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domenica 8 aprile 2018

C'è futuro, oltre la melanconia del mangiare contemporaneo

Dice Marco che c'è stato un tempo in cui l'Arno si attraversava con il traghetto di Manisudicie, detto anche Caronte o Navichiere, e che prima di andar dall'altra parte c'era modo di fermarsi a bottega da lui per farsi i pesciolini fritti pescati in quella stessa acqua.

Dice Marco che in Italia - e per la verità non solo in Italia, ma in Italia forse peggio che altrove - è successo qualcosa di importante, solo che non ce ne siamo accorti: un'intera civiltà inghiottita in nemmeno 20 anni e un presente che ci ha lasciato con la terra diventata inutile e la tavola che non dà più piacere.

Dice Marco che vuole raccontare una storia che è la melanconia del mangiare contemporaneo, perché è vero che di cose ne sono successe tante e che la peggiore non è nemmeno quella di aver smarrito il senso del passato, vuoi mettere avere perso per strada il futuro, però con tutto questo che disastro quest'epoca di cibo industriale, frettoloso, senza stagione e senza sapore, anonimo e senz'anima.

Dice Marco che con questo abbiamo sacrificato molto altro, per esempio le radici che un tempo la gente aveva nei posti e il modo di stare insieme, per esempio a una festa comandata, quando a scialare in abbondanza era proprio chi gli altri giorni aveva meno. E che abbiamo sacrificato questo e altro quasi felici, un po' come chi taglia il ramo su cui è seduto.

Dice Marco di non farsi ingannare da un mondo che in effetti sembra andare in altra direzione, con tutti i suoi cuochi stellati, le degustazioni spettacolo, le ricette che dilagano in tv e i vini laureati come una tesi da 110 e lode. Perché poi quelle che ci mancano sono i vinelli spillati e generosi, le polpette col lesso rifatto come le faceva la zia o la nonna, l'insalata colta nel campo e le due cose cucinate lì per lì, in amicizia, giusto il tempo per apparecchiare.

Marco - che non conosco, ma che mi vien da chiamare così: Marco - è Marco Noferi, quasi laureato in filosofia e da molto anni alle prese con il vino e con l'olio in un pezzo di Toscana meno scenografico e meno turistico di altri, ma per questo più schietto e consigliabile. La sua conoscenza l'ho fatta l'altra giorno in treno - il lungo viaggio che faccio sempre per presentare libri in Puglia, perché mai sacrificherei alla rapidità dell'aereo la vista dell'Adriatico, con le sue acque che quasi accarezzano il binario. Il mare e il suo libro: Amore mio, non piangere (Aska edizioni). Con un sottotitolo che è già una chiave di lettura: La melanconia del mangiare contemporaneo, appunto.

L'ho cominciato quasi distrattamente, senza molte aspettative: giusto per il consiglio di un editore comune. Poche pagine mi sono bastate per sentirmi a mio agio come al pub che da 20 anni e passa è quello degli amici. Con questa scrittura che non è del saggista, ma piuttosto del poeta. O almeno il poeta cose siamo portati a considerare tale in Toscana, da Beatrice di Pian degli Ontani a Roberto Benigni, poeta di cose semplice e inoppugnabili, poeta di voli lirici che non lasciano a terra il corpo, di cieli incollati alla terra, di frasi che non girano intorno, per reverenza e ipocrisia.

 Solo che poi qui dentro ci sono anche il Pasolini delle lucciole e il Veronelli del bere schietto, per non dire di Carlo Petrini e di Vandana Shiva, oppure di alcuni grandi di un passato, recente ma troppo passato, in cui l'intellettuale provava a ridare le carte - sì, ci sono persino Primo Moroni e Guy Debord.

Ricordi, sapori, incontri, lampi di pensieri, battute, citazioni: un libro che mescola i tempi e i luoghi, che smarrisce il filo come si fa mescolando parole e chiacchiere con gli amici, che lo ritrova sempre perché è al cuore che si punta.

E alla fine non so se invidiare Marco - per le scorribande con Manuel Vasquez Montalbàn, il grande catalano, per le frittelle dell'Assuntina, per il suo vinello capace di regalare poesia civile. O piuttosto per la sua capacità di riaprire un varco nel tempo, di recuperare vita dopo che siamo morti per troppa andata senza ritorno.

