, lo salverà, prima di entrare nella lista di Schindler. La morte della moglie Anna e della figlioletta Sissel nel campo di sterminio. Quel numero tatuato sul braccio. E poi il ritorno da sopravvissuto, l'immenso dolore dentro, la difficoltà di essere creduto, ma anche un figlio - Daniel - e i libri che tornano a essere stampati.

Ci sono immagini che non se ne vanno via, in questo libro: come la mela donata dal soldato tedesco. Ci sono frasi che sembrano scolpite sulla pietra: come quel Ho sempre amato la vita alla conclusione, malgrado tutto. 

E malgrado tutto, un libro che sa di vita. Libro di memoria, certo, in cui, per quanto mi riguarda, ho ritrovato quel numero sull'avambraccio di cui tanto tempo fa mi parlava mio padre, giovane medico che a Shulim faceva gli esami del sangue: non conoscevo la sua storia, ma forse fu il mio primo contatto con la Shoah. Di memoria, ma anche di presente che guarda al futuro: una casa editrice che nasce e che come titolo propone La notte di Elie Wiesel; il figlio di Daniel che prende il nome di Shulim e che un giorno scriverà un libro. Il titolo? Mentre la città bruciava

Cosicché tutto ritorna, nell'affetto e nel ricordo, persino le poesie per la sorellina mai conosciuta, la piccola Sissel. 


domenica 22 giugno 2014

Sentenza per quanti tacciono dell'assassinio


Gli assassini si sono già condannati da sé, e a quella sentenza non potranno più sottrarsi.

Tu però pronuncia una sentenza doppiamente severa su quanti tacciono dell'assassinio!
Su quanti condannano il massacro a parole, ma ne gioiscono in cuor loro.

Su quanti pensano nel loro cuore immondo: il tiranno è crudele, bisogna riconoscerlo, ma ci fa un piccolo favore del quale gli saremo sempre riconoscenti. 

(Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, Adelphi)


lunedì 16 giugno 2014

L'uomo che raccontò il ghetto di Varsavia e non fu creduto

Il testo in sè sono solo poche pagine e verrebbe da dire: si possono leggere in poco, non fosse che pagine così non finiscono più di essere lette, non cessano di aggrapparsi al cuore e di affondare nella nostra carne viva le loro domande senza risposta. In tutta la letteratura della Shoah troviamo poco di altrettanto sconvolgente come Yossl Rakover si rivolge a Dio, l'estremo messaggio che un combattente del ghetto di Varsavia affida a chi verrà, mentre il cerchio della morte si stringe intorno a lui.

Sono parole di sgomento e di fede nonostante tutto, parole per cercare di dare un senso al Dio che si è nascosto - Credo nel Dio d'Israele, anche se ha fatto di tutto perché non credessi in lui. Credo nelle sue leggi, anche se non posso giustificare i suoi atti.

Eppure, del libro pubblicato ad Adeplhi, mi sembrano ancora più straordinarie le pagine - assai più abbondanti - con cui Paul Bodde ricostruisce la storia di questa opera. Perché di opera si tratta e non di testimonianza delle ultime ore della disperata resistenza di Varsavia. Un'opera che ha sempre avuto un suo autore, Zvi Kolitz, ebreo lituano che ai tempi della Shoah non era nemmeno in Europa, ma combatteva in Palestina. E che non ha fatto nulla per nascondersi, anzi. Solo che il mondo non gli ha mai creduto, convinto che pagine così non potessero arrivare che dall'inferno di Varsavia, essere testimonainza autentica.

Ci ha provato in molti modi, il buon Zvi Kolitz, che questo testo pubblicò in Argentina nel 1946 per poi trasferirsi a New York, dove ha continuato a scrivere e, tra le altre cose, è diventato buon amico di Isaac Singer. Però non ci è stato nulla da fare, non poteva che essere un millantatore.

Come perdonarglielo? Sarebbe un precedente pericoloso! Così facendo, non ci vuole nulla poi per sostenere che anche Auschwitz è un'invenzione, e via di questo passo....

