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lunedì 16 aprile 2018

Miriam, che non si chiama più Miriam

Immaginatevi anche voi la scena: un compleanno importante di una persona anziana a cui siete molto legati, per esempio vostra madre o vostra nonna.  Secondo la liturgia famigliare, arriva il momento della torta, del brindisi, del regalo. Solo che la festeggiata spiazza tutti prendendo le distanze dal nome con cui è sempre stata conosciuta. Che storia c'è dietro? E' ciò che succede con le persone avanti con l'età o c'è altro?

Ecco, è una frase così, semplice e disorientante, che dà il titolo al bel libro della scrittrice svedese Majgull Axellsson, Io non mi chiamo Miriam (Iperborea). Frase che è soprassalto di memoria e fischio iniziale di una difficile partita tra verità e menzogna.

No, Miriam non è Miriam: per tutta la sua seconda vita, iniziata molto molto tempo prima, ha portato un nome che non è il suo. Non si chiama così questa elegante signora che oggi compie 85 anni.

Nella prima vita Miriam si chiamava Malika e non era ebrea, ma rom. Non cambiava molto dal punto dei vista dei nazisti, che entrambi i popoli provvidero a sterminare nei campi di concentramento. Ma questa è la storia di Malika che nei giorni del massacro, per salvarsi, si spacciò per una ragazza che non ce l'aveva fatta. E benché incredibile - salvarsi prendendo l'identità di una ebrea, in quanto tale destinata all'annientamento - scampò ad Auschwitz e cominciò una nuova vita in Svezia. Per tutti Miriam, sopravvissuta ebrea.

Quante storie che si intrecciano in questo libro. Con questa ragazza rom che diventa adulta ebrea c'è tutta la storia di un popolo - anzi, di due popoli - dai massacri nazisti alle discriminazioni del dopoguerra, persino nella civilissima Svezia. Eppure prima ancora che un libro sulla deportazione e sull'odio razziale questo libro mi sembra un libro sull'identità. Sui nomi che ci plasmano. Sulle bugie con cui a volte impastiamo le nostre vite. Sui tentativi di separarci da ciò che siamo, quasi sempre votati all'insuccesso.

Ho pensato spesso a lei. A Miriam. La persona di cui ho vissuto la vita. Così dice a un certo punto Miriam che non è più Miriam, ovvero Malika che sta riprendendosi ciò che è giusto riprendersi. E in questo dire dopo tanto non dire c'è molto su cui riflettere. 
 

venerdì 26 gennaio 2018

Dalla Svezia al Grand Canyon, storia del pittore vagabondo

Ogni vita umana è un labirinto. Se si trova l'ingresso, ci si può aggirare dentro all'infinito.

A un  certo punto è giusto fermarsi e interrogarsi su quanto si sta facendo. Lo fa anche Fredrik Sjöberg, scrittore svedese per cui la casa editrice Iperborea ha già proposto un paio di libri - uno dei quali, L'arte di collezionare le mosche, raccomando caldamente.

Lo fa ne L'arte della fuga, nel bel mezzo della storia che sta provando a raccontare, non senza esitazioni, anzi, con il sospetto in fondo di essere un ficcanaso, un profanatore di tombe: sentimento che comprendo e condivido anch'io, ogni qual volta uno è alle prese con la vita di una persona. Che cosa si sta davvero facendo?

Ecco, questo mi piace in particolare di un libro che, malgrado il titolo, non si muove sulla scia di un capolavoro di qualche anno fa quale L'elogio della fuga di Henri Laborit. Non è un saggio sui piaceri e le opportunità del cambiar vita e levare le tende. Piuttosto è un modo per dipanare le vicende di un tale Gunnar Widforss, inquieto acquarellista propenso al vagabondaggio e destinato a rifarsi un'altra vita in Nord America. Dimenticato in Svezia e in Europa, ma artista quotato sull'altro continente, è l'uomo che si taglia i ponti alle spalle e punta sull'altrove come un ago magnetico.

Curiosa parabola di vita, quella di Gunnar, che dalle isole di Stoccolma passa alla wildernss dell'Arizona e del Colorado fino a costruirsi una reputazione come il paesaggista per antonomasia dei parchi nazionali americani. Tanto che un giorno il suo nome sarà dato a una delle cime del Grand Canyon.