Non so se invidiarlo oppure aspettarlo a piedi dritti e gola secca a una qualche sua presentazione, per ragionare di vini e di possibilità.

martedì 6 marzo 2018

L'aria ride nelle parole di Marino Magliani

Sto leggendo questo libro. In realtà ho iniziato a leggerlo lo scorso anno a giugno che mi trovavo a Firenze e ho scoperto, non lontano dal mio albergo e dal Duomo, una biblioteca con caffè e il giardino, e negli scaffali il carteggio tra Sibilla e Dino.

Lettere stupende, telefonavo a una cara persona gliene parlavo, ne discutevamo, e tornavo a leggere. Mi incuriosiva di questo legame di cui sapevo poco il peso che i due amanti dovevano sentire, una specie di senso di colpa perché in comune avevano un buon amico: Giovanni Boine.

Lei l'aveva avuto come amante e ne era uscita abbastanza bruciata, un amore breve ma intenso, una pausa in mezzo all'amore per Cascella. Dino Campana doveva invece a Boine la prima vera e immensa recensione apparsa su La Riviera Ligure, quella stupenda rivista curata allora da Mario Novaro e che esce ancora, grazie a Maria Novaro e dalla Fondazione Mario Novaro Onlus. E in un mondo in cui si perdevano i manoscritti di Campana e lo si prendeva poco sul serio, Boine aveva saputo intuirne il genio.

Ora, nel 1916, Boine era prossimo alla fine, malato a fondo, giovane, disperato. E disperato dovevano esserlo anche loro, Campana e Sibilla. Le ultime lettere di Dino sono dal manicomio, lei non gli risponde più. Ricordo bene che leggendo, non mi sentivo di giudicarla, peraltro non giudico in questi casi, ne ho abbastanza dei miei di casi.

Ma lui non era riuscito a contenere le sue furie e non doveva essere stato facile per lei. La sera, dopo un pomeriggio di letture, raggiunsi Paolo Ciampi alla libreria On the road. Non credo che parlammo di quel carteggio e di quell'amore o forse sì. Ma ora mi ritrovo a leggere L'ARIA RIDE (Aska edizioni), e torno in quel caffè, e passeggio per boschi e attraverso torrenti e tocco il muschio e i licheni che hanno toccato loro, Sibilla e Dino, durante quelle loro passeggiate.

E lo raccomando a tutti, è bello, questo libro, pieno di luce e verdura e rumori di frasca e acqua e poesia e baci. E poi, consentitemi, è così bello pensare che non sia stato Dino a raggiungere Sibilla ma dopo averle appunto assicurato che viaggiava lui, ha cambiato idea e ha chiesto a lei di raggiungerlo.

Hai capito, Dino?

Marino Magliani

giovedì 11 agosto 2016

In viaggio con Tito, a caccia di ombre

Racconta Luis Sepùlveda in Patagonia Express:

Iniziai a camminare nel parco, poi per le strade deserte, e all'improvviso mi accorsi che l'eco dei miei passi si moltiplicava. Non ero solo. Non sarei stato solo mai più. Coloane mi aveva passato i suoi fantasmi, i suoi personaggi, gli indio e gli emigranti di tutte le latitudini che abitano la Patagonia e la Terra del Fuoco, i suoi marinai e i suoi vagabondi di mare.

L'avevo già incontrata, questa frase, però sono contento che Tito Barbini l'abbia scelta come epigrafe de Il cacciatore di ombre, che dopo esser uscito per Vallecchi, viene riproposto ora da Aska.

Soprattutto libro che non ci sarebbe mai stato senza la scoperta dell'autore di non essere più solo. Aveva per compagno di viaggio un uomo che solo per l'anagrafe non c'era più, Don Patagonia, straordinaria figura di missionario ed esploratore.

