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giovedì 30 marzo 2017

Oltre i confini, il trenino a molla che si chiama cuore

Prendete prima di tutto le Marche - che sono plurali e femminili, e sono state raccontate solo per una piccola parte. O piuttosto prendete un posto che pochi di noi saprebbero localizzare sulla carta geografica - la Val di Chienti, terra appartata ma anche terra di confine e quindi di passaggio, come in effetti lo sono, fin dal nome, le Marche. E poi prendete una donna per cui questo posto non è un altrove indeterminato, un sogno di qualche futuro, ma un luogo del cuore che è radici, passato, promessa di ritorno.

Ecco, partirei da questi ingredienti per suggerirvi Questo trenino a molla che si chiama il cuore di Loredana Lipperini, donna dei libri che questa volta mette se stessa dentro un libro. Da questi ingredienti, perché poi non è facile dirvi che cos'è che viene fuori - se un racconto di viaggio, un memoir, un saggio sul passato e sul presente o altro ancora: ed è il bello di questo libro come della collana in cui questo libro trova posto, la Contromano di Laterza.

Meglio forse sarebbe tentare una lista di ciò che mi ha incuriosito e colpito, così, alla rinfusa: come si fa magari con i vecchi giocattoli che un giorno ritrovate in soffitta. Dal Guerin Meschino al Museo delle Cose, tanto per dire. E a lungo potrei dilungarmi.

Invece provo a tirare una riga e vi dico che questo libro del ritorno, questo libro dei legami con una terra che è come la casa di famiglia, è prima di tutto un libro sui confini.

E non solo perché la Val di Chienti è un serpente che si snoda da una regione all'altra senza dar segno di cambiamento, tanto che si dice che il tetto di una casa lasci cadere la terra piovana in terra umbra da una parte e in terra picena dall'altra.  Fossero così semplici, i confini.

C'è anche il confine che separa i tempi di una terra che, soprattutto dopo il terremoto, sta cambiando troppo rapidamente - e vai a sapere se il gioco valga davvero la candela. C'è il confine tra il prima e il dopo nella vita di chi scrive. E c'è il confine che a volte traccia una distanza tra chi scrive, appunto, e la sua opera. Magari consegnata al mondo con un altro nome.

Non faceva così anche il grande Fernando Pessoa, con i suoi eteronimi? Ecco i suoi versi, che si fanno titolo:

E così sui binari in tondo
gira, per intrattenere la ragione,
questo trenino a molla
che si chiama cuore

Il cuore: che poi, tra tanti confini, è ciò che sa sempre andare al di là. E scoprirne le ragioni. 




sabato 18 giugno 2016

Metti una domenica mattina, bici e cantine in Toscana

Allora prendo la bici ed esco.

Ecco, fa proprio così e lo fa molte volte Emiliano Gucci, scrittore e libraio che è nato a Firenze, lavora a Prato e che tra Firenze e Prato abita. Ci sono viaggi che portano lontano per chilometri e chilometri, ci sono viaggi che non ti allontanano troppo da casa - anche se pedalando si fanno sentire, come no, sulle gambe - e che pure consentono di scoprire mondi.

E' quanto Emiliano ci dimostra con le pagine di Sui pedali tra i filari. Da Prato al Chianti e ritorno, pubblicato nella collana Contromano di Laterza. Quante cose ci ha infilato dentro, a partire dalle due passioni che lo accompagnano e che tra loro si accompagnano anche piuttosto bene, soprattutto se sei nato in Toscana: le scorribande su due ruote e le visite alle cantine del buon vino.

Ma, soprattutto se vivi in Toscana, appunto, bici e vino sono la chiave per entrare dentro i territori, per incontrare le persone e le loro storie, per fare i conti con miti e leggende varie.

E allora ecco le colline del Montalbano e del Chianti, le strade e i vigneti di Carmignano o di Radda, ma anche i capolavori di Leonardo da Vinci e  del Pontormo, le memorie dei grandi toscani del ciclismo come Bartali, Nencini o Bitossi. Ecco una bicchierata ma ecco anche la polvere e il sapore di impresa nella giornata dell'Eroica. Ecco le parole che affiorano dalle letture dei grandi toscani della penna, da Curzio Malaparte a Indro Montanelli.

