
Ecco, comincia così, con queste parole che già spingono dentro i crimini del Novecento, la Piccola autobiografia di mio padre di Daniel Vogelmann, piccolo grande libro che è la storia di un secolo e di una famiglia, di una vita scampata ad Auschwitz e di una ferita che non si è mai rimarginata, di una casa editrice a cui in tanti vogliamo bene e di una speranza consegnata al futuro, malgrado tutto, perché ciò che è stato non deve avere l'ultima parola.
Quante cose davvero in queste poche pagine, scritte senza cercare effetti speciali, ma distillate attraverso la memoria e il sentimento. Non deve essere stato facile, la sfida è già tutta nel titolo, il figlio che presta la sua voce al padre, la prima persona attribuita a un altro che scardina la logica del memoir famigliare.
Tutta una vita, per quanto al figlio è stato dato di sapere. La Galizia orientale, terra scomparsa dalle mappe, con quella città che brucia all'inizio. Vienna, Trieste, coda di un impero alla fine, prima dell'inferno della Grande Guerra. Il trasferimento a Firenze, sulla scia del fratello rabbino, l'incontro con un'altra persona della comunità ebraica importante per la nostra editoria, Leo Samuel Olschki. Il lavoro di tipografo che un giorno, nel lager nazista, lo salverà, prima di entrare nella lista di Schindler. La morte della moglie Anna e della figlioletta Sissel nel campo di sterminio. Quel numero tatuato sul braccio. E poi il ritorno da sopravvissuto, l'immenso dolore dentro, la difficoltà di essere creduto, ma anche un figlio - Daniel - e i libri che tornano a essere stampati.
Ci sono immagini che non se ne vanno via, in questo libro: come la mela donata dal soldato tedesco. Ci sono frasi che sembrano scolpite sulla pietra: come quel Ho sempre amato la vita alla conclusione, malgrado tutto.
E malgrado tutto, un libro che sa di vita. Libro di memoria, certo, in cui, per quanto mi riguarda, ho ritrovato quel numero sull'avambraccio di cui tanto tempo fa mi parlava mio padre, giovane medico che a Shulim faceva gli esami del sangue: non conoscevo la sua storia, ma forse fu il mio primo contatto con la Shoah. Di memoria, ma anche di presente che guarda al futuro: una casa editrice che nasce e che come titolo propone La notte di Elie Wiesel; il figlio di Daniel che prende il nome di Shulim e che un giorno scriverà un libro. Il titolo? Mentre la città bruciava.
Cosicché tutto ritorna, nell'affetto e nel ricordo, persino le poesie per la sorellina mai conosciuta, la piccola Sissel.
E dunque, è molte cose insieme, questo libro di Romain Gary, che tante persone in questi anni mi hanno consigliato, ma che io finora avevo lasciato a "stagionare" sulla mia pila delle letture che prima o poi, sarà che non volevo sciupare le attese.
Molte cose, come molti sono gli umori e i sentimenti che si mescolano nelle pagine di uno scrittore che a lungo ho colpevolmente trascurato. Però, tra tutte, direi questo: La vita davanti a sé è un libro sulle scelte, meglio ancora sui legami che si scelgono, sugli affetti che sono ancora più importanti perché non sono dovuti, ma tenacemente voluti e ancora più tenacemente alimentati.
Non conta né il nome né la religione, non conta il sangue.
Prendete Momò, il ragazzino arabo che non ha nemmeno la carta di identità, il bambino adulto abbandonato dai suoi genitori. Prendete Madame Rosa, l'ex puttana ebrea, scampata alla Shoah, che ha messo su una sorta di centro di accoglienza (si direbbe oggi) per i figli delle donne che "fanno la vita"...
Prendete queste due vite e piazzatele dentro il quartiere popolare di Bellevue, il quartiere degli immigrati, della gente ai margini di Parigi, il quartiere dove abbondano miseria e dolore, anni prima che un altro scrittore, Daniel Pennac, stenda su questo mondo una vernice di parole che ha molto a che vedere con la magia.
Prendete queste vite che non hanno nulla o quasi nulla in comune. E poi lasciatevi andare a questa storia di amore che forse nemmeno tra una madre naturale e suo figlio. Commuovetevi per questa storia che illumina con la sua tenerezza la vita sordida e marginale di Bellevue.
Eravamo tutto quello che avevamo al mondo e almeno questo l'avevamo salvato
Poi quello stesso riflettore muovetelo ai lati, dietro, davanti, fate emergere dalle righe altre storie, altre persone, come quella del dottor Katz, che era ben noto agli ebrei e agli arabi nei paraggi di rue Bisson per la sua carità cristiana e curava tutti quanti dalla mattina alla sera e anche più tardi.
E adoperate questa luce per commuovervi. Ma soprattutto per fantasticare sulla vita quale potrebbe essere. Se solo.