Eppure era andata proprio così. Come si narra che un giorno il rabbino di Praga avesse creato il Golem dall'argilla, così Zvi Kolitz con le parole aveva dato vita - vita autonoma - a Yossl Rakover.

Un giorno sarebbe arrivata una testa come
Emmanuel Lévinas a dire di questo testo che era  "vero come solo la finzione può esserlo". Soprattutto sarebbe arrivato Paul Bodde, a trovare l'originale, stampato su una rivista oggi introvabile, conservata all'istituto ebraico di Buenos Aires che negli anni Novanta fu distrutto da un terribile attentato neonazista.

Verità e finzione che si inseguono e sovrappongono ancora una volta. Quel testo che si diceva spuntato tra le macerie e le ossa di Varsavia ed è finito sepolto tra le macerie e le ossa di Buenos Aires.

 

giovedì 5 dicembre 2013

Quanti sono coloro che abbiamo dimenticato?

Quante persone come Enrica Calabresi ci sono, che non abbiamo saputo scoprire e raccontare?

E' questa la domanda che mi è stata fatta ieri da uno studente - credo che si chiami Demetrio - del liceo Ariosto di Ferrara, dove, assieme ai famigliari di Enrica, la scienziata ebrea cancellata dalle persecuzioni razziali, ero stato invitato per presentare Un nome.

E' questo il bello degli incontri nelle scuole. Credi di andare a insegnare qualcosa e invece, se le cose vanno bene, finisci per misurarti con domande che non ti eri mai posto. Così torni a casa contento, perché in qualche modo più ricco.

Ognuno dei milioni di morti della Shoah meriterebbe un libro. Così ho risposto. E lo stesso potrebbe valere anche per ogni morto della Grande Guerra o della Guerra di Spagna. O per ogni persona in genere, anche morta in pace nel suo letto: ognuna meriterebbe un libro.

Però è vero, è stata una grande fortuna poter raccontare la storia di Enrica, una donna di cui era rimasto solo il nome, peraltro non collegato alle persecuzioni razziali. E quanto di lei che è comunque svanito. Ogni vita, del resto, anche la più documentata, può essere raccontata solo accettando larghi vuoti, silenzi che sono come pause nel linguaggio della musica.

Enrica è diventata un libro solo per una serie di combinazioni. I molti sono stati solo e soltanto inghiottiti dalla Storia, senza alcuna possibilità di essere richiamati dal lavoro della memoria.

Memoria che è una continua tensione tra dovere e potere. Così ho concluso: ciò che sarà possibile è poca cosa, però abbiamo sempre il dovere di provarci.  

 

mercoledì 21 agosto 2013

Quando la Shoah non avrà più testimoni

Le leggi biologiche ci permettono di prevedere che i testimoni diretti della Shoah saranno presto tutti morti. Le testimonianze che molti di loro hanno considerato un dovere, portandole specialmente nelle scuole, saranno sospese per sempre. Ma che cosa cambia?

Certo i testimoni erano/sono mossi dalla loro passione (comprendere e far comprendere, o meglio illustrare l'incomprensibile): passione che una pagina letta ad alta voce non comunica con altrettanta efficacia. Però dal punto di vista conoscitivo non c'è alcuna perdita, perché sulla Shoah sappiamo tutto...

Certo meno commossa, certo più didattica, ci sarà sempre, nelle scuole e nei lager, una voce che proviene dal profondo dell'orrore. E ci saranno sempre i figli e i nipoti che cercheranno in quei luoghi il paesaggio in cui i loro cari furono trucidati, che cercheranno di vedere quello che videro i loro occhi prima del buio, o magari cercheranno una briciola di cenere del loro corpo profanato.

(da Cesare Segre, Shoah senza più testimoni, La lettura del Corriere della Sera)

giovedì 26 gennaio 2012

Auschwitz, ho sentito che sei di moda

Auschwitz, ho sentito che sei di moda.
 

Bella gente di te dice grandi cose.
 

Presto ti tappezzeranno tutta di fogli di carta,
 

vi sarà fruscio in te come su neve immacolata,
 

tutto sarà candido, eccetto i caratteri di stampa,
 

reggimenti con la mano alzata e il passo cadenzato.
 