Passato e presente, muscoli e parole, fiaschi e pedali. Quante cose, davvero, anche solo saltando sulla bici la domenica mattina perché ci si vuole bene davvero e allora si parte e si tiene gli occhi bene aperti e vai a sapere cosa si riporta a casa.

sabato 12 luglio 2014

In cammino con Simona Baldanzi, per abitare davvero i nostri luoghi

Racconta un viaggio a piedi, l'ultimo libro di Simona Baldanzi, e detto così non è che dico molto, perché sono tanti negli ultimi tempi i libri su viaggi a piedi - anch'io ho dato il mio contributo. Però aggiungo subito: questo è un viaggio a piedi che consente di scrivere un libro molto particolare.

Perchè in Il Mugello è una trapunta di terra (Contromano Laterza) si racconta più un ritorno che un distacco e si guarda a ciò che è vicino piuttosto che a ciò che è distante. Perché più che descrivere un viaggio si raccolgono le storie che si incontrano quando ci si mette davvero in gioco. Perché con i piedi si attraversa anche il tempo e si prova a regolare diversi conti in sospeso, giusto per intravedere una possibilità di riconciliazione.

Simona è scrittrice del Mugello, che dal Mugello si è allontanata e che ora sembra voler stringere con la sua terra un nuovo patto, attraversandolo con scarpe da trekking e zaino in spalla. Della sua terra ha già parlato in tante sue pagine - raccontandone in cambiamenti che ha subito e le responsabilità di chi glieli ha inflitti, denunciando gli orrori ambientali e i disastri del lavoro. Ma ora, ora chissà, si può ripartire, senza dimenticare i torti, le violenze subite, ma sì, si può ripartire.

E' tutta lì la forza del camminare - afferma Simona - sapere da dove vieni e dove devi andare e tenere insieme le due cose. Perché nella vita di tutti i giorni non è possibile?

Allora meglio inanellare uno dietro l'altro i 120 chilometri di sentieri dalla Barbiana di don Milani al Monte Sole delle stragi nazifasciste - storia prima di un'altra storia, storia che deve appartenere al nostro presente. Meglio lasciarsi accompagnare dalla parabola dell'Emmelunga, l'azienda di mobili che un'era geologica prima dell'Ikea conquistò gli italiani con i suoi sogni da televendita, quando apparire era tutto, quando ai mobili del noce bastava avere solo il colore.

Storie di gente in viaggio, storie dalla terra che si attraversa. Storie senza tempo e storie di oggi, quasi sempre storte. Ma con una nuova convinzione, che si può abitare diversamente le proprie case - non più con i componibili dell'Emmelunga - e allo stesso modo si può abitare, abitare davvero, la propria terra. Perché è così:

Dovremmo tornare ad abitare davvero l'Italia, ad averne cura come se fosse sempre casa nostra, dalle pianure alle montagne, dalle coste alle rive dei fiumi, dalle piazze alle strade, dalle salite alle discese, dalle grandi città ai minuscoli paesi. Ogni angolo, ogni minimo pezzettino oltre le nostre case, oltre i nostri muri, oltre i nostri giardini, averne cura più dei nostri mobili e delle nostre stanze ricolme.

venerdì 4 luglio 2014

Quando camminare ha il sapore della nostalgia

Quando Sergio e Marinella mi hanno chiesto di andare con loro a camminare, mi sono vista con la tuta rosa, le mollette nei capelli, il K-Way rosso e il bastone nodoso di fianco al babbo sulla strada bianca e stretta verso le cima di Lavaredo, ho sentito la voce della mamma che raccomandava di stare attenta a non inciampare e mio fratello dirmi che tanto sarebbe arrivato prima lui.

Ho assaporato in bocca il bombolone alla marmellata della bottega di fronte al nostro affittacamere, ho visto i nostri scarponi allineati sul balconcino stretto come una scatola di fiammiferi e ho avvertito il piacere della doccia calda prima di infilarmi il pigiama.

Ho detto di sì perché per un istante ho rivisto la dodicenne che ero e m'è parso quasi di acciuffarla per i capelli.

Ho detto di sì perché ho nostalgia dei sentieri e della disciplina, delle sveglie la mattina presto e dei silenzi, della borraccia da riempire e della cartina che non si ripiegava mia per bene.