Curiosa parabola, davvero. E certo, facciamo bene a interrogarsi su quanto si sta facendo, chiedersi se è giusto ficcare il naso in questo modo. Ma è anche un piacere insostibuile divagare rispetto alla nostra vita, balzando così in quelle altrui.

domenica 7 maggio 2017

Lungo i confini, per capire l'Europa che è e forse sarà

Comincia con un mappamondo in precario equilibrio nella stanza del figlio, assediato da pastelli colorati e da tante domande, ma diventa presto un lungo viaggio, anzi una sequenza di viaggi, non in Europa, ma intorno all'Europa.

Comincia interrogandosi sulla frontiera perduta - illusione di tutti coloro che, come il sottoscritto, hanno pensato a un'altra Europa dopo la caduta del Muro di Berlino - ma inevitabilmente si ritrova a fare i conti con i confini che da allora si sono persino moltiplicati e spesso sono anche diventati muro e filo spinato.

Ed è lì, ai margini dell'Europa, in luoghi che fino a qualche tempo fa era facile ignorare, che si può comprendere meglio cosa l'Europa è diventata, cosa siamo diventati noi.

Che bel libro che è Sui confini. Europa, un viaggio sulle frontiere di Marco Truzzi, pubblicato da Exòrma, casa editrice che difficilmente sbaglia un colpo. Nonostante il titolo, che odora di saggio, è un libro di viaggio, un gran libro di viaggio. Dall'Europa che è in Africa, nell'enclave spagnola di Melilla, dove preme la disperazione di un intero continente, all'Europa che si sottrae all'Europa dell'ordinata e indifferente Svizzera. Dal nord della Scandinavia, dove davvero non è tutto oro quello che luccica e dove anzi il gioco delle identità e delle esclusioni si è fatto complesso, fino ai luoghi della disperazione di Calais e Idomeni. Lungo frontiere nuove e vecchie, confini dimenticati e poi ritornati di attualità, per raggiungere alla fine il luogo che non è frontiera segnata sulle mappe, ma che più di tutti è frontiera, anzi frattura, taglio netto tra un prima e dopo, luogo dove l'Europa è morta e da lì ha provato a rinascere: Auschwitz.

Bello, bello davvero questo libro, che sa sfuggire alle tentazioni del discorso autoreferenziale, delle tesi precostituite, della dimostrazione di ciò che si voleva dimostrare. Che si fa occhi che non si stancano di guardare, dita che cercano su una carta una destinazione che non si era messa in conto, domande alimentate da una salutare curiosità.

E l'autore - insieme all'amico Angelo, fotografo e compagno di viaggio - non si tira mai indietro. E nella scrittura c'è con tutte le emozioni che in viaggio del genere può destare. Non solo infinita tristezza, ma anche capacità di raccontare e raccontarsi con umorismo. Se non ci credete, leggete le pagine sui due dispersi in una qualche strada di una Svezia che è quasi Norvegia: con la Volvo in panne e le renne che forse sono alci.....

Ci ho ritrovato tante delle cose che anch'io ho provato a scrivere, magari nei libri con Tito Barbini, da Caduti dal Muro a I sogni vogliono migrare. Ma questo non c'entra, quello che conta è che questo è un libro che fa bene leggere. 

lunedì 26 settembre 2016

Lombrichi e uva passa per una vita di talento

Ecco tutto quel che occorre, magari insieme a una certa serenità e al dono di sapersi rallegrare delle piccole cose, qualche volta anche proprio di niente.

Mi aveva già stregato con L'arte di collezionare mosche, Fredrik Sjoberg, ora si ripete con un altro libro dal titolo improbabile, Il re dell'uvetta, proposto ancora una volta da Iperborea. Con lui sembra proprio di uscire di casa con un retino per la caccia alle farfalle, non sapendo bene cosa succederà davvero. Magari quel retino si userà solo per provare a catturare la luce che sorprende le cose e le rende più incantevoli.

Entomologo, scienziato affabulatore, collezionista di insetti con lo spirito dell'artista, uomo catturato da sogni quali la possibilità di scrivere la storia naturale delle notti d'estate, questa volta il nostro ci spinge a inseguire la vita di tale Gustaf Eisen, personaggio oscuro e multiforme vissuto a cavallo di Ottocento e Novecento tra Svezia e California.