                                                                                               Meir Wieseltier

venerdì 20 gennaio 2012

Perché non sei venuta prima della guerra?

Là ha sofferto, ma anche qua, anche qua. Povero angelo, è ancora là, e non c'è dolore più grande di questo. 

Il qua - Israele dopo che tutto è successo - e il là - l'Europa dello sterminio a cui sei scampato ma che continuerà a perseguitarti fino all'ultimo istante di vita.

Che prospettiva spiazzante, e a suo modo anche inquietante, che ci regala la scrittrice israeliana Lizzie Doron, con Perché non sei venuta prima della guerra?, libro tradotto in Italia da Giuntina.

Sono tra coloro che si faranno ancora accompagnare a lungo da questo libriccino denso, stupefacente, poetico, straordinariamente evocativo.

Da tempo attendevo una voce così per parlare di quello che è stato, ma soprattutto per ascoltare il racconto della vita dopo che è stato quello che è stato, in realtà senza mai passare.

Lizzie Doron ci riesce parlando della mamma, dei suoi incubi, delle sue devastazioni e delle sue sue liturgie solitarie, delle sue ferite nell'anima, della sua incapacità di spiegarsi veramente o di vivere veramente nel presente.

A mio parere, uno dei più forti racconti sulla Shoah, senza che la Shoah in effetti sia mai davvero raccontata o anche solo citata... da leggere, assolutamente.

domenica 11 dicembre 2011

Non dimenticate il giardino dei Finzi Contini

Sono passati più  dieci anni fa dalla morte di Giorgio Bassani - per la verità pensavo che ne fossero passati anche di più, che non si fosse spinto fin sul ciglio del nuovo secolo, del nuovo millennio - e per me Bassani è soprattutto quel libro, quel giardino, quella storia.

Quante cose che è stato per me Il giardino dei Finzi-Contini.

Ferrara prima del 1938, gli anni del fascismo più roboante e parolaio a cui ancora non è stato presentato il conto. Ubriacatura di proclami, slavina di promesse che non saranno mantenute. La quiete prima della tempesta, assai peggiore della quiete dopo la tempesta.

Quella casa della borghesia ebrea, quelle mura che sembrano preservare dalle offese del tempo e della storia. Le partite di tennis, le merende all'aria aperta, la musica che gonfia le vele delle emozioni. Come se tutto fosse allo stesso modo di sempre. Come se anche il futuro dovesse bussare alla porta con discrezione e rispetto.

La bella Micòl, imprendibile per il ragazzo taciturno e introverso, quasi un intruso. I capelli di rame che si sciolgono come un sogno di felicità. Il sorriso che nasconde parole non dette, più enigma che complicità. Il lampo di una possibilità che rimane tale e che accompagnerà tutta la vita che rimane davanti. L'occasione perduta che non si ripresenterà.

E poi il rimpianto di un amore che non c'è stato che si mescola ai fatti troppo veri della storia. Perché questo è il libro che più di tutti mi parla dell'orrore della Shoah in realtà senza parlarne mai, fermandosi prima. Forse proprio per questo: perché accorda il terribile senso della sparizione allo scorrere delle stagioni della vita.

Non c'è bisogno di anniversari per ritrovare un libro che merita, magari abbandonato da troppo tempo su uno scaffale.

lunedì 11 luglio 2011

Momò, Madama Rosa e i legami che si scelgono

Mi ha riacceso la sigaretta con l'accendino e mi ha detto che i figli delle puttane sono anche meglio perché ci si può scegliere il padre che si vuole, mica si é costretti

E dunque, è molte cose insieme, questo libro di Romain Gary, che tante persone in questi anni mi hanno consigliato, ma che io finora avevo lasciato a "stagionare" sulla mia pila delle letture che prima o poi, sarà che non volevo sciupare le attese.

