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martedì 7 aprile 2020

Le lacrime che fanno davvero grandi gli eroi

Sul promontorio piangeva, seduto, là dove sempre 
con lacrime, gemiti e pene straziandosi il cuore,
al mare mai stanco guardava, lasciando scorrere lacrime.

Ecco, è così che entra in scena. Non mentre abbandona Troia vinta e saccheggiata, non mentre sfida il canto delle Sirene oppure trova il modo di sfuggire a Polifemo. Dopo aver narrato le vicende di Itaca e altri luoghi, Omero gli si avvicina e lo coglie così: un uomo che guarda il mare e piange, sospirando il ritorno per cui è disposto a rinunciare all'immortalità.

E' con questa immagine che si apre Le lacrime degli eroi di Matteo Nucci (Einaudi), libro affascinante, per certi versi spiazzante, a cui sono tornato più volte. Mi sembra una lettura particolarmente adatta in tempi come questi, in cui l'inquietudine morde ma spesso non ci lascia sfogo. 

Comincia con Ulisse, questo libro, ma abbraccia tutto l'antico mondo degli eroi. Di loro conosciamo le imprese, li abbiamo seguiti nei loro combattimenti e nelle loro vendette, non riusciamo a immaginarceli senza le loro armi: sono tali per il coraggio, la fermezza, lo sprezzo del pericolo. Eppure - e di questo riusciamo a essere meno consapevoli - piangono, piangono molto.

Sono inzuppati di lacrime, i versi che gli sono stati dedicati. Lacrime di dolore e rabbia, di amore e nostalgia, ma in ogni caso lacrime.

Persino di Achille, dell'eroe dalla cui ira funesta discende un intero poema, ricordiamo più volentieri le lacrime sul corpo di Patroclo, oppure le lacrime al cospetto di Priamo, il re nemico che ormai è solo un anziano che piange i figli persi.

Lacrime e a volte - incredibile - persino il desiderio del pianto: desiderio nobile, debolezza che non sminuisce ma rende ancora più grandi. Desiderio che Matteo Nucci trasforma in un viaggio attraverso le storie e i sentimenti. Parlando al nostro tempo, alla nostra mortalità, a ciò che siamo e possiamo essere.

mercoledì 20 novembre 2019

I tanti " si dice" della morte di Penelope

Mi chiedo, a volte: dopo vent'anni, lo ama ancora? E' possibile? O si sacrifica per proteggere il figlio, per impedire che gli sottraggano il potere, il dominio dell'isola, l'eredità del padre?

Ecco quello che non si è mai studiato sui banchi di scuola e che nemmeno ci siamo mai domandati, tanto era intensa e convincente la poesia di Omero, col suo happy end millenni prima di Hollywood, Ulisse che torna e si sbarazza dei pretendenti prima del riconoscimento finale tra marito e moglie, prima dell'abbraccio, delle lacrime, della notte di amore turbata solo dal rimpianto per il tanto tempo sciupato.

Però mi sa che nei panni di Penelope non ci si sia mai messi. Pensare che già in quel passaggio del riconoscimento c'è qualcosa che non torna, su cui peraltro si sono magnificamente cimentate la fantasia e la penna di un grande scrittore italiano (Luigi Malerba in Itaca per sempre). Cosa è davvero successo? Siamo davvero convinti che accanto al finale che diamo per scontato non ce ne siano altri possibili o verosimili?

La morte di Penelope di Maria Grazia Ciani (Marisilio) è un piccolo, denso, affascinante libro che entra nei silenzi di Penelope per raccontare un'altra storia. Adopera un punto di vista diverso: quello di Penelope appunto. Riscrive il finale dell'Odissea ma senza inventarsi tutto di sana pianta, semmai inoltrandosi nelle zone scure di una storia che abbonda di "si dice", versioni alternative che già nell'antichità sono state fatte proprie da commentatori e mitografi. 

Si dice, per esempio, che Penelope, la moglie fedele per antonomasia, fosse stata sedotta da uno dei Proci. Si dice che proprio per questo Ulisse la ripudiò o addirittura la uccise. Penelope, tra l'altro, cuigina di Elena di Troia, andata in sposa a Ulisse che però era stato uno dei primi pretendenti di Elena, per l'appunto...