Eisen era uomo di grande talento, messo al servizio di singolari passioni. E anche uomo capace di inventarsi più volte la sua vita. Da zoologo è stato uno dei più grandi studiosi di lombrichi - e come dimenticare la vocazione allo studio delle mosche di Sjoberg? Però è stato anche grande viaggiatore, consulente di Darwin, amico di Strindberg, pioniere della coltivazione dell'uva passa in California, collezionista di tessuti maya del Guatemala, ecologista che per primo ha evocato la necessità di tutela delle sequoie, sedicente scopritore dell'oggetto che più di tutti ha destato fantasie e ossessioni, il Santo Graal... Basta?

Genio ed eccentricità, questo è stato Eisin e questo è ciò che ci racconta Sjoberg, che parlando di Eisin, parla spesso anche di se stesso e delle sue passioni. Bizzarre e marginali, ma capaci di abitare un cuore, magari fin dall'adolescenza.

Tanto quello che conta è starsene fermi ad aspettare le storie. Prima o poi - dice - tutto sembra far parte di uno stesso puzzle. Tanto la felicità può celarsi dove meno ci si aspetta, dove c'è il niente piuttosto che il tutto.

lunedì 26 ottobre 2015

Collezionare mosche, abbracciare il mondo

Tutti nell'intimo siamo collezionisti di mosche, anche se non ce ne siamo mai accorti.

Per accorgersene, o almeno per cominciare a coltivarne il sospetto, è consigliatissimo questo libro, uno dei più curiosi, strampalati, indefinibili, affascinanti che mi siano capitati negli ultimi anni. Già dal titolo, che sembra congegnato per mettere in fuga qualsiasi aspirante lettore che non rientri nel novero (immagino ristretto) degli appassionati di entomologia: L'arte di collezionare mosche. Autore lo svedese Fredrik Sjoberg, editore, come al solito per quanto riguarda i piccoli grandi libri che arrivano dal Nord, Iperborea.

Cosa sia davvero questo libro non è facile dirlo. Anzi, non ci sono riuscito nemmeno terminata la lettura: ed è parte importante del suo fascino. Romanzo, saggio, chiacchiera e divagazione.

C'è un'isola meravigliosa dell'arcipelago intorno a Stoccolma. C'è l'autore con il suo vizio di collezionare insetti, anzi, mosche, anzi una specifica famiglia di mosche, i sirfidi, che abbondano su quell'isola idilliaca. E da questi esseri viventi che quasi sempre sono per noi solo una fonte di fastidio se non di disgusto, quali pensieri, quali riflessioni sulla vita e tutto ciò che abbiamo dentro e ci circonda.

C'è grande umorismo, in queste pagine. Ma con la leggerezza ci sono anche tante cose importanti: perché dalle mosche, vai a capire come, si arriva a parlare di paesaggi dell'anima, di lentezza, di poesia dell'attesa. Si vola verso luoghi lontani, che l'immaginazione e la lettura  ci permettono di raggiungere, tanto da arrivare fino a una remota penisola siberiana il cui nome io avevo appreso solo sul Risiko. E ci scoprano tante figure curiose e dimenticate, esploratori e scienziati.

Può bastare? Sono convinto che a rileggerlo ne scoprirò, di altre cose


venerdì 11 settembre 2015

In quella Svezia dove tutto era diverso

Questa non è una religione per fondatori di Stati, è qualcosa di privato, un pensiero; diamo un'idea, se viene recepita da altre comunità va tutto bene, possiamo scomparire, come la foschia del mattino al sorgere del sole.
Non ci siamo più. Ma siamo in tutti voi 


Questo era lo spirito che animava il pastore Lewi Pethrus, questa era la sua volontà. Mettersi in cammino, senza sapere dove sarebbe arrivato. E in quel cammino, rinnovarsi nel profondo. In quel cammino, deporre i semi di un'altra vita.

Fu un lungo viaggio, quello di Lewi, grande riformatore religioso nella Svezia dei primi del Novecento, quando la Svezia non era affatto la Svezia che oggi ci viene in mente, socialdemocrazia e welfare state, Abba e movida scandinava.

Viaggiò in un paese, viaggiò nella storia, viaggiò nel bene e nel male, non per costruire una Chiesa, perché solo il viaggio contava, alla fine. Non per obbedire alla Bibbia, perché anche la Bibbia era un'incompiuta e attendeva di essere rinnovata.

