
Ecco, è una frase così, semplice e disorientante, che dà il titolo al bel libro della scrittrice svedese Majgull Axellsson, Io non mi chiamo Miriam (Iperborea). Frase che è soprassalto di memoria e fischio iniziale di una difficile partita tra verità e menzogna.
No, Miriam non è Miriam: per tutta la sua seconda vita, iniziata molto molto tempo prima, ha portato un nome che non è il suo. Non si chiama così questa elegante signora che oggi compie 85 anni.
Nella prima vita Miriam si chiamava Malika e non era ebrea, ma rom. Non cambiava molto dal punto dei vista dei nazisti, che entrambi i popoli provvidero a sterminare nei campi di concentramento. Ma questa è la storia di Malika che nei giorni del massacro, per salvarsi, si spacciò per una ragazza che non ce l'aveva fatta. E benché incredibile - salvarsi prendendo l'identità di una ebrea, in quanto tale destinata all'annientamento - scampò ad Auschwitz e cominciò una nuova vita in Svezia. Per tutti Miriam, sopravvissuta ebrea.
Quante storie che si intrecciano in questo libro. Con questa ragazza rom che diventa adulta ebrea c'è tutta la storia di un popolo - anzi, di due popoli - dai massacri nazisti alle discriminazioni del dopoguerra, persino nella civilissima Svezia. Eppure prima ancora che un libro sulla deportazione e sull'odio razziale questo libro mi sembra un libro sull'identità. Sui nomi che ci plasmano. Sulle bugie con cui a volte impastiamo le nostre vite. Sui tentativi di separarci da ciò che siamo, quasi sempre votati all'insuccesso.
Ho pensato spesso a lei. A Miriam. La persona di cui ho vissuto la vita. Così dice a un certo punto Miriam che non è più Miriam, ovvero Malika che sta riprendendosi ciò che è giusto riprendersi. E in questo dire dopo tanto non dire c'è molto su cui riflettere.
Prendete Il testamento di Nobel di Liza Marklund, che non è nemmeno male e che non manca certo degli ingredienti giusti. Un incredibile delitto nel giorno del grande ricevimento per il Premio Nobel, cosa che ci permette di dare uno sguardo negli ambienti e nei riti che accompagnano uno dei più grandi riconoscimenti internazionali. Un killer spietato che si muove negli ambienti della ricerca scientifica. Il mondo del giornalismo svedese raccontato con attenzione e competenza. E anche altro....
Però che dire, alla fine di tante pagine mi sembra che rimanga poco. Non può bastare una protagonista come Annika, giornalista alle prese non solo con un delitto, ma anche con i problemi del lavoro e con diverse relazioni complicate (ma anche con la difficoltà di conciliare professione e figli, rompicapo quotidiano che in effetti ci aspetteremmo più in Italia che in Svezia). Non possono bastare nemmeno il racconto della vita di Alfred Nobel, il padre del premio, uomo di affari che avrebbe voluto di più dall'amore e dall'arte.
Stringi stringi alla fine non rimane molto. Se non con qualche rimpianto, per un libro che prometteva di più e per il tempo che ci hai investito. Peccato.