Contro l'impenetrabile sposa di Ulisse - spiega nella postfazione l'autrice - i Greci hanno giocato a modo loro, fantasiosi, cinici, bugiardi e detrattori quali erano per indole

E per sapere cosa sia successo, o forse cosa avrebbe potuto succedere, il consiglio è di arrivare alle ultime pagine di questo piccolo grande libro.

 

venerdì 6 novembre 2015

L'uomo che leggendo l'Iliade scoprì Troia

Chissà se avrò mai il coraggio di tornare a leggere le pagine in cui raccontò la sua vita straordinaria, l'impresa con cui strappò la verità al mito. Temo di no, ed è meglio così, perché me lo voglio tenere come è, quel ricordo del bambino qual ero, che non sognava di diventare aviatore o pompiere, ma archeologo. E non un archeologo qualsiasi, ma Heinrich Schliemann.

Qualcuno se ne ricorda ancora? Schliemann, l'uomo che restituiva luce alle città sepolte. L'uomo che dimostrò al mondo che Troia non era il sogno di un poeta cieco.

Schliemann nella vita cominciò come garzone di bottega, figlio di un pastore protestante. Era poco più di un bambino, quando gli regalarono un libro di storia con un'illustrazione di Troia in fiamme. Su quella pagina gli esplose qualcosa.

Anni dopo fu costretto ad abbandonare gli studi, ma una sera gli capitò di sentire un ubriaco che recitava alcuni versi in greco antico. Continuò a pagargli da bere, purché lui continuasse. Solo più tardi seppe che era l'Iliade. Decise di imparare il greco. Ma soprattutto decise che Troia non era solo un sogno. Non era una leggenda. E se era esistita, Troia, lui l'avrebbe ritrovata.

Follia sembrava, ma gli anni passarono e lui lavorò duro. Si imbarcò su navi che solcavano gli oceani, fece il fattorino, imparò molte lingue, si dette al commercio, finì per arricchirsi.

Alla fine arrivò il momento in cui potè dedicarsi del tutto al suo sogno. Si lasciò guidare dai versi di Omero, nemmeno fosse una mappa del tesoro. E la trovò. Trovò la città che per tutti era solo leggenda.

Restituì luce. Restituì verità.

giovedì 23 agosto 2012

E se sono stati gli islandesi a inventare il romanzo?

 Diceva il grande Jorge Luis Borges, che era argentino e con l'Islanda apparentemente non c'entrava nulla:

A partire dal dodicesimo secolo gli islandesi scoprono il romanzo, l'arte di Cervantes e di Flaubert, senza che il resto del mondo se ne accorga

Solo apparentemente non c'entava nulla, è ovvio: perché a qualsiasi lingua appartengono i libri alla fin fine si ritrovano tutti nella stessa biblioteca, una biblioteca universale che non può non essere di tutti. Però è vero, questa cosa dell'Islanda si conosce poco.

Nemmeno io ho mai letto le saghe, e sì che anche in Italia ormai sono disponibili in diverse buone traduzioni. Sarà che le ho sempre classificate come una lettura da addetti ai lavori o da adepti di un folclore nordico che alla fine stanca. Con tutta la simpatia per i vichinghi e per le loro straordinarie navi con cui sfidavano i mari più gelidi.

Però che fascino, queste saghe, parola che di per se stessa fa vibrare sensazioni di lontananza, ma pure di intimità, come a evocare sere di neve e vento e racconti condivisi intorno a un fuoco.

Saga, in lingua norrena (l'antica lingua dei popoli della Scandinavia), significa proprio racconti. Da qualche parte ho letto che l'origine della parola richiamerebbe la figura di una dea misteriosa, della stessa stirpe di Odino e Thor, definita come "colei che vede".

Credo che mai o quasi mai si conoscano gli autori delle saghe. Molte notti, molte veglie, molte versioni passarono prima che qualcuno trovasse il modo di metterle per scritto. Ho letto anche che nell'islandese di oggi la parola "autore" richiama un'altra parola che significa "chi inizia una storia".

In fondo come per quell'altra "saga", che parlava di una guerra sotto le mura di Troia, solo che invece dei ghiacci e i vulcani di Islanda c'erano i lidi del Mediterraneo. I versi di Omero come le saghe dell'Islanda.

Vedere, raccontare, iniziare.