Per Olov Enquist, lo scrittore che noi conosciamo meglio per lo straordinario Il medico di corte, questa storia ce la racconta tutta ne Il viaggio di Lewi, in Italia pubblicato - è quasi scontato - da Iperborea. E ci regala così un altro libro a metà tra la biografia e il romanzo, con qualche dose di memoria personale.

E magari ci si può anche perdere, in questo libro troppo lungo e non sempre coinvolgente. Però che storia che è questa, che attraversa anche le prime lotte sociali in Svezia, i sindacati che cominciano a organizzarsi, la nobiltà e la miseria di un mondo intellettuale.

Poeti che si convertono, religiosi che tradiscono. Umiltà e ambizioni. Visioni celesti e mense per poveri. E alla fine, alla fine, la stessa immagine con cui comincia il libro, quel cimitero - anzi, quel campo di Dio - con le lapidi battute dal vento e le lettere ormai illegibili.

Anzi, con quell'unico epitaffio che ancora si legge:

Era umile, ma fece del suo meglio.

A futura memoria. E anche per ogni giorno che ci viene donato.

mercoledì 6 maggio 2015



Jean: C'è una differenza tra di noi.
Julie: Perché tu sei un uomo e io una donna? Che differenza c'è?
Jean: La differenza, tra un uomo e una donna.

Trovata su una bancarella, acquistata e riletta in un'ora di treno, durante la quale mi si sono ridestati alcuni vaghi ricordi di una remota lettura liceale. Non so se da studente ne fossi rimasto colpito come ora: è presumibile di no, e non solo per il pregiudizio che accompagna i titoli imposti. Piuttosto, a quell'età, è chiaro, non ci si fa ancora a spaziare sulle distese della desolazione umana. E' bella per questo, quell'età.

E ora eccomi di nuovo tra le mani la Signorina Julie di August Strindberg (Adelphi). Un'opera che non sembra vero che sia potuta venire fuori dalla Svezia puritana della seconda metà dell'Ottocento.

La notte di San Giovanni, festa, ebbrezza, sensi più liberi del solito. Attrazioni e rimorsi, provocazioni e sopraffazioni. Eros e opportunismo. La spietata guerra tra i sessi e le gerarchie della società: la signorina Julie e il domestico Jean. Passioni, vibrazioni, parole che sono un fiume in piena verso una livida alba. Tutto in una notte, come il titolo di un film. Tutto in un atto.

Vertigini e convinzioni che vanno a pezzi. "Le mie anime - scrisse Strindberg nella prefazione - sono mescolanze di stadi culturali passati e presenti, brani di libri e di giornali, pezzetti d'uomini, lembi di abiti da festa ridotti a stracci, così come le anime stesse sono rattoppate".

Ora capisco un po' di più cosa intendesse. 

lunedì 27 aprile 2015

Ascoltando i Beatles in mezzo alla tundra

Palaja, al Nord del Nord, in mezzo alla tundra. Terra immensa che si fa fatica a racchiudere in una pagina dell'atlante, terra di distanze e di vuoto in mezzo. Terra che è facile dimenticare, tanto che vuoi che ci sia laggiù, se non neve e silenzio e manciate di uomini che non si capisce nemmeno bene di cosa vivono.

Palaja, per di più non oggi che certe cose sono più facili, perché si accende un monitor e ci si affaccia su un mondo di cui è evidente che si fa parte. No, Palaja agli inizi degli anni Settanta. Quando hanno appena cominciato ad asfaltare le strade.

Solo che con le strade capita che possa arrivare qualcos'altro. Magari un 45 giri - chi sa oggi cosa erano i 45 giri? - con una canzone dei Beatles o del grande Elvis. Che musica quella musica. Note che hanno attraversato il mondo, saltato ogni confine, attraversato la tundra come un lupo solitario, per arrivare quassù, a Palaja. Per arrivare e prendere domicilio nei cuori di alcuni ragazzi.

Tenero, divertente, spiazzante, anche un po' acerbo, questo Musica rock da Vittula di Mikael Niemi, enorme successo in Svezia, decisamente meno qui in Italia, dove, è chiaro, lo ha pubblicato Iperborea.

