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lunedì 14 ottobre 2019

Con l'ultimo rais del tonno il mondo che non c'è più

Un tempo c'erano i tonni nel nostro mare, un tempo c'erano isolani che li pescavano insieme ed erano comunità. Di questo vivevano e la pesca era fatica e rito, tradizione e promessa di futuro. Un tempo, però, un tempo che non era ancora il tempo delle tonnare soppiantate dalle navi frigorifero giapponesi, il tempo del sushi e di Masterchef, il tempo del lavoro che ha smesso di diventare tale per immalinconirsi nel folclore. 

E tra l'uno e l'altro tempo c'è stato un uomo che ha provato ad arrestarlo il tempo, a dargli un altro verso. Si chiamava Gioacchino Cataldo, è stato l'ultimo rais di Favignana: così si chiamavano gli uomini che guidavano la pesca in tonnara, con termine preso in  prestito dall'altra sponda del Mediterraneo, in un mare che anche questo è stato, scambio e non solo crociata. 

Il rais: non solo un pescatore più abile, ma una sorta di sciamano delle acque, un concentrato di esperienza e saggezza che una volta pretendeva addirittura un diritto di successione per linea di sangue.

In L'ultimo rais di Favignana. Aiace alla spiaggia (Bonfirraro editore) Massimiliano Scudeletti insegue la sua storia. La storia di un ultimo: e si capisce che sono storie a lui congeniali, quelle degli ultimi, un po' come l'ultimo dei Mohicani. La insegue, questa storia, la racconta, si mescola ad essa: e in questo modo la narrazione si allarga, diventa storia di un mondo al crepuscolo e di un sogno che quasi si fa realtà prima di allentare la presa. 

E sì, forse è anche la storia di una generazione di persone che magari in vita sua non ha mai visto Favignana, tanto meno una tonnara, ma come dice Massimiliano, malgrado i nobili scopi, i modi geniali, spesso disperati nella loro inattualità, ha avuto come ricompensa di essere tramutata in statua di tufo tra gente altra che passeggia. Oppure si è venduta

La mia generazione, la generazione di Massimiliano.

 C'è l'odore della salsedine e l'odore degli spaghetti al tonno, in questo libro, ci sono gli orizzonti del mare aperto e dei sogni che a volte si coltivano a occhi aperti. C'è una storia che, incredibilmente appartiene a tutti noi, persone che spesso ci facciamo fuori le scatolette del tonno senza nemmeno sospettare che prima quei filetti erano guizzi di vita nelle profondità.










mercoledì 20 giugno 2018

La Cina con Hugo Pratt per maestro (di Mauro Bonciani)

La città e l'Italia si sono accorti di loro due anni fa quando, dopo un controllo ad un capannone, all'Osmannoro, la zona industriale a cavallo con Sesto, è scoppiata la rivolta. Ma la comunità cinese di Firenze è vecchia di decenni e numerosa. Ed un romanzo giallo, per la prima volta, ci racconta questo mondo e la vecchia e nuova mafia cinese, con una lingua lucida e tagliente, una trama incisiva e appassionante, un'immersione profonda in culture e tradizioni millenarie.

C'è il protagonista sempre un po' fuori posto, mister Onofri, ci sono femmes fatales di hugoprattiana memoria, delitti efferati e misteriosi, le arti marziali, la passione per il gioco di azzardo e le auto di lusso tipiche degli orientali, un gioco di specchi dove praticamente nulla è come sembra, una Firenze inconsueta; c'è la Triade e non solo.

La storia di Little china girl (Betti Editore) - opera prima del cinquantenne Massimiliano Scudeletti, che dopo una zigzagante esperienza lavorativa e un'antica passione per la Cina e l'Oriente si occupa si scolarizzazione di immigrati adulti - inizia proprio in un anonimo capannone all'Osmannoro, zona di confine tra italiani e cinesi, dove si trova quasi nascosta la casa da gioco delle Otto Fortune. E dove Alessandro Onofri perde una fortuna e si trova a non poter dire di no alla richiesta di aiuto per fare luce su un feroce assassinio all'interno della comunità cinese. 

Il thrilling è incalzante, gli omicidi si moltiplicano come gli interrogativi e l'ex video reporter di guerra deve cercare rapidamente risposte, stando attento a salvare assieme la pelle e la faccia, come impongono i rigidi codici della comunità cinese che frequenta senza l'illusione di farne parte, legato alla famiglia dello Zio Hu più di quanto vorrebbe ammettere  a se stesso, agli amici, alla ex fidanzata Lien, alla bella Phoung che gli è stata messa a fianco, più per controllarlo che per aiutarlo.