Appena posso me le vado a comprare le saghe, me le porto a casa per regalarmi un sogno del Nord.

domenica 23 ottobre 2011

Adriano Sofri, Gheddafi e lo scempio di Ettore

Non era Ettore caduto davanti le mura di Troia, sotto i colpi di Achille, e scempiato dagli altri Achei. E' tutt'altra storia, altra epoca, altra umanità. Ma sull'epilogo di Gheddafi, il raìs di Libia, c'è quel qualcosa di tremendamente antico che Adriano Sofri, sulla Repubblica di ieri, ha raccontato splendidamente. Questa non è sola storia del dittatore che con la sua brutalità chiama su di sé altra brutalità. C'è qualcosa che forse solo i greci, con le loro tragedie, hanno saputo portare alla luce, dalle zone più tenebrose del nostro essere uomini.

Gli dei e gli eroi se ne sono andati da tempo, coprendosi il viso, ma la scena è ancora quella. Gli umani sono ancora feroci e fanatici come nell'Iliade, come nella Bibbia. Sono antichi quanto e più di allora, ma hanno i telefonini. 

A distanza di minuti, avreste visto sul vostro schermo Ettore atterrato, e i vigliacchi trafiggerne e insultarne il cadavere, e Achille bucarne i calcagni e attaccarlo al suo pick-up. 

L'uomo è rimasto antiquato, o è pronto a ridiventarlo: e meraviglioso e tremendo è il corto circuito fra la sua antichità e i droni che gli volano sulla testa e colpiscono con esattezza e buttano in un tubo da topo il cacciatore mutato in preda e glielo mandano in mano, mani di prestidigitatori di kalashnikov e telefonini.


(Adriano Sofri: Kalashnikov e telefonini, lo scempio del branco)

giovedì 14 aprile 2011

L'uomo che scoprì Troia grazie a un ubriaco

Chissà se avrò mai il coraggio di tornare a leggere le pagine in cui raccontò la sua vita straordinaria, l'impresa con cui strappò la verità al mito. Temo di no, ed è meglio così, perché me lo voglio tenere come è, quel ricordo del bambino qual ero, che non sognava di diventare aviatore o pompiere, ma archeologo. E non un archeologo qualsiasi, ma Heinrich Schliemann.

Qualcuno se ne ricorda ancora? Schliemann, l'uomo che restituiva luce alle città sepolte. L'uomo che dimostrò al mondo che Troia non era il sogno di un poeta cieco.

Schliemann nella vita cominciò come garzone di bottega, figlio di un pastore protestante. Era poco più di un bambino, quando gli regalarono un libro di storia con un'illustrazione di Troia in fiamme. Su quella pagina gli esplose qualcosa.

Anni dopo fu costretto ad abbandonare gli studi, ma una sera gli capitò di sentire un ubriaco che recitava alcuni versi in greco antico. Continuò a pagargli da bere, purché lui continuasse. Solo più tardi seppe che era l'Iliade. Decise di imparare il greco. Ma soprattutto decise che Troia non era solo un sogno. Non era una leggenda. E se era esistita, Troia, lui l'avrebbe ritrovata.


Follia sembrava, ma gli anni passarono e lui lavorò duro. Si imbarcò su navi che solcavano gli oceani, fece il fattorino, imparò molte lingue, si dette al commercio, finì per arricchirsi.



Alla fine arrivò il momento in cui potè dedicarsi del tutto al suo sogno. Si lasciò guidare dai versi di Omero, nemmeno fosse una mappa del tesoro. E la trovò. Trovò la città che per tutti era solo leggenda.

Restituì luce. Restituì verità.

martedì 4 gennaio 2011

Tra il fuoco e il ghiaccio, le saghe di Islanda

 Diceva il grande Jorge Luis Borges, che era argentino e con l'Islanda apparentemente non c'entrava nulla:

A partire dal dodicesimo secolo gli islandesi scoprono il romanzo, l'arte di Cervantes e di Flaubert, senza che il resto del mondo se ne accorga

Solo apparentemente non c'entava nulla, è ovvio: perché a qualsiasi lingua appartengono i libri alla fin fine si ritrovano tutti nella stessa biblioteca, una biblioteca universale che non può non essere di tutti. Però è vero, questa cosa dell'Islanda si conosce poco.

Nemmeno io ho mai letto le saghe, e sì che anche in Italia ormai sono disponibili in diverse buone traduzioni. Sarà che le ho sempre classificate come una lettura da addetti ai lavori o da adepti di un folclore nordico che alla fine stanca. Con tutta la simpatia per i vichinghi e per le loro straordinarie navi con cui sfidavano i mari più gelidi.