Molte cose, come molti sono gli umori e i sentimenti che si mescolano nelle pagine di uno scrittore che a lungo ho colpevolmente trascurato. Però, tra tutte, direi questo: La vita davanti a sé è un libro sulle scelte, meglio ancora sui legami che si scelgono, sugli affetti che sono ancora più importanti perché non sono dovuti, ma tenacemente voluti e ancora più tenacemente alimentati.

Non conta né il nome né la religione, non conta il sangue.

Prendete Momò, il ragazzino arabo che non ha nemmeno la carta di identità, il bambino adulto abbandonato dai suoi genitori. Prendete Madame Rosa, l'ex puttana ebrea, scampata alla Shoah, che ha messo su una sorta di centro di accoglienza (si direbbe oggi) per i figli delle donne che "fanno la vita"...

Prendete queste due vite e piazzatele dentro il quartiere popolare di Bellevue, il quartiere degli immigrati, della gente ai margini di Parigi, il quartiere dove abbondano miseria e dolore, anni prima che un altro scrittore, Daniel Pennac, stenda su questo mondo una vernice di parole che ha molto a che vedere con la magia.

Prendete queste vite che non hanno nulla o quasi nulla in comune. E poi lasciatevi andare a questa storia di amore che forse nemmeno tra una madre naturale e suo figlio. Commuovetevi per questa storia che illumina con la sua tenerezza la vita sordida e marginale di Bellevue.

Eravamo tutto quello che avevamo al mondo e almeno questo l'avevamo salvato

Poi quello stesso riflettore muovetelo ai lati, dietro, davanti, fate emergere dalle righe altre storie, altre persone, come quella del dottor Katz, che era ben noto agli ebrei e agli arabi nei paraggi di rue Bisson per la sua carità cristiana e curava tutti quanti dalla mattina alla sera e anche più tardi.

E adoperate questa luce per commuovervi. Ma soprattutto per fantasticare sulla vita quale potrebbe essere. Se solo.

mercoledì 6 aprile 2011

Quando la bugia è un atto di amore

Si può raccontare l'orrore della persecuzione razziale con la dolcezza di una favola, capace di schiuderti il mondo tenero e fragile dell'infanzia?

Sì, se sei una scrittrice come Irene Dische. Sì, se hai l'umiltà di non tentare il capolavoro, il libro definitivo, perché non è di questo che c'è bisogno, perché a volte è più importante essere esili, allusivi, muoversi leggeri come un pattinatore sulla superficie del ghiaccio.

Come nelle Lettere del sabato, come con questo padre che non si stanca di ripetere: Sono nato con la camicia, figurarsi, lui ebreo che negli anni Trenta si trasferisce dall'Ungheria a Berlino, staccando così il suo biglietto per l'inferno.

E c'è Peter, il figlio, che prima lo segue, rimanendo affascinato dalla grande città, dai suoi cinema e dalle sue feste, e che poi viene mandato via, e chissà perché, chissà perché deve ritornare con il nonno, accontentarsi di questa Ungheria che è sbadiglio, che è provincia, che è distacco.

Però ci sono le lettere del babbo, che dice che tutto va bene, che a Berlino la grande vita prosegue, che un giorno anche lui potrà tornare.

Quando le bugie servono. Quando le bugie sono un atto di amore.

Quando c'è solo il desiderio di proteggere i bambini, di allontanare il loro sguardo dalle brutture del mondo.

Nell'uomo c'è, ci può essere anche questo desiderio: ed è un modo per riscattarci.

giovedì 3 febbraio 2011

Quel pezzo di Italia che emigrò in Palestina

Qui scrivo il mio nome da destra a sinistra, mentre in Italia ero Edoardo, scritto da sinistra a destra. Sono nato a Livorno...

Ecco, comincia così una delle tante testimonianze raccolte in Quest'anno a Gerusalemme (a cura di Angelo Pezzana, con un saggio di Vittorio Dan Segre, Giuntina editore), un libro che attraverso le storie personali fa emergere un pezzo di Storia con la esse maiuscola, poco noto e poco riconosciuto, almeno in Italia, eppure straordinariamente affascinante. Quello dei tanti ebrei italiani che nel Novecento abbandonarono il paese dove erano nati e dove erano nati i loro genitori e i genitori dei loro genitori per cominciare una nuova vita in Israele.