Raccomandato a chi non è convinto che la letteratura da export della Svezia debba essere sempre e comunque gialla - ovviamente gialla scandinava. Raccomandato a chi subodora che un romanzo del Nord non debba raccontare solo di coriacei taglialegna, di renne, di vokda a fiumi. Raccomandato a chi lo sa già che una storia di giovani e rock non debba per forza essere ambientata in una periferia di Londra o di Manchester, perché ovunque va bene.

domenica 30 marzo 2014

Le tre regole del poliziotto all'ultima indagine

"Sì" disse Jarnebring. "Ma negli ultimi giorni mi sei sembrato del tutto normale, e a volte si direbbe che tu abbia persino acquistato un lato umano".

"Ci sono tre cose che non ho dimenticato" disse Johansson, che sembrava non aver fatto caso all'ultima osservazione del suo migliore amico. "Il giorno in cui le dimenticherò, per me sarà la fine".

"Quali sarebbero?" chiese Jarnebring.

"Tirare fuori il meglio da ogni situazione, non complicare inutilmente le cose, diffidare delle coincidenze".

(Leif GW Persson, L'ultima indagine, Marsilio)

venerdì 19 luglio 2013

Dal cranio di Cartesio all'avventura delle idee

Un giorno chiuse i libri e partì, perché aveva deciso di non andar cercando altra scienza se non quella che avrei potuto trovare in me stesso, o nel gran libro del mondo.

Nemmeno lui, che certo non mancava di presunzione, avrebbe scommesso su ciò che l'attendeva: quella vertigine di scoperta, quel fiume straripante di novità forgiate dall'intelletto, quella sensazione di aver dato la spinta definitiva a un mondo vecchio di secoli, se non di millenni. Si chiamava Cartesio, e con il suo Discorso sul Metodo, fondò una nuova visione del mondo, il battesimo della modernità.

Anni dopo, nel 1650, il più gelido inverno che la Svezia ricordi, lo troviamo morente, forse per una polmonite. Un uomo ancora aggrappato alla vita, furioso con la malattia che gli sta sottraendo le carte che ancora vorrebbe giocare, indispettito con la regina Cristina, che lo ha invitato a Stoccolma, segnando la sua sorte. Tutta la sua scienza non gli servirà a vincere la partita a scacchi con il destino.

Le ossa di Cartesio di Russel Shorto (edizioni Longanesi) incomincia da qui, da quella notte in cui il grand'uomo che ha rivoluzionato il nostro modo di pensare, così come fece Aristotele per gli antichi, si congeda dal mondo.

Non è una biografia di Cartesio, è una storia di ciò che rimane di lui dopo la morte: e nemmeno un ragionamento sulla filosofia. Questa è la storia dei suoi resti mortali, tra riesumazioni e successive tumulazioni, e soprattutto la storia di una scomparsa inspiegabile, quella del suo cranio.

Roba da specialisti che hanno tempo da perdere? Da eruditi che collezionano particolari più o meno inutili? No, assolutamente, perché da questa storia, apparentemente marginale, si squaderna la più grande avventura, quella appunto delle idee che sgomitano per imporsi al mondo.

Dice Russel Shorto nella prefazione di aver cominciato per caso, la volta che si imbattè in una curiosa figura di antropologo, quel tipo di persone che ti possono far venire il mal di testa, ma che poi, all'improvviso, ti tolgono senza preavviso la comoda poltrona del tuo punto di vista abituale.

Che bel libro, questo. Un libro che mi entusiasma ancora di più per ciò che c'è dietro. Il dettaglio che si insinua per caso nella vita, che diventa passione o forse ossessione, montagna di dubbi, di domande sul tempo perso, sulle energie prosciugate, tranne poi spalancare un orizzonte.

martedì 18 giugno 2013

Lo svedese che fece del suo meglio

Questa non è una religione per fondatori di Stati, è qualcosa di privato, un pensiero; diamo un'idea, se viene recepita da altre comunità va tutto bene, possiamo scomparire, come la foschia del mattino al sorgere del sole.
Non ci siamo più. Ma siamo in tutti voi


Questo era lo spirito che animava il pastore Lewi Pethrus, questa era la sua volontà. Mettersi in cammino, senza sapere dove sarebbe arrivato. E in quel cammino, rinnovarsi nel profondo. In quel cammino, deporre i semi di un'altra vita.

Fu un lungo viaggio, quello di Lewi, grande riformatore religioso nella Svezia dei primi del Novecento, quando la Svezia non era affatto la Svezia che oggi ci viene in mente, socialdemocrazia e welfare state, Abba e movida scandinava.

