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mercoledì 20 novembre 2013

Domenico Quirico: chi ha viaggiato in Africa può capire

Chi ha viaggiato in Africa può capire: Lei ti batte nel petto e tiene desti tutti i tuoi demoni, quando torni a casa il cuore non riesce a riabituarsi al quotidiano, ci metti mesi a decidere chi vuoi essere.

Non puoi mai dare per finito un libro di viaggio, ed è questo che fa battere così forte la mia anima quando chiudo Frobenius.

Forse, come lui, non tornerò più a quelle savane, ai fiumi belli e terribili, ai duri deserti assolati.

Ma so, come lui, che viaggiare ti allunga la vita, la riempie di volti e di paesaggi, di canti di suoni, di leggende e di orizzonti che ignoravi.

Le tue vecchie idee crollano e ne nascono di nuove.

Viaggiare in fondo è scoprire che tutti sbagliano, quando viaggi le tue convinzioni cadono con la stessa facilità degli occhiali, solo che è più difficile rimetterle al loro posto con un semplice gesto. 

(Domenico Quirico, da Che menzogna l'Africa dei selvaggi, su Tuttolibri della Stampa)

giovedì 26 settembre 2013

Se anche il grande Thoreau non vendeva un libro

Consoliamoci: nemmeno il grande Henry David Thoreau, l'autore del Walden, classico della letteratura americana, in vita riuscì a godere di meritata fortuna.

Qualche tempo fa l'ha ricordato Gianni Riotta, su Tuttolibri, nell'ottimo articolo La ruvida America e il suo profeta, con cui ci ha presentato l'edizione italiana di un intrigante reportage di Thoreau, Cape Cod, uscito per Donzelli.

Intendiamoci, a complicare le cose ci si mise anche un carattere che proprio mite non doveva essere, se è vero, per esempio, che una volta Thoreau troncò brutalmente e irrevocabilmente i rappori con la rivista Atlantic per una riga, una riga sola, tagliata in un intero lavoro.

Fatto sta che in vita riuscì a pubblicare appena due titoli. E per uno di essi - Una settimana sui fiumi Concord e Merrimack - l'insuccesso fu tale che l'editore costrinse Thoreau a ricomprarsi le 706 copie invendute delle mille stampate.

Che l'amarezza del commento di Thoreau aiuti almeno a non deprimersi troppo per i tempi correnti, tanto non è che altri tempi fossero assai meglio:

Ho adesso in soffitta una biblioteca di 900 volumi: 700 scritti da me

sabato 23 giugno 2012

Se con il dono si crea una società

Cosa spinge gli uomini a donare? Cosa spinge chi riceve un dono a ricambiare?

Meno male. Dopo tanto discutere di interessi e di utilità, quali molle dell'economia e perfino della civiltà, guardate cosa succede: si torna a parlare di dono.

Al dono si dedicano libri e  perfino festival, come la recente edizione dei Dialoghi sull'uomo di Pistoia. Sul dono spuntano nuove teorie, che si fanno largo sulle rovine dei tanti disastri che si sono consumati. Gli economisti non lo liquidano più come roba di un altro mondo che non è il nostro mondo. Gli antropologi ne discutono come qualcosa che non riguarda solo qualche cultura tribale ormai estinta. Figurarsi, può essere perfino una ricetta buona per la nostra società così dissestata. Qualcosa che può funzionare in tempi di crisi.

Cosa spinge gli uomini a donare? Cosa spinge chi riceve un dono a ricambiare?

A queste domande provò a rispondere quasi un secolo fa il grande etnologo francese Marcel Mauss, con il suo Saggio sul dono. Pensare che si era occupato soprattutto di tribù dell'Oceania ancora aggrappate a credenze magiche.

Le stesse domande le riprende oggi Marco Aime, in un bellissimo intervento - intrigante anche il titolo: Sono quel che dono - pubblicato su Tuttolibri. Ed ecco cosa risponde:

Il valore del dono sta nell'assenza di garanzie da parte del donatore. Un'assenza che presuppone una grande fiducia negli altri. Il valore del controdono sta nella libertà: più l'altro è libero, più il fatto che ci donerà qualcosa avrà valore per noi quando ce lo darà. Ecco che il dono diventa in questo caso promotore di relazioni. Ciò che spinge a donare è la volontà degli uomini di creare rapporti sociali, perché l'uomo non si accontenta di vivere nella società e di replicarla come gli altri animali sociali, ma deve produrrre la società per vivere.

Capito il trucco? Perderai qualcosa, donando qualcosa, ma in cambio ricevi una società intera.

domenica 3 giugno 2012

Mai guardare al futuro come a un nuovo presente

E' vero, a forza di guardare al nuovo che avanza, c'è il rischio di dimenticare ciò che avevamo già raggiunto, almeno come consapevolezza. Guardate per esempio a tutto il parlare che si è fatto in questi mesi sui rapporti tra Rete e letteratura. Non era stato già Italo Calvino, nelle sue Lezioni americane, a parlare di conoscenza e persino di romanzo come rete? E il web avrebbe visto la luce solo 10 anni più tardi....

Lo ha ricordato Gianni Riotta in un suo bell'articolo su Tuttolibri alla vigilia del Salone del libro di Torino:

Dite che Wikipedia ha inventato l'autore collettivo? Macché, già Bibbia, Odissea, Mahabharata, fiabe e ciclo di re Artù avevano un autore collettivo.

Insomma, le cose sono in movimento, ma non necessariamente questo movimento significa tagliare le proprie radici. E non necessariamente le profezie che si avverano ci allontanano dal passato. Sempre che si avverino, perché sentite cosa ci dice ancora Gianni Riotta:

Quanto ai predicatori di sventura digitale non ascoltateli troppo: nel 1894 il Times di Londra previde che entro il 1950 la città sarebbe stata sepolta da tre metri di sterco di cavallo.
Non calcolava l'auto, perché chi guarda al futuro come a un nuovo presente sbaglia. Sempre.


Il che è