Scudeletti squaderna situazioni e sentimenti, certezze ed ambiguità, usa la chiave del giallo per un viaggio in un mondo che evidentemente lo affascina, evitando ogni esotismo, ogni luogo comune, qualsiasi scorciatoia o ammiccamento per conquistare il lettore; spostando continuamente il confine tra le due comunità che a Firenze, come a Prato o Milano, sembra invalicabile.
L'idea di Little china girl, il cui titolo riecheggia la famosa canzone di David Bowie, è vecchi di anni ed il lungo lavoro dell'autore è evidente in ogni pagina, in ciascuna frase, nell'assoluta mancanza di cali di tensione, impresa certo non facile per un esordiente che non vive di scrittura. Il romanzo è stato finalista al concorso di Radio Rai1 Tramate con noi e Claudio Gorlier ha spiegato "mi ha conquistato una singolare capacità di fondere l'avventuroso, il realistico e il simbolico, con una naturalezza che mi ha sbalordito. Ho cercato di cogliere l'autore in fallo, ho assunto un atteggiamento aggressivo ma mi sono arreso", sintetizzando il valore dell'opera. 

Perché Scudeletti, come l'amato Hugo Pratt, scrivendo di avventura racconta molto altro.

(Mauro Bonciani)

giovedì 1 febbraio 2018

Come i cinesi divennero gialli, un libro per scoprire l'invenzione del colore (di Massimiliano Scudeletti)

 Andrea Corsali, italiano al servizio dei portoghesi, riferendo a Giuliano de' Medici delle sue esplorazioni, definisce la pelle dei Cinesi come «di nostra qualità». Era l'anno 1515, ma per quasi tre secoli la descrizione degli abitanti del Regno di Mezzo non cambierà: «gente di pelle bianchissima al Nord... bruni invece i cantonesi», riferiscono viaggiatori, naturalisti e missionari. Infatti, alle soglie del XIX secolo, i Cinesi sono ancora «un popolo di pelle bianca» (Dizionario universale, 1772, Parigi).
Parte da questo assunto, che ci lascia un po' stupiti, il breve ma dirompente libro di Walter Demel - Come i cinesi divennero gialli. Alle origini delle teorie razziali (edizioni Vita e Pensiero) - a metà tra il saggio e il viaggio nella storia, che stravolge le spire della teoria velenosa della razza.
Nel 1756 compare per la prima volta il termine luridus, che può essere tradotto come "giallastro", riferito al popolo cinese. Lo usa Linneo nella nona edizione del suo Systema naturae. Cosa abbia fatto cambiare idea al naturalista svedese che nelle precedenti edizioni lo aveva definito fuscus "scuro" - per colpa dei soliti cantonesi, meridionali dell'Impero -  lo possiamo solamente presumere. Forse si era fidato della descrizioni del naturalista Buffon che aveva definito luridus il popolo cinese (nel senso di infidi e poco affidabili). E Immanuel Kant, sì proprio il filosofo, si trova davanti luridus e lo traduce come "giallastro" in tedesco. 
Da lì in avanti i Cinesi, e molti altri popoli dell'Asia, rimarranno gialli anche se non lo sono. Un errore di traduzione, per quanto fatto da un filosofo eccelso, non sarebbe stato sufficiente, ma si stanno imponendo con forza sempre maggiore strambe teorie che dividono il mondo non più in continenti, ma in razze.
E cosa c'è meglio di un colore della pelle per giustificare l'esistenza e la riconoscibilità delle razze, visto che altri criteri non si riescono a trovare? Si chiede il Demel citando l'entusiastica adesione del mondo occidentale alla nuova definizione "cromatica" dei cinesi. Il colore giallo era perfetto: intermedio tra il bianco e il marrone, perfetto per sancire la gerarchica delle razze: al punto più basso gli Africani (neri), nel mezzo i Cinesi (gialli) e alla sommità... Beh, quello ce lo sentiamo ripetere tutt'ora.
A nulla è valso che l'antropologia moderna, usando i criteri delle scienze naturali, abbia stabilito che «mediamente le curve di riflessione della luce nel colore della pelle dei Cinesi sono di poco inferiori rispetto a quelle degli Europei (tradotto, sono leggermente più scuri della media europea). A nulla: rimangono i "gialli" con annesso "pericolo giallo" e tutta la vulgata razzista correlata.
Demel conclude il suo libro dicendo che: «La razza gialla non è certamente nata nelle plaghe sconfinate dell'Asia, ma nel cervello degli studiosi europei.» Noi assentiamo, per una volta antirazzisti a capo chino, visto che non siamo riusciti a discernere questa realtà passeggiando per una qualsiasi Chinatown - Prato o New York, non importa -. Abbiamo la sola scusa che le idee più velenose velano anche lo sguardo.
                                                                                        Massimimiliano Scudeletti

lunedì 29 febbraio 2016

Un libro sul Congo che è un miracolo (di Massimiliano Scudeletti)

 l'Africa in maniera non convenzionale.
Congo, il libro  di David van Reybrouck vincitore del premio Terzani 2015, uscito per Feltrinelli nel 2014, è un maledetto miracolo.