(Simona Baldanzi, Il Mugello è una trapunta di terra, Contromano Laterza)


mercoledì 23 aprile 2014

Il paese della gente con il contro in testa

Confessa, Marco Revelli, di aver odiato la sua terra, come si può odiare una madre secca e muta, oppure un vuoto inabitale e senza contorni. O peggio come si può odiare ciò che scopriamo troppo simile a noi: man mano che mi conoscevo, temevo che non sarei stato altro da lei.

Così dice all'inizio, Marco Revelli, scrittore e musicista - ricordate Les Anarchistes? - delle Apuane. Dice così e si fa presto a non credergli. Perché è un atto di amore, ancorché contrastato e perplesso, il suo Il contro in testa. (Contromano Laterza). E poco importa che l'amore riguardi più le storie e il mito di una terra, che la terra stessa: anche con le persone, non si tratta prima di tutto di un'idea?

E dunque questa terra di marmo e di anarchia, di cave e di osterie, di fatiche e di fremiti di libertà. Le Apuane belle e ribelli, almeno così piace pensare. Montagne aggredite e divorate ma che ancora si ergono maestose. Sarà così anche per la gente?

Sai qual è la frase migliore per definire il carrarino? Il contro in testa, dice a un certo punto Silvano, in una delle tante chiacchiere bagnate di vino in queste pagine (Solo le osterie - rammenta Revelli - parevano essere quei luoghi dove cercare qualche verità viva di un passato scomparso alla vista, per respirarne i sensi rimasti).

E vengono in mente le antiche popolazioni apue che i romani riuscirono a soggiogare solo con la deportazione, i cavatori che brindavano alla fiaccola dell'anarchia, i fragili sognatori di una rivoluzione che non c'è mai, soprattutto in quegli anni Settanta dove ci si illuse di poter cambiare tutto. L'idea di una terra, davvero. Più che una terra. E le pagine di un libro che riescono a coltivare la nostalgia e a regalare il senso di un sentimento. 

sabato 19 aprile 2014

Quando il passato era ancora a disposizione

In assenza di futuro non restava che rivolgermi al passato.

Si capisce che appartengo a una generazione passata: quando il passato era ancora a disposizione. Oggi, in assenza di avvenire, ai ragazzi non resta che un eterno presente.

E il passato più recente cui mi rivolgevo, e che mi faceva sentire orfano, erano quegli "anni di rame" che furono i Settanta (che, come noto, iniziarono nel '68). I quali Settanta, poi, erano l'immaginaria continuazione della Resistenza, tutto assolutamente con la maiuscola. 

Lo diceva anche Carlo, all'osteria: "Noi ci sentivamo i nuovi partigiani". Non diceva però se aveva continuato a crederci. Io, quando lo diceva, ci credevo.

Degli anni Settanta mi sentivo orfano, per esser colpevolmente cresciuto nei plasticosi anni Ottanta. Quella prima della mia sì che era stata una generazione potente, che invidiavo.

A me era toccata in sorte l'epica di "Drive in", invece, e maledicevo il tempo. Amavo tutto dei Settanta: la musica, il cinema, i libri. E rimpiangevo quando, nella mia terra, proprio in questa terra dove intorno non vedevo che il deserto, c'era una fitta schiera di ribelli. 

(Marco Rovelli, Il contro in testa. Gente di marmo e d'anarchia, Contromano Laterza)

mercoledì 13 novembre 2013

Senza più accendere il fuoco, bastava il racconto

C'era una volta una generazione di chassidìm che, quando dovevano assolvere un compito difficile, o prendere una decisione importante, andavano in un luogo nei boschi, accendevano il fuoco e dicevano delle preghiere, assorti nella meditazione.

Un chassidìm della generazione successiva, di fronte alle stesse incombenze, andava nello stesso posto nel bosco e diceva: "Non possiamo più accendere il fuoco, ma possiamo dire le preghiere", e questo era sufficiente.

Ancora una generazione dopo, un altro chassidìm che doveva assolvere lo stesso compito, andava nel posto e diceva: "Non possiamo più accendere il fuoco, e non conosciamo più le segrete preghiere, ma conosciamo il luogo dove tutto questo accadeva", e infatti bastava.

Finché, in un'altra successiva generazione, dovendo affrontare lo stesso compito, il chassidìm restava seduto nel proprio castello, e diceva: "Non possiamo più fare ul fuoco, non possiamo dire le preghiere, e non conoscimao più il posto nel bosco, ma di tutto questo possiamo raccontare la storia". 