Furono diverse migliaia, soprattutto dopo le leggi razziali del fascismo e dopo i terribili anni della Shoah. Ci fu chi lasciò l'Italia per scelta e chi per necessità. Chi si sentiva tradito e chi non aveva più la forza di guardarsi indietro. Chi non aveva più niente con sè e chi soprattutto aveva voglia di ricominciare.

Tante storie confluite in un altro paese. Popolo migrante anche questo, che forse ha reso più povera l'Italia, privata di tante energie, di tante intelligenze, tante speranze. E che pure ha portato qualcosa dell'Italia in un nuovo paese, tutto da inventare e costruire, nelle sue immense difficoltà e talvolta nelle sue contraddizioni.

Questo libro racconta tutto questo e racconta anche il senso di un legame tra il prima e il dopo, tra il paese abbandonato e quello trovato, che le storie personali non hanno potuto recidere.

E questo si capisce ancora di più che in un saggio, semplicemente dando la parola al ricordo.

Uomini e donne che donano il senso di una vita intera. In case dove magari non si parla più italiano eppure si mangiano ancora lasagne e spaghetti e per i bambini c'è sempre una ninna nanna in una lingua sconosciuta. La lingua che era dei nonni.

giovedì 27 gennaio 2011

Con i versi del Canto del popolo ebraico massacrato


27 gennaio 2011 - Giornata della Memoria

Ahimè, non c'è più nessuno... c'era un popolo, e ora non c'è più....
c'era un popolo... e ora è scomparso!


Che storia. Cominciò nella Bibbia e durò fino a oggi... 
Una storia ben triste - chi dice che è bella?


Una storia che va da Amelek a uno peggiore di lui, al tedesco...
O lontano cielo, o vasta terra, o immensi mari, 


non complottate fra voi per annientare i malvagi della terra,
lasciate che si annientino da soli!
                                             
                                                   15-17 gennaio 1944

(Yitzhak  Katzenelson, Il canto del popolo ebraico massacrato, Giuntina)


sabato 8 gennaio 2011

Quell'eterna sconfitta della memoria

In che misura si può conoscere il passato di coloro che sono scomparsi nel nulla? Si possono leggere libri, parlare con chi c'era, studiare le fotografie, recarsi nei posti dove quelle persone vissero, i luoghi degli avvenimenti. Qualcuno può rivelare: avvenne quel tal giorno, mi sembra si sia incontrata con delle amiche, era bionda.
Ma inevitabilmente sono solo approssimazioni

Quanto mi ha colpito e coinvolto la lettura de Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn ve l'ho già detto. Si tratta di uno dei libri più intensi e appassionanti che abbia mai letto sulla memoria dello sterminio del popolo ebraico. Eppure è un libro che va oltre, immensamente oltre, l'orrore della Shoah, per diventare riflessione alta sul bene e sul male, sulla responsabilità, sulle possibilità stesse della memoria.

Eh sì, forse è proprio questo il punto centrale. La necessità di ricordare ogni singola vita - restituendo a essa qualsiasi ricordo di cui è legittima proprietaria - e in effetti anche l'impossibilità di ricordare effettivamente.
Voler restituire vita e nello stesso tempo esserne incapaci.

E mi sa che è proprio questa la memoria, nient'altro che questa tensione costante, ineludibile, necessaria tra il dovere e il potere. Questa responsabilità nei confronti di ogni vita - perché se non sono io a ricordarla, chi potrà farlo al mio posto? - e questa eterna sconfitta che andrò ogni volta a ricercare.

giovedì 30 dicembre 2010

Sulle tracce degli scomparsi nell'Europa dell'Est

Che cosa sia davvero, non importa: biografia o reportage, libro della memoria o libro di viaggio.

Non importa, non importa davvero, perché più che in altri casi al cospetto de Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn (Neri Pozza editore) sento davvero l'insufficienza e anche l'inutilità di ogni classificazione.