Settecento pagine di storia, (di questo si tratta anche se nell'edizione italiana manca il sottotitolo Una storia) dalla nascita dello stato coloniale africano ai giorni nostri,  raccontate con lo stile del reportage mescolando le voci di circa 500 intervistati. Un affresco corale che fuoriesce con la stessa potenza del fiume Congo che dal suo estuario intorbidisce le acque dell'oceano per chilometri e chilometri. Ma si sbaglierebbe a considerarla un opera di nicchia o riservata agli amanti dei reportage di viaggio: mezzo milione di copie vendute sono lì a testimoniare un successo di pubblico, vasto e trasversale. 

Anche la critica, solitamente ingenerosa con i successi commerciali, è rimasta muta: perché il libro è inappuntabile sul piano della scrittura, delle fonti, dell'apparato bibliografico e si legge bene, maledettamente bene. Le recensioni entusiastiche oramai si sovrappongono, ed è comunissimo trovarne citazioni in articoli e reportage che abbiano per oggetto, fateci caso, non solo l'Africa centrale, ma l'intero continente. D'altronde, perché spremersi a dire qualcosa d'intelligente quando altri l'hanno già fatto?

Quando partiamo per leggere Congo, ci aspettiamo di risalire verso il cuore di tenebra dell'Africa con tutti i protagonisti che abbiamo conosciuto o immaginato. Non ne manca nessuno, allineati lungo il fiume della narrazione di  Reybrouck. Ecco Stanley, sì proprio quello de "il dottor Livingstone suppongo", e Leopoldo II del Belgio che ebbe il Congo come sua proprietà privata. I funzionari belgi e la loro polizia, i contadini vessati e torturati dalla sete infinita dell'occidente per il caucciù, per l'oro, i diamanti e tutto il resto. E poi Mobuto e Lumunba, prima amici e poi l'uno il carnefice dell'altro, descritti in un'incredibile corsa in motorino che vale l'intero libro. E la guerra fredda,  il post colonialismo e il saccheggio continuato di un paese troppo ricco per essere felice sia che si chiami Zaire o Congo. E ancora i conflitti razziali giunti a noi, l'altro mondo, con il suono dei machete dato che hutu e tutsi proprio in Congo ebbero le loro basi per colpire in Ruanda. Gli stessi hutu e tutsi che portarono sui loro scudi il nuovo padrone del paese: Kabila. E poi, l'oggi con le sue incertezze, tra il gigante cinese che fornisce a caro prezzo strade e infrastrutture, mentre la guerra per bande delle multinazionali usa i signori della guerra e i loro eserciti di soldati bambini per garantirsi l'approvvigionamento di tutte quelle materie preziose che da sempre l'occidente pretende.

C'è tutto il Congo e quindi gran parte dell'Africa centrale accompagnate da musica - una su tutti Indipendence Cha Cha Cha -, sapori e centinaia di storie tragiche, insanguinate, ironiche, allegre. Ma c'è di più ed è un vero miracolo in un epoca in cui l'originalità è merce rara, più del coltan.

Reybrouck ha un 'idea chiara, non convenzionale, del colonialismo e non la nasconde: L'occidente ha delle colpe terribili, ma la storia africana, a cinquant'anni dall'indipendenza, non è solo una reazione all'azione dei bianchi. Ci sono nobili cose ed enormi errori tutti africani: Lumunba, per esempio, osannato padre della nazione scelse, secondo l'autore, una via troppo rapida all'indipendenza, quando il paese non aveva ancora una struttura politica, economica e militare autonoma. Provocatorio denigrare un martire, padre della patria? Certo, ma non si ferma lì e ci descrive Mobuto non solo come il più longevo e sanguinario tra i dittatori, com' è stato in effetti, ma anche come lo statista che ha dato un'identità ad  una nazione grande come un continente(1). Sarebbe sbagliato leggervi in controluce una critica di un conterraneo di valloni e fiamminghi, ai vani sforzi della Comunità Europea di creare un sentimento di comune appartenenza in tutti questi anni?

Ma dove Congo lascia il segno è nello smontare la dialettica arcaico/moderno, africano/europeo tramite la strada più difficile, quella che passa per i conflitti interetnici. Proprio  quelli in cui anche l'occidente più liberale ha sempre visto una traccia selvaggia, tutta africana, direttamente collegata ad un oscuro tribalismo. 

Quando Reybrouck ce li descrive, nelle loro terribili manifestazioni, ma con le loro cause squisitamente economiche, scioglie l'inganno che vede quei conflitti come arcaici,- dettati quasi da una differente umanità - e quelli europei "le contrapposizioni identitarie", come moderni (è sufficiente parlare di Balcani, di Ucraina o dell'egoismo odierno dei paesi europei?).
E questa è forse la descrizione più tenebrosa che Reybrouck ci lascia cadere nel piatto, un mondo "uguale" dove gli stessi fattori (stati in grave difficoltà economica, corruzione, leadership immature o miopi, circolazione delle armi e ricerca del profitto ad ogni costo), portano allo stesso risultato, né antico né moderno, solo spietato.

(1) molto chiara in questo senso l'intervista di Guido Caliron all'autore per il Manifesto del 2/10/2014

Massimiliano Scudeletti

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