E infatti bastò, il suo racconto ebbe la stessa efficacia delle altre azioni.

(Beppe Sebaste, Oggetti smarriti e altre apparizioni, Laterza Contromano)

giovedì 27 giugno 2013

Che ne sarebbe stato della storia, a smettere di leggere?

L'altro giorno ero nella fase finale della lettura dell'ennesimo mastodontico giallo svedese - libri che da qualche tempo prediligo per la loro lussuosa lentezza. 

Dopo quelli di Henning Mankell, ora sto dedicandomi a quelli di Stieg Larsson. Dovevo lavorare (cioé scrivere, lavoro reso difficilissimo dalla quasi totale assenza di un capufficio), ma me la godevo troppo a continuare a leggere il giallo svedese, a lasciare scorrere il tempo senza fare nient'altro che quello, continuare a seguire la storia dei personaggi che erano in quel momento la mia famiglia e i miei amici. 

E improvvisamente mi è venuta per la prima volta l'idea che non era vero che non stavo facendo niente, e non era vero nemmeno che ero da solo mentre leggevo. 

Ho pensato anzi che leggere sia un benefico e generoso lavoro collettivo, o comunque fatto anche per gli altri, come i riti e le preghiere. 

Avevo l'idea che il mio leggere facesse andare avanti il mondo, che in qualche modo lo tenesse in piedi, e comunque tenesse in piedi il mondo del libro che stavo leggendo. Senza di me, cioé se avessi smesso di leggere, che ne sarebbe stato della storia e dei suoi personaggi?

(da Beppe Sebaste, Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne, Contromano Laterza)

martedì 18 dicembre 2012

Se il mio leggere fa andare avanti il mondo

L'altro giorno ero nella fase finale della lettura dell'ennesimo mastodontico giallo svedese - libri che da qualche tempo prediligo per la loro lussuosa lentezza. Dopo quelli di Henning Mankell, ora sto dedicandomi a quelli di Stieg Larsson. 

Dovevo lavorare (cioé scrivere, lavoro reso difficilissimo dalla quasi totale assenza di un capufficio), ma me la godevo troppo a continuare a leggere il giallo svedese, a lasciare scorrere il tempo senza fare nient'altro che quello, continuare a seguire la storia dei personaggi che erano in quel momento la mia famiglia e i miei amici. 

E improvvisamente mi è venuta per la prima volta l'idea che non era vero che non stavo facendo niente, e non era vero nemmeno che ero da solo mentre leggevo. 

Ho pensato anzi che leggere sia un benefico e generoso lavoro collettivo, o comunque fatto anche per gli altri, come i riti e le preghiere. 

Avevo l'idea che il mio leggere facesse andare avanti il mondo, che in qualche modo lo tenesse in piedi, e comunque tenesse in piedi il mondo del libro che stavo leggendo. 

Senza di me, cioé se avessi smesso di leggere, che ne sarebbe stato della storia e dei suoi personaggi?

(da Beppe Sebaste, Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne, Contromano di Laterza)

domenica 2 dicembre 2012

Cosa significa fare il liceo al Forte dei Marmi

Dire che vivi qua è una scelta abbastanza impegnativa.

Va tutto liscio se stai a Roma o Milano o Ponte Biscottino, ma se dici che vivi a Forte dei Marmi la gente va fuori di testa e non ti lascia più andare. 

Perché al Forte ci sono stati tutti, almeno una volta. Però d'estate, per le vacanze. Poi uno si rimette i vestiti, torna in città e ricomincia con la vita reale. Restare al Forte dopo agosto invece sembra una follia, come fare un giro sulle montagne russe e non scendere a fine corsa, starsene lassù seduto come un ebete, mentre la musica finisce, le luci si spengono, le famiglie tornano al parcheggio e se ne vanno.

Se poi per disgrazia viene fuori che a Forte dei Marmi ci hai pure fatto il liceo, allora davvero ti guardano come se gli dicessi che ti sei laureato a Gardaland. "Ma dài, esiste un liceo a Forte dei Marmi?". 

E subito prendono un'espressione sognante, tutti impegnati a immaginare una struttura in riva al mare fatta di palme e canne di bambù, con scimmie e pappagalli che girano liberi per le aule mentre si insegnano materie tipo storie dell'abbronzatura, teoria dei gavettoni e cocco bello.