Viaggiò in un paese, viaggiò nella storia, viaggiò nel bene e nel male, non per costruire una Chiesa, perché solo il viaggio contava, alla fine. Non per obbedire alla Bibbia, perché anche la Bibbia era un'incompiuta e attendeva di essere rinnovata.

Per Olov Enquist, lo scrittore che noi conosciamo meglio per lo straordinario Il medico di corte, questo viaggio ce lo racconta tutto. E con Il viaggio di Lewi ci regala ci un'altra storia, un altro libro a metà tra la biografia e il romanzo, con qualche dose di memoria personale.

Magari ci si può anche perdere, in questo libro troppo lungo e non sempre coinvolgente. Però che storia che è questa, che attraversa anche le prime lotte sociali in Svezia, i sindacati che cominciano a organizzarsi, la nobiltà e la miseria di un mondo intellettuale.

Poeti che si convertono, religiosi che tradiscono. Umiltà e ambizioni. Visioni celesti e mense per poveri. E alla fine, alla fine, la stessa immagine con cui comincia il libro, quel cimitero - anzi, quel campo di Dio - con le lapidi battute dal vento e le lettere ormai illegibili.

Anzi, con quell'unico epitaffio che ancora si legge: Era umile, ma fece del suo meglio

A futura memoria. E anche per ogni giorno che ci viene donato.

venerdì 1 giugno 2012

Non basta il Nobel per un giallo così e così

Insomma, insomma, lo sapete che questi gialli del Grande Nord mi stanno venendo un po' a noia? Non vorrei gufare - e spero proprio di no anche per i bilanci di case editrici nostrane come la Marsilio - però mi sa che la grande onda della Scandinavia si stia ormai ritraendosi.

Prendete Il testamento di Nobel di Liza Marklund, che non è nemmeno male e che non manca certo degli ingredienti giusti. Un incredibile delitto nel giorno del grande ricevimento per il Premio Nobel, cosa che ci permette di dare uno sguardo negli ambienti e nei riti che accompagnano uno dei più grandi riconoscimenti internazionali. Un killer spietato che si muove negli ambienti della ricerca scientifica. Il mondo del giornalismo svedese raccontato con attenzione e competenza. E anche altro....

Però che dire, alla fine di tante pagine mi sembra che rimanga poco. Non può bastare una protagonista come Annika, giornalista alle prese non solo con un delitto, ma anche con i problemi del lavoro e con diverse relazioni complicate (ma anche con la difficoltà di conciliare professione e figli, rompicapo quotidiano che in effetti ci aspetteremmo più in Italia che in Svezia). Non possono bastare nemmeno il racconto della vita di Alfred Nobel, il padre del premio, uomo di affari che avrebbe voluto di più dall'amore e dall'arte.

Stringi stringi alla fine non rimane molto. Se non con qualche rimpianto, per un libro che prometteva di più e per il tempo che ci hai investito. Peccato.

martedì 20 dicembre 2011

Ascoltando i Beatles nel Nord del Nord

Come abitanti di Palaja eravamo la retroguardia, lo si capiva fin dall'inizio.L'atlante si apriva con lo Scania, in scala gigante, tutta costellata di trattini rossi che rappresentavano le strade e di pallini neri che indicavano i centri abitati. Seguivano le altre regioni in scala regolare, salendo sempre più a nord man mano che si sfogliava il libro. Per ultimo veniva il Norrland settentrionale, riprodotto in scala extra-ridotta per riuscire a entrare nella pagina, e con a malapena qualche trattino e pallino. Quasi in cima alla carta c'era Pajala, circondata da una tundra marroncina, ed era lì che vivevamo noi

Palaja, al Nord del Nord. Terra immensa che si fa fatica a racchiudere in una pagina dell'atlante, terra di distanze e di vuoto in mezzo. Terra che è facile dimenticare, tanto che vuoi che ci sia laggiù, se non neve e silenzio e manciate di uomini che non si capisce nemmeno bene di cosa vivono.

Palaja, per di più non oggi che certe cose sono più facili, perché si accende un monitor e ci si affaccia su un mondo di cui è evidente che si fa parte. No, Palaja agli inizi degli anni Settanta. Quando hanno appena cominciato ad asfaltare le strade.

