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mercoledì 8 giugno 2011

E l'autore finì per odiare il suo capolavoro

Sostiene Umberto Eco:

Ho scritto sei romanzi, eppure tutti parlano sempre del Nome della rosa, che io odio perché è una sorta di maledizione

Sostiene Roberto Saviano:

Il mio Gomorra non lo rinnego, lo riscriverei, ma sarei falso se dicessi che lo amo. Perché mi ha tolto tutto: io volevo solo diventare uno scrittore

Sostiene Truman Capote:

Nessuno saprà quanto A sangue freddo mi sia costato. Mi ha scarnificato fino al midollo delle ossa

Ecco qui, la sindrome da best-seller che affliggerebbe alcuni degli scrittori di maggiore successo, quelli da milioni di copie vendute in tutto il mondo. Capita quando il loro nome si lega indissolubilmente non a un'opera intera, ma un singolo titolo. Quello che vende, quello che è un must nelle librerie, quello che ha messo in ombra tutto il resto.

Di recente ne ha parlato Stefano Bartezzaghi su Repubblica, in una riflessione dal titolo Odio il mio capolavoro (e capolavoro non è certo sinonimo di best-seller):

Se ti chiami Dante sei Commedia anche se magari ti sentiresti di più De Monarchia. Se ti chiami Claudio Baglioni, nessuno ti libererà mai dalla "maglietta fina"


Devo dire, capisco e non capisco. Non so se questa sindrome sia frutto più di un vezzo che di un sincero risentimento. E ancora di più, nel caso, mi sembra incerto il bersaglio del risentimento: perché non l'autore stesso, incapace di superarsi, come un saltatore che sceglie una misura troppo alta?

Però, a ripensarci, capisco.

venerdì 17 settembre 2010

L'usignolo dell'Alabama e il buio oltre la siepe

Che vi dice il titolo To kill a mockingbird?

A me fino all'altro giorno niente, nemmeno a volerlo tradurre alla lettera, Uccidere un usignolo. Poi mi è capitato tra le mani un intrigante articolo di Stefano Pistolini (D di Repubblica, 11 settembre), così ho scoperto che questo era il titolo originale di Il buio oltre la siepe di Harper Lee. Ovvero, di uno di quei libri che sembrano fatti apposta per scioglierti il cuore e renderti un po' migliore.

Mi ricordo di averlo divorato una di quelle interminabili estati da studente che ho trascorso inchiodato in città. Leggevo in giardino, ma con la testa volavo in quella cittadina nel cuore dell'Alabama, provincia rurale torpida e segregazionista. Fino a quel momento i miei eroi di carta dovevano impugnare armi, guidare rivoluzioni, affrontare plotoni di esecuzione. Ora avevo con me Atticus Finch, l'avvocato che prima di tutto era una brava persona, l'onesto professionista che nell'America del Ku Klux Klan non esitava a difendere l'”uomo nero” accusato ingiustamente contro tutta una comunità che ne pretendeva il linciaggio.

Più tardi avrebbe acquistato il volto di Gregory Peck, come dire l'America più buona, idealista, rassicurante, prima del Vietnam.

Quanto a Harper Lee, ignoravo persino che dietro quel nome si celasse una donna.

La sua storia me la racconta ora Pistolini: quella di una donna che arriva fuori proprio da quella cittadina, la stessa di un'altra persona che lascerà il segno nella letteratura mondiale, Truman Capote, suo vicino di casa e compagno di giochi. Il babbo, un avvocato come Atticus, in quell'America che niente pare riuscire a smuovere dai suoi pregiudizi.

Un giorno scappa a New York, ma anche lì è un pesce fuori dell'acqua. Lavora in una biglietteria aerea, nel tempo libero si accanisce su una macchina da scrivere senza tirare fuori quello che sente nelle sue corde. Avverte la possibilità del capolavoro, ma la vita la tira da ogni parte, le pagine non prendono forma, la carta appallottolata riempie il cestino. Una versione del romanzo viene gettata dalla finestra, e allora non è che si ristampa un'altra copia dal computer. Gli amici si autotassano per regalarle un anno di stipendio, una sorta di sabbatico per continuare a scrivere.

Nell'estate 1960 finalmente il libro esce, senza grandi aspettative. Però è un gran bel libro ed esce al momento giusto, quello di un'America che vuole scrollarsi di dosso molte cose e guardare avanti, senza ripiegarsi più su se stessa.

Oggi in Italia è un libro che si dimentica, ma in America, 30 milioni di copie vendute dopo, è una lettura quasi obbligatoria, preferirei dire necessaria, a scuola. Un libro che insegna a “vedere le cose dal punto di vista degli altri”.

Quanto a Harper Lee, è stato il primo e ultimo romanzo. Mi fa riflettere anche questa cosa degli scrittori di un unico grande libro. Ma questo un'altra volta.

venerdì 31 luglio 2009

Inseguendo le città degli scrittori

Quali sono le città raccontate dagli scrittori? A cosa corrispondono le strade, le piazza, i palazzi, i locali, le atmosfere che emergono dalle pagine dei libri, con una pretesa di autenticità? Le parole sono ponti tra la realtà e la finzione o sono irrimediabilmente condannate a segnare una distanza? E per dire, Praga è davvero la Praga di Kafka? Domande che non puoi non porti leggendo il bellissimo viaggio attravero la Tokio del grande Murakami che ci regala Bookowski, il blog di libri di Dario Olivero su Repubblica.it. Ed è proprio così che comincia il viaggio:

Forse semplicemente non esiste, non a Tokyo. O forse non in questa dimensione. Abituati a tutto, anche ai viaggi cosiddetti letterari, cerchiamo atmosfere e ispirazione dove altri l’hanno trovata prima di noi. Visitiamo la Praga di Kafka, la Londra di Dickens, la New York di Capote, la Parigi di Sartre. Ci sono viaggi organizzati per questo genere di cose. L’ultimo nato è la Stoccolma di Stieg Larsson. Città che prima aveva poco da offrire se non gli spazi troppo o troppo poco illuminati e respingenti di Bergman, ora diventa location a ore e a tariffa dei luoghi da cui il giornalista Mikael Blomkvist ha conquistato milioni di lettori. Ma Tokyo è un’altra cosa. Haruki Murakami è un’altra cosa.

Per leggerlo tutto:
http://olivero.blogautore.repubblica.it

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