(da Fabio Genovesi, Morte dei Marmi, Contromano di Laterza)

venerdì 30 novembre 2012

Incredibile, c'è chi vive a Forte dei Marmi

Incapace di accogliere il turista, ospitando e condividendo gli stessi spazi, il popolo di Forte dei Marmi ha sempre preferito consegnarli il paese, inginocchiandosi e servendolo a testa bassa. E questo mica per un sentimento di inferiorità o devozione, no, questo solo perché inginocchiandosi e abbassando lo sguardo si può evitare di guardare l'altro negli occhi, di parlarci e avviare un rapporto umano. Asservendosi, è più facile lamentarsi e maledire alle spalle. 

Che libro che è Morte dei Marmi di Fabio Genovesi (Contromano di Laterza), feroce, irriverente, sulfureo fin dal titolo, che dice già molto. Libro che vale per tutti coloro che almeno una volta nella vita si sono fatti vedere a Forte dei Marmi, libro che vale comunque -  anche se sei un marziano che in Versilia non è mai sbarcato - perchè quello che si racconta è uno tsunami prodotto dal denaro, o se preferite una mutazione antropologica, ai tempi in cui tutto è kitsch e tra negozi di griffe e finte colonne doriche si è perso il senso di un territorio e della sua storia.

Alcune (pochissime) delle cose che ho scritto qui - assicura Genovesi in epigrafe - me lo sono inventate, ma sono le più verosimili.

E non faccio fatica a credergli, io che della Versilia ho il ricordo che mi porto dietro da ragazzino, quando la Versilia era le biglie sulla spiaggia, la passeggiata con il gelato al pistacchio, il venditore di cocco e il bagnino dalla parlata ruvida. La Versilia che poteva essere anche una compagnia di anziani che giocava a carte. Prima che arrivassero i russi - altro che le famigliole da Firenze con le valigie legate sul tetto della macchina - e con loro cambiasse tutto.

Semmai è dura credere che in un posto come Forte dei Marmi ci si possa nascere e vivere - tutto l'anno, mica solo per i due mesi d'estate. Che ci si possa andare a scuola e fare amicizie per uscire perfino a gennaio, quando il più è sprangato.

E invece sì, e anche questa è la bellezza del libro: che a dispetto dei giudizi più perfidi, dei toni più taglienti, delle verità più scomode, è prima di tutto uno straordinario atto di amore per il posto in cui una persona vuole continuare a vivere. Malgrado tutto.

giovedì 27 settembre 2012

Se sono gli scarafaggi a scrivere il best seller

Era secco e allampanato. Indossava gilet coi bottoni di legno a pomello, sciarpe pasionarie di lana rossa e completi di velluto marrone, color foglia autunnale che rotola sul selciato. Non so perché non scrivesse poesia. Aveva tutti i difetti necessari per diventare un grandissimo poeta.

Grandissimo poeta non è, il nostro Briac, e anche come romanziere lascia a desiderare. In realtà, nonostante tutte le pose e umori da scrittore maledetto e da esistenzialista da rive gauche, non c'è niente da fare, di libri nel cassetto non ce ne sono e il foglio resta desolatamente bianco. Ma che succede se la crisi creativa lascia solo le ragnatele in tasca, con prospettiva di sfratto imminente?

Cosa succede ce lo racconta, a modo suo, Luca Ricci, in un libriccino spiazzante, esilarante, grottesco. Gli scarafaggi della casa - squinternata banda che ha scelto di chiamarsi Beatles (come gli "altri" scarafaggi) - sanno di non potersi permettere un nuovo inquilino, magari più attento all'ordine e alla pulizia della casa, ahi loro. Così saranno loro a inventarsi il libro - anzi il potenziale best-seller - che permetterà a Bric di rimanere a casa.

Tra Kafka e Kraus, solo per dire i primi nomi con la kappa che mi sono venuti in mente, certamente surreale e sulfureo, Come scrivere un best seller in 57 giorni (Contromano di Laterza) è proprio un bel modo di mettere il dito nella piaga, liberandosi di tante sterili discussioni, di tante manie e mode che magari fanno tanto intellettuale, ma non ci lasciano niente di più di un pugno di mosche.