Però che fascino, queste saghe, parola che di per se stessa fa vibrare sensazioni di lontananza, ma pure di intimità, come a evocare sere di neve e vento e racconti condivisi intorno a un fuoco.

Saga, in lingua norrena (l'antica lingua dei popoli della Scandinavia), significa proprio racconti. Da qualche parte ho letto che l'origine della parola richiamerebbe la figura di una dea misteriosa, della stessa stirpe di Odino e Thor, definita come "colei che vede".

Credo che mai o quasi mai si conoscano gli autori delle saghe. Molte notti, molte veglie, molte versioni passarono prima che qualcuno trovasse il modo di metterle per scritto. Ho letto anche che nell'islandese di oggi la parola "autore" richiama un'altra parola che significa "chi inizia una storia".

In fondo come per quell'altra "saga", che parlava di una guerra sotto le mura di Troia, solo che invece dei ghiacci e i vulcani di Islanda c'erano i lidi del Mediterraneo. I versi di Omero come le saghe dell'Islanda.

Vedere, raccontare, iniziare.

Appena posso me le vado a comprare le saghe, me le porto a casa per regalarmi un sogno del Nord.

venerdì 23 luglio 2010

Omero, il poeta cieco che è in noi

Lo diceva Victor Hugo:
Il mondo nasce, Omero canta. È l’uccello di questa aurora

Omero, dunque. O meglio, l’uomo che abbiamo imparato a chiamare Omero. L’antico greco che ci ha regalato i poemi con cui inizia la storia della nostra letteratura e forse della nostra bellezza. Il poeta cieco, che non aveva occhi per guardare, ma che proprio per questo sapeva guardare più lontano di chiunque altro e staccare dal suo silenzio parole che risuonavano a lungo nel cuore degli uomini.

Tutto questo è Omero: la grandezza dei versi dell’Iliade e dell’Odissea e, nel ricordo di molti di noi, il busto di un anziano dall’espressione saggia e solenne, e poi magari le traduzioni e gli studi dei tempi di scuola.

Penso spesso a lui, credo che si sia in diversi a farlo. Eppure, cosa si sa davvero di Omero?

Già nell’antichità si erano moltiplicate le biografie, le vite immaginarie, le leggende. E già allora non si contavano le città che si contendevano il vanto di avergli dato i natali, da Atene a Rodi, da Argo a Chio e Smirne. Città, per inciso, quasi tutte dell’Asia Minore, tanto per destarci il sospetto che la nostra poesia in effetti sia arrivata da lontano, dall’Oriente.

Qualcuno assicurava che Omero era nato pochi anni dopo la guerra di Troia, altri che era nato parecchio dopo. Anche sul significato del suo nome ci si accapigliava: discendeva da una parola con cui i greci si riferivano ai non vedenti o dalla parola che indicava, più misteriosamente, un ostaggio?

Ce n’è voluta per iniziare a convincersi che forse Omero non è mai esistito. Anzi, che non è mai esistito perché in realtà di Omero ce ne sono stati centinaia, migliaia.

Infiniti Omero prima di Omero che hanno raccontato di Achille e di Ettore, del re Agamennone e dell’astuto Ulisse. Infiniti poeti che hanno cantato nelle feste e nei banchetti, hanno improvvisato versi che poi sono passati di bocca in bocca, hanno tramandato la memoria delle gesta, delle imprese e delle miserie dei loro eroi.

Così la più grande poesia della nostra letteratura è nata dalla parola leggera, imprendibile, evanescente di tanti poeti senza volto e senza nome.

Ed è bello pensare a tutto questo e poi pensare ai nostri nonni e ai nostri bisnonni, alla nostra Toscana contadina dove si passava le sera a veglia alzandosi in piedi per una rima, per un’ottava improvvisata da chi non sapeva né leggere né scrivere. Credo che sia per questo che qualche tempo fa mi è venuto di scrivere Beatrice: un modo per provare a saldare qualche debito di gratitudine.

È bello pensare a tutto questo, perché permette a ognuno di noi di ritrovare il dono della parola. Perché aiuta ognuno di noi a sentirsi un po’ Omero.

Pensate, ognuno di noi come il grande poeta cieco.

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