Non ne sento il bisogno. Per me, più semplicemente, questo è un libro necessario. Un libro in cui tuffarsi senza paura, senza pregiudizio. Senza farsi spaventare dalle sue dimensioni, dalle sue 722 pagine che un impegno senz'altro lo reclamano.

Con un libro così si inizia con una certa riluttanza - e con la cautela di chi parte per una maratona - ma poi non si ha più voglia di mollare, si arriva in fondo e quando ci si lascia l'ultima pagina ci si sente orfani di qualcosa di importante.

E dunque questa è la storia dello stesso autore - importante critico letterario americano di origine ebraica - che un giorno decide di saperne di più sulla sparizione di un ramo della famiglia completamente inghiottito dalla macchina dello sterminio nazista. Famigliari di cui ormai rimangono solo fotografie sbiadite, nomi riportati in qualche elenco, ricordi vaghi e compromessi dalle amnesie e dagli imbarazzi dei sopravvissuti.

Ma quello di cui si fa carico Mendelsohn non è solo un viaggio della memoria... è una vera e propria Odissea, un ritorno alle proprie radici, là dove le radici sono state brutalmente strappate, in quell'Europa dell'Est dove un intero popolo, con la sua lingua, le sue tradizioni, i suoi villaggi, è stato annientato e oggi è come non fosse mai esistito.

E' un libro straordinario, Gli scomparsi. Insieme tenero ed epico; coinvolgente - come un grande noir - e sconvolgente - perché ancora capace di raccontarci qualcosa di nuovo e terribile sugli orrori di cui l'uomo è capace.

Sono convinto che leggendolo rimetterete al giusto posto anche Le benevole di Jonathan Littel, grande libro, certo, ma che si sostiene con troppi "effetti speciali".

E poi c'è una frase che mi ha colpito, una più di tutte nelle 722 pagine di Mendelsohn, una frase che, nel mio piccolo, mi rammenta cosa anch'io ho provato a fare raccontando la storia della professoressa Enrica Calabresi in Un nome (un nome, appunto, a cui restituire qualche brandello di vita).

E' quando l'autore capisce che in ballo non c'è più solo la comprensione del quando, del dove, del come sono morti i suoi famigliari:

Mi resi conto di aver seguito la pista sbagliata - voler scoprire com'erano morti invece di come erano vissuti

E da queste righe, esattamente a pagina 217 - Gli scomparsi diventa assai di più di un libro sulla scomparsa. Diventa un libro sulla vita che altri uomini hanno voluto cancellare.

Un libro che consiglio di cuore, per comprendere esattamente di cosa si parla quando si parla di dovere della memoria.

mercoledì 14 aprile 2010

Quel giardino della nostalgia, a Ferrara


Sono passati dieci anni fa dalla morte di Giorgio Bassani - per la verità pensavo che ne fossero passati anche di più, che non si fosse spinto fin sul ciglio del nuovo secolo, del nuovo millennio - e per me Bassani è soprattutto quel libro, quel giardino, quella storia.

Quante cose che è stato per me Il giardino dei Finzi-Contini.

Ferrara prima del 1938, gli anni del fascismo più roboante e parolaio a cui ancora non è stato presentato il conto. Ubriacatura di proclami, slavina di promesse che non saranno mantenute. La quiete prima della tempesta, assai peggiore della quiete dopo la tempesta.

Quella casa della borghesia ebrea, quelle mura che sembrano preservare dalle offese del tempo e della storia. Le partite di tennis, le merende all'aria aperta, la musica che gonfia le vele delle emozioni. Come se tutto fosse allo stesso modo di sempre. Come se anche il futuro dovesse bussare alla porta con discrezione e rispetto.

La bella Micòl, imprendibile per il ragazzo taciturno e introverso, quasi un intruso. I capelli di rame che si sciolgono come un sogno di felicità. Il sorriso che nasconde parole non dette, più enigma che complicità. Il lampo di una possibilità che rimane tale e che accompagnerà tutta la vita che rimane davanti. L'occasione perduta che non si ripresenterà.