Da scoperte così, ne sono convinto, devono essere segnati i nostri viaggi. Per dire, come fate a percorrere ciò che rimane del Vallo di Adriano, nel nord dell'Inghilterra, senza avvertire alle vostre spalle i passi dell'imperatore e dei suoi centurioni? Come fate a incamminarvi per la Via Francigena senza lasciarvi accompagnare dalle ombre dei suoi pellegrini?

Non siamo mai soli, nei nostri viaggi. Non lo dobbiamo essere. Coltiviamo la compagnia che ci arriva da altri tempi. Altre profondità regalano ai nostri viaggi.

mercoledì 13 gennaio 2016

Tito Barbini e quel bufalo che scarta di lato

Ricordate Buffalo Bill di Francesco De Gregori? Quella differenza che salta agli occhi tra un bufalo e una locomotiva?  Un treno va dritto, sulla strada tracciata dai binari, dritto fino alla stazione successiva, male che vada può accumulare ritardi. Un bufalo, no, non ha strade segnate: può diventare preda di un cacciatore, cadere sotto i suoi colpi, ma intorno a sè ha la prateria e può sempre scartare di lato.

Ecco, è da questa canzone - ma soprattutto dalla consapevolezza di essere partito come treno per poi farsi bufalo che scarta di lato - che comincia Quell'idea che ci era sembrata così bella, ultimo libro di Tito Barbini (Aska edizioni), il più intenso, il più sofferto: libro di viaggio anche questo - non saggio o autobiografia - ma viaggio nel tempo, viaggio nella storia che è quella di Tito e insieme quella dei tanti che generazione dopo generazione si sono spesi generosamente per un'idea che prometteva giustizia, eguaglianza, libertà.

Questa è la mia storia, afferma con orgoglio Tito, nella prima pagina. Lo avevamo lasciato con le sue  narrazioni di pirati, missionari, anarchici, sognatori negli ultimi lembi dell'America Latina e ora lo ritroviamo alle prese con una trama di vita che annoda i suoi fili nella Toscana dove, ai tempi, non era davvero difficile innamorarsi del comunismo. Quindi, se si possedevano voglia e stoffa, succedeva di percorrere le varie tappe della militanza e dell'impegno amministrativo. La storia di Tito, insomma, la strada segnata.

Lui poi un giorno, come il bufalo, ha scartato di lato. Ed è grazie a quello scarto se si è messo a viaggiare e da quei viaggi sono nati libri belli e importanti. Le nuvole non chiedono permesso fu il primo, titolo splendido, titolo che in fondo racchiude il destino di Tito, uomo che con il suo bagaglio leggero si è fatto anche nuvola che attraversa i confini.

Chi lo conosce, chi conosce i suoi libri, sa bene che viaggiare non ha mai significato liquidare una volta per tutte la passione della politica. Casomai a quella passione il viaggio ha portato in dono nuova linfa, uno sguardo più profondo, la forza dell'incontro, il senso di un cambiamento della realtà delle cose che non può prescindere dal cambiamento interiore.

Quell'idea per cui si era tanto speso e che la Storia ha avuto molto fretta di liquidare Tito in qualche modo lo ha ritrovata proprio per il mondo: magari sotto altri nomi e bandiere, con parabole che hanno portato molto lontano, in un gioco di scomposizioni, rimandi, contaminazioni che non sono la fine di una storia, semmai un'altra storia.

Ed è anche vero che a quell'idea Tito ha già dedicato molte pagine di altri libri. Uno scritto anche insieme a me, il più esplicito rispetto al sentimento della sconfitta, Caduti dal Muro: un lungo emozionante viaggio nei paesi dove il socialismo reale ha lasciato le sue macerie. Però penso anche alle Rughe di Cortona, un libro di singolare bellezza, il racconto di un viaggio che è tutto un ritorno.

Ma questo libro ora è tutt'altra cosa: quell'idea Tito non l'affronta dopo che da buon bufalo ha scartato di lato. Questo è un viaggio per intero, un viaggio che parte da dove di deve partire. Come quando si scende un fiume e lo si fa dalle sue sorgenti. In questo caso una cittadina toscana, una famiglia comunista, un bambino con i suoi sogni.

Ne avrà di strada davanti a sè, quel fiume, prima di incontrare il mare. Prima di donare le sue acque al mondo.


La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...