Non si vive di solo pane, è vero. Ma anche la cultura non è cultura, non è lavoro, se è solo rimirarsi l'ombelico.

venerdì 3 agosto 2012

Se si rimane a Firenze per il lampredotto

Che poi, artisti o no, ci si può davvero costruire un'esistenza indipendente, qui, senza doversi allacciare a un sistema di supporto vitale fatto di parentele, conoscenze, amicizie, relazioni per niente dinamiche?


E nelle altre città d'Europa, sarà davvero diverso? O farei la stessa fine, con le stesse scarse opportunità, lo stesso pugno di magre certezze, lo stesso lavoro noioso, l'unica differenza il pranzo - al posto del lampredotto il sushi, o alle brutte un falafel.


Signorina perché sceglie di rimanere a Firenze?
Per il lampredotto, no? 

(Vanni Santoni, Se fossi fuoco, arderei Firenze, Contromano Laterza)

mercoledì 1 agosto 2012

Se uno volesse capire cos'è la Sardegna

Se uno volesse capire cos'è la Sardegna oggi, nel 2011, al di là dell'estate e delle vacanze organizzate, al di là dei cori a tenore e dei nuraghe e delle fiabe e delle leggende, che cos'è la vita normale per la stragrande maggioranza di chi abita permanentemente nell'isola del Mediterraneo chiamata Sardegna, se uno volesse capirlo davvero, dovrebbe prendere la macchina e guidare da Cagliari viale Marconi a Quartu Sant'Elena, poi tornare indietro passando per Quartuccio, Selargius, Monserrato, Pirri.

Non so se il consiglio è di quelli buoni, però ci dice qualcosa su quanto Flavio Soriga ci propone con NuraGhe Beach. La Sardegna che non visiterete mai, ennesimo titolo con cui la collana Contromano di Laterza riesce a sedurci e a spiazzarci. Questa non è una guida, nemmeno alternativa, non pretende di esserlo, magari è uno sguardo che arriva dove di solito non si arriva, tra periferie e paesi sperduti, oltre le spiagge da cartolina, oltre i locali da vip o da movida.

E oltre quello sguardo... perchè prima di tutto questa è una storia di amore e disamore, una storia in bilico tra il passato che si dilegua e un futuro che quasi certamente non esiste, una storia che è insieme abbandono e ritorno, fuga e riscoperta.

E forse non sarà troppo originale l'idea di una storia - e di un romanzo - che si dipana attraverso la proposta e la possibilità di una guida, raccontata nel suo farsi o anche solo nei suoi frammenti. Però la Sardegna c'è tutta, è odori, sapori, suoni, aria che si respira.

La Sardegna che non visiterete mai, appunto. La Sardegna che è bello scoprire in queste pagine, lasciandoci trainare da digressioni, richiami, suggestioni, che non solo un mare in cui tuffarsi.

sabato 7 luglio 2012

Il reporter di guerra che non raccontava di eroi

Il giornalismo, spiega David Randall nel suo splendido Tredici giornalisti quasi perfetti (Contromano Laterza), è infestato di invidia professionale non meno di qualsiasi altra attività professionale che si svolga all'insegna di un'insicurezza cronica. E certo non dovette essere poca l'invidia che si attirò su di sé Richard Harding Davis, cronista puro e principe dei corripondenti di guerra americani.

Era bravo, Davis, e soprattutto non piegò le sue capacità a interessi di parte o peggio ancora a calcoli personali. Quanto vedeva, raccontava. Anche nel corso di quella guerra con cui gli Stati Uniti, alla fine dell'Ottocento, strapparono Cuba alla Spagna. La stessa in cui William Randolph Hearst, il potente magnate della stampa americana, pare abbia detto a Frederic Remington, il fotografo che accompagnò lo stesso Davis: Tu procura le immagini, io procurerò la guerra.

Davis la guerra la raccontò. Nella sua insensata crudeltà: guerra non di eroi, ma di uomini che subiscono il destino. E valgano per tutti queste parole:

Un certo numero di granate e proiettili è passato in uno spazio e uomini di differente stazza hanno bloccato quello spazio in differenti punti. Se un uomo si trovava nella traiettoria di un proiettile, era ucciso e spedito al creatore, lasciando una moglie e dei figli, forse, a piangerlo. "Papà è morto", diranno questi figli, "facendo il suo dovere". In realtà il papà è morto perché si è alzato nel momento sbagliato, o perché si è girato a chiedere un fiammifero all'uomo alla sua destra, anziché piegarsi alla sua sinistra, e ha proiettato la sua mole di novanta chili là dove un proiettile, sparato da un uomo che non lo conosceva e non aveva puntato contro di lui, si è trovato a pretendere il suo diritto di precedenza. Uno dei due doveva cedere e, poiché il proiettile, non ha voluto saperne, il soldato ha avuto il cuore sfracellato.

martedì 7 giugno 2011

La "vicevita" che corre via sul treno

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"Chi sta in treno, è segno che vuole andare da qualche parte, e lo fa sempre e solo in vista di qualcos'altro... La nostra vita pullula di queste attività strumentali e vicarie, nel corso delle quali, più che vivere, aspettiamo di vivere, o per meglio dire, viviamo in attesa di altro... Sono i momentio in cui facciamo da veicolo a noi stessi. E' ciò che chiamerei la vicevita"

Comincia così, con questa sorta di premessa, La vicevita di Valerio Magrelli, poeta importante che questa volta presta la sua penna e la sua ispirazione all'esperienza del viaggio in treno.

E' curioso, ma senza nessuna esplicita volontà questo piccolo libro, pubblicato nella collana Contromano di Laterza, mi è capitato tra le mani appena terminato le pagine di Paolo Cagnan sulla Transiberiana, un'opera dedicata insomma proprio a questa esperienza. Cosa che mi conferma che se anche non ci sono progetti consapevoli di lettura, ci sono richiami, corrispondenze, percorsi da una pagina all'altra che sono come le pietre su cui si salta per attraversare un torrentello (attenti agli scivoloni, però).

Proprio la lettura di Cagnan è un buon modo di dissentire dalle prime righe - e anche dal titolo - di Magrelli. Perché per me il viaggio in treno, benché sia sempre ovviamente uno spostarsi verso qualcos'altro, e quindi anche un'attesa di qualcosa che ora non c'è, beh, è vera vita, vita piena.

Alla fine il treno fermerà nella mia stazione, io prenderò con me il mio bagaglio, scenderò, mi guarderò qualche attimo intorno, e poi mi incamminerò, con fretta maggiore o minore secondo le circostanze. E sarà certo qualcosa di diverso.

Eppure se mi guardo indietro il viaggio in treno è sempre stata per me esperienza di straordinaria intensità: che io guardi dal finestrino il mondo che passa mentre in realtà sono io che passo, che legga un libro finalmente sganciato da qualsiasi altra incombenza, o che puri curiosi negli sguardi e nei gesti dei miei compagni di viaggio.

C'è molta poesia nell'andare treno e per questo è giusto che un poeta, per cui il treno è stato pendolarismo più che viaggo, abbia sentito la voglia di raccontarcelo.

Su diverse altre cose dette da Magrelli non mi sono trovato d'accordo. Ma questo non era necessario. L'importante era ed è lo sguardo poetico che sostanzia queste pagine di riflessioni, piccole storie, incontri fugaci.

Serve questo sguardo per educarci anche noi a questo sguardo. Per attingere al pozzo della poesia anche quando c'è solo lo sferraglio delle ruote sui binari. E magari l'aria condizionata nemmeno funziona.

mercoledì 2 marzo 2011

Pensieri e pause di un viaggiatore pigro

Col tempo ho sviluppato una vera e propria antipatia verso i viaggiatori professionisti. Quelli che a intervalli regolari prendono e partono. Perchè, dicono, devono staccare la spina, cambiare aria, vedere posti nuovi, magari più belli, più strani, più vivi di quelli visti l'anno prima.


Non è che io sia contrario al viaggio su tutta la linea. Viaggiare in fondo è un accidente che può capitare a tutti....

Ne dice di cose intriganti Antonio Pascale, nel suo Non è per cattiveria, piccolo libro uscito per la collana Contromano di Laterza che è insieme una non-guida del Molise e lo sfogo di un viaggiatore pigro.

Per esempio mi fa riflettere la sua allergia per le guide:


La sola idea di dover vivere un'emozione da altri già rigidamente codificata mi getta nello socnforto. Quando qualcuno viaggia traccia una strada personale. Direi molto personale, quasi pudica.... Per quale motivo dovrei, a priori, segnare il mio percorso con paletti piantati da altri?

E sulla frenesia di arrivare in tutti i modi:


Se posso usare una metafora ardita, il viaggio per me è il contrario del monumento. Il monumento è il traguardo da raggiungere, la cima da conquistare. Io non entro mai per principio in un monumento

E che dire del viaggio come sottrazione di movimento?