E poi il rimpianto di un amore che non c'è stato che si mescola ai fatti troppo veri della storia. Perché questo è il libro che più di tutti mi parla dell'orrore della Shoah in realtà senza parlarne mai, fermandosi prima. Forse proprio per questo: perché accorda il terribile senso della sparizione allo scorrere delle stagioni della vita.

E se i decennali e gli altri anniversari servono a qualcosa, è giusto per ritrovare un libro abbandonato da troppo tempo su uno scaffale.

mercoledì 24 marzo 2010

Il miracolo della poesia nella Shoah





Auschwitz, ho sentito che sei di moda.
Bella gente di te dice grandi cose.
Presto ti tappezzeranno tutta di fogli di carta,
vi sarà fruscio in te come su neve immacolata,
tutto sarà candido, eccetto i caratteri di stampa,
reggimenti con la mano alzata e il passo cadenzato.

(Meir Wieseltier)

E dunque, questo è un libro straordinario. Straordinario perché sono straordinarie le poesie che raccoglie, figlie di una tragedia che a rigore ammette solo il silenzio, il dolore muto, l'assenza di parola.

La notte tace, antologia di poesia ebraica della Shoah edita da Belforte, editori librai livornesi, non è una lettura facile, piuttosto è lettura che mette a nudo, scava dentro, riapre ferite che non si sono mai cicatrizzate.

Lettura che mescola sorpresa e sofferenza, anche. Lettura che spiazza in ogni caso, perché la memoria della Shoah sembrava potesse essere affidata solo alla testimonianza oppure alla preghiera. Perché c'è una domanda che precede ogni parola, una domanda che sfida il senso stesso di questi versi: come è possibile che la bellezza della poesia possa convivere con l'orrore di Auschwitz?

E' la poesia stessa - e se volete l'uomo nelle sue infinite possibilità, nel male ma anche nel bene - che in queste pagine ci offre la risposta. Scrive Sara Ferrari nell'introduzione: Persino nell'abisso infinito della Shoah l'uomo non abbandonò mai l'arte. Sappiamo che si cantava anche camminando verso la morte e di nascosto si scrivevano appunti, poesie.

E la poesia aiutò a non perdere la ragione, dette conforto, restituì dignità, preservò memoria. Senza addolcire, senza falsificare, perché c'è una poesia che non maschera, non imbelletta.

E può essere ancora di più la poesia, spiega David Meghagi. Può essere atto religioso, parola sacra che si fa azione, che è azione: Prendendo corpo a contatto col dolore più profondo, la parola restituisce all'anima la forza per illuminare il buio e ridare voce alla speranza.

Quando il buioè più fondo, abbiamo bisogno della luce delle parole, per quanto fragile e incerta sia.

giovedì 17 settembre 2009

Perché non sei venuta prima della guerra?




Là ha sofferto, ma anche qua, anche qua. Povero angelo, è ancora là, e non c'è dolore più grande di questo


Il qua - Israele dopo che tutto è successo - e il là - l'Europa dello sterminio a cui sei scampato ma che continuerà a perseguitarti fino all'ultimo istante di vita: è questa la prospettiva per singolare e anche un po' straniante che che ci regala Perché non sei venuta prima della guerra?, primo libro di Lizzie Doron a essere tradotto in Italia, grazie a una piccola grande casa editrice come la Giuntina.

Un libro che, mi pare, ha raccolto giudizi molto diversi da parte dei lettori di Anobii. Io sono tra coloro che si faranno ancora accompagnare a lungo da questo libriccino denso, stupefacente, poetico, straordinariamente evocativo.

Da tempo attendevo una voce così per parlare di quello che è stato, ma soprattutto per ascoltare il racconto della vita dopo che è stato quello che è stato, in realtà senza mai passare.

Lizzie Doron ci è riuscita parlando della mamma, dei suoi incubi, delle sue devastazioni e delle sue sue liturgie solitarie, delle sue ferite nell'anima, della sua incapacità di spiegarsi veramente o di vivere veramente nel presente.

Ne è venuto fuori, a mio parere, uno dei più forti racconti sulla Shoah, senza che la Shoah in effetti sia mai davvero raccontata o anche solo citata... da leggere, assolutamente.

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