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lunedì 3 febbraio 2020

Sulle rive del Baltico, le due città che sono una città

E anche a me, che vorrei tener distinte nella memoria le due città, non resta che parlarti dell'una, perché il ricordo dell'altra, mancando di parole per fissarlo, s'è disperso.

Sono parole di Italo Calvino, dalle Città invisibili, capolavoro a cui è utile ritornare sempre, come nave al suo approdo. E tornare soprattutto mentre si attraversa le pagine di questo libro, dedicato appunto a una città che in realtà è due città, separate dal tempo e dalla storia più che da un muro. Senza che nemmeno il nome sia rimasto a unire le sponde del passato e del presente.

Prima c'era Königsberg, la capitale della Prussia orientale, potente porto baltico e tedesco, la città di Immanuel Kant, sulle cui passeggiate quotidiane si poteva accordare l'ora. Poi c'è stata Kaliningrad, città sovietica, tanto da portare il nome del primo capo di Stato dell'Urss, e quindi russa, capoluogo di un'enclave che è Europa e allo stesso tempo è altro. In mezzo la cesura della guerra, la cancellazione di una presenza e di una storia, la ricostruzione di un'altra città dopo che della precedente erano rimaste solo le macerie.

 Ed è in questa città che sono due città che ci accompagna Valentina Parisi nel suo Una mappa per Kaliningrad. La città bifronte, altro bel libro proposto da Exòrma. Ci prende per mano, con la sua narrazione avvolgente e non ci molla mai, perché molte sono le vicende, molti sono i fili di una trama insospettata.

E c'è la grande storia che si accanisce su quella che Curzio Malaparte definiva piccola città dell'Occidente, in riva allo sterminato oceano della pianura slava, storia che fa della città bifronte il frangiflutti in cui si abbattono e si mescolano popoli e culture diverse. Ma c'è anche la memoria famigliare, che fa di questo viaggio - e di questo libro - una promessa mantenuta. 

Perché a Kaliningrad, che era  Königsberg, c'erano i prigionieri italiani dei tedeschi. Perché tra di essi, a patire di fame sotto i bombardamenti, c'era anche un nonno che a ogni Natale saltava fuori coi suoi racconti, che nei ricordi di una bambina si mescolavano al vitello tonnato e ad altre abitudini delle feste comandate. 

Che fine fanno le città che hanno perso il loro nome? Esistono ancora, per lo meno nelle geografie immaginarie? Possono rivendicare qualcosa, benché invisibili?

Quante domande mentre queste pagine mi sospingono verso un molo proteso sulla distesa grigia del Baltico, a soppesare ciò che c'è e ciò che non c'è più.






giovedì 1 febbraio 2018

Come i cinesi divennero gialli, un libro per scoprire l'invenzione del colore (di Massimiliano Scudeletti)

 Andrea Corsali, italiano al servizio dei portoghesi, riferendo a Giuliano de' Medici delle sue esplorazioni, definisce la pelle dei Cinesi come «di nostra qualità». Era l'anno 1515, ma per quasi tre secoli la descrizione degli abitanti del Regno di Mezzo non cambierà: «gente di pelle bianchissima al Nord... bruni invece i cantonesi», riferiscono viaggiatori, naturalisti e missionari. Infatti, alle soglie del XIX secolo, i Cinesi sono ancora «un popolo di pelle bianca» (Dizionario universale, 1772, Parigi).
Parte da questo assunto, che ci lascia un po' stupiti, il breve ma dirompente libro di Walter Demel - Come i cinesi divennero gialli. Alle origini delle teorie razziali (edizioni Vita e Pensiero) - a metà tra il saggio e il viaggio nella storia, che stravolge le spire della teoria velenosa della razza.
Nel 1756 compare per la prima volta il termine luridus, che può essere tradotto come "giallastro", riferito al popolo cinese. Lo usa Linneo nella nona edizione del suo Systema naturae. Cosa abbia fatto cambiare idea al naturalista svedese che nelle precedenti edizioni lo aveva definito fuscus "scuro" - per colpa dei soliti cantonesi, meridionali dell'Impero -  lo possiamo solamente presumere. Forse si era fidato della descrizioni del naturalista Buffon che aveva definito luridus il popolo cinese (nel senso di infidi e poco affidabili). E Immanuel Kant, sì proprio il filosofo, si trova davanti luridus e lo traduce come "giallastro" in tedesco. 
Da lì in avanti i Cinesi, e molti altri popoli dell'Asia, rimarranno gialli anche se non lo sono. Un errore di traduzione, per quanto fatto da un filosofo eccelso, non sarebbe stato sufficiente, ma si stanno imponendo con forza sempre maggiore strambe teorie che dividono il mondo non più in continenti, ma in razze.
E cosa c'è meglio di un colore della pelle per giustificare l'esistenza e la riconoscibilità delle razze, visto che altri criteri non si riescono a trovare? Si chiede il Demel citando l'entusiastica adesione del mondo occidentale alla nuova definizione "cromatica" dei cinesi. Il colore giallo era perfetto: intermedio tra il bianco e il marrone, perfetto per sancire la gerarchica delle razze: al punto più basso gli Africani (neri), nel mezzo i Cinesi (gialli) e alla sommità... Beh, quello ce lo sentiamo ripetere tutt'ora.
A nulla è valso che l'antropologia moderna, usando i criteri delle scienze naturali, abbia stabilito che «mediamente le curve di riflessione della luce nel colore della pelle dei Cinesi sono di poco inferiori rispetto a quelle degli Europei (tradotto, sono leggermente più scuri della media europea). A nulla: rimangono i "gialli" con annesso "pericolo giallo" e tutta la vulgata razzista correlata.
Demel conclude il suo libro dicendo che: «La razza gialla non è certamente nata nelle plaghe sconfinate dell'Asia, ma nel cervello degli studiosi europei.» Noi assentiamo, per una volta antirazzisti a capo chino, visto che non siamo riusciti a discernere questa realtà passeggiando per una qualsiasi Chinatown - Prato o New York, non importa -. Abbiamo la sola scusa che le idee più velenose velano anche lo sguardo.
                                                                                        Massimimiliano Scudeletti

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...