Il viaggio, per me, significa muoversi il meno possibile, proprio per permettere agli umnori, nelle pause accidiose, di manifestarsi senza ulteriore pena

A pelle simpatizzo per i viaggiatori pigri. Ci voglio pensare su.



 

mercoledì 16 febbraio 2011

Quando il Molise è il viaggio felice

Ci sono molti modi di viaggiare, questo è sicuro, e non è certo tra i peggiori quello che non cerca le distanze, non macina chilometri, non pretende di regalarci a ogni costo il brivido dell'esotico o perfino dell'avventura.

Si può fare i turisti anche in Mongolia. E si può essere eccellenti viaggiatori nel parco pubblico dietro casa. Magari con meno stress e con la possibilità, invece, di cogliere quel senso della pausa che è uno dei segrei di un viaggio che fa bene.

Antonio Pascale ne è una bella dimostrazione in Non è per cattiveria. Confessioni di un viaggiatore pigro, un altro libro indovinato della collana Contromano di Laterza (ormai li acquisto praticamente a scatola chiusa). Il sottotitolo già dice parecchio. Ma che dire, se attacchi la prima pagina e dopo qualche paragrafo ti accorgi di essere di fronte a una non-guida del Molise?

Molise: non propriamente la prima destinazione che ti viene in mente. Solo a nominarlo mi sa che rabbrividiscono ufficiali e soldati semplici dell'esercito dei viaggiatori professionisti. Ma questo libro - che raccontandoci un lembo di Italia ci porta lontano anche con le seduzioni dell'intelletto - è per l'appunto anche una serena vendetta.

Sentitelo Antonio Pascale:

Quindi, riepilogando, dormo così bene che quando ritorno dalle vacanze e incontro i miei amici viaggiatori professionisti che sono andati in un posto più bello, più vivo, migliore di quello dell'anno prima, e mi chiedono, ma solo alla fine del loro eccitante racconto di viaggio, tu cosa hai fatto, io rispondo: niente. E loro notano che questo niente mi ha reso davvero felice, meno nevrotico, meno ansioso di raccontare la mia parte d'accentura, meno partecipe del mondo, dei suoi problemi, dei suoi rituali

Prendete nota. Poi cercate nel vostro personale atlante il Molise che più vi si confa.

martedì 28 dicembre 2010

Se la panchina è il luogo dell'utopia

Una buona panchina fa sentire al riparo chi vi si siede, e fa apparire il suo ozio come un'attività non soltanto legittima, ma di qualità superiore, da intenditore - un po' come quando al ristorante uno ordina un piatto molto semplice e il cuoco gli fa capire di considerarlo un buongustaio

Che bello questo Panchine. Come uscire dal mondo senza uscire (Laterza, collana Contromano), di Beppe Sebaste, libro leggero e profondo allo stesso tempo, poetico di una poesia che scaturisce in primo luogo da uno sguardo inconsueto sul mondo...

Perché è questo che fa, in buona sostanza, Beppe Sebaste: si siede e guarda davanti a sè, si siede e usa il suo tempo senza ansia e senza pretesa. E lo usa assai bene, perché spesso e volentieri il tempo usato meglio è quello che quasi quasi sembra dilapidato.

Soprattutto oggi, in questo mondo dove pare che si sia posto solo per la rapidità, per gli spostamenti rapidi e ripetuti, per giornate imbevute solo di movimento. E sarà anche per questo che le panchine - avete notato anche voi? - stanno scomparendo dalle nostre città o sono confinate in posti - per esempio le hall dei centri commerciali - dove è chiaro che potrai fermarti solo per tirare il fiato e quindi tirarti su e fare subito quello che devi fare (produci, consuma, crepa...). Il tempo è denaro, come fai a perderlo su una panchina?

E allora questo libriccino non è solo poesia, è anche presa di coscienza, protesta, riappropriazione di giornate e spazi e tempi. Per dirla con Beppe Sebaste:

Stare in panchina, nel elssico attuale, è il contrario dello scendere in campo. Ma la panchina è l'ultimo simbolo di qualcosa che non si compra, di un modo gratuito di trascorrere il tempo e di mostrarsi in pubblico, di abitare la città e lo spazio. La panchina è un luogo di sosta, un'utopia realizzata

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