Solo che con le strade capita che possa arrivare qualcos'altro. Magari un 45 giri - chi sa oggi cosa erano i 45 giri? - con una canzone dei Beatles o del grande Elvis. Che musica quella musica. Note che hanno attraversato il mondo, saltato ogni confine, attraversato la tundra come un lupo solitario, per arrivare quassù, a Palaja. Per arrivare e prendere domicilio nei cuori di alcuni ragazzi.

mercoledì 17 agosto 2011

In quella Svezia in cui tutto era ancora diverso

Questa non è una religione per fondatori di Stati, è qualcosa di privato, un pensiero; diamo un'idea, se viene recepita da altre comunità va tutto bene, possiamo scomparire, come la foschia del mattino al sorgere del sole.
Non ci siamo più. Ma siamo in tutti voi.


Questo era lo spirito che animava il pastore Lewi Pethrus, questa era la sua volontà. Mettersi in cammino, senza sapere dove sarebbe arrivato. E in quel cammino, rinnovarsi nel profondo. In quel cammino, deporre i semi di un'altra vita.

Fu un lungo viaggio, quello di Lewi, grande riformatore religioso nella Svezia dei primi del Novecento, quando la Svezia non era affatto la Svezia che oggi ci viene in mente, socialdemocrazia e welfare state, Abba e movida scandinava.

Viaggiò in un paese, viaggiò nella storia, viaggiò nel bene e nel male, non per costruire una Chiesa, perché solo il viaggio contava, alla fine. Non per obbedire alla Bibbia, perché anche la Bibbia era un'incompiuta e attendeva di essere rinnovata.

Per Olov Enquist, lo scrittore che noi conosciamo meglio per lo straordinario Il medico di corte, questa storia ce la racconta tutta ne Il viaggio di Lewi, in Italia pubblicato - è quasi scontato - da Iperborea. E ci regala così un altro libro a metà tra la biografia e il romanzo, con qualche dose di memoria personale.

E magari ci si può anche perdere, in questo libro troppo lungo e non sempre coinvolgente. Però che storia che è questa, che attraversa anche le prime lotte sociali in Svezia, i sindacati che cominciano a organizzarsi, la nobiltà e la miseria di un mondo intellettuale.

Poeti che si convertono, religiosi che tradiscono. Umiltà e ambizioni. Visioni celesti e mense per poveri. E alla fine, alla fine, la stessa immagine con cui comincia il libro, quel cimitero - anzi, quel campo di Dio - con le lapidi battute dal vento e le lettere ormai illeggibili.

Anzi, con quell'unico epitaffio che ancora si legge:

Era umile, ma fece del suo meglio

A futura memoria. E anche per ogni giorno che ci viene donato.

giovedì 4 agosto 2011

Quel sangue versato nella civilissima Scandinavia

E allora, è giusto diffidarne, perchè quando è moda è moda, e da un pezzo si parla fin troppo di gialli scandinavi, sembra che per scrivere un bel giallo, soprattutto un giallo che aspiri a tirature ambiziose, si debba essere per forza nati in Svezia o in Norvegia, è così che funzionano le cose.

Un titolo da prendere con le molle - Il sangue versato. Una casa editrice - la Marsilio - che dagli scandinavi si è fatta portare lontano come un windsurf dal vento di quei mari. E poi un autore, Asa Larsson, che confondevo con un altro Larsson (Stieg), consacrato da tutti e da tutto (compreso la morte prematura). Autore, peraltro, che di mestiere fa (o faceva) l'avvocato fiscalista: non il primo mestiere che ti viene in mente per uno scrittore.

E invece che bel libro che è questo. Un libro dove c'è il sangue del titolo, certo, ma senza esagerare. Soprattutto c'è il grande Nord, quello delle brevi estati di straordinaria  luce e degli inverni che sono una notte che non finisce più. Distese di silenzio, di solitudine, di grandezza. Un altro mondo, rarefatto ma non necessariamente pacifico. Slanci mistici, bevute, zanzare. Un pastore protestante che è come nitroglicerina per gli equilibri di una comunità. Pacifiche tradizioni e diritti negati, anche qui.


E sapete, meglio, molto meglio del Larsson degli Uomini che odiano le donne. Anche se fa pensare, questa storia che si ripete, donne vittime, uomini carnefici, proprio nella civilissima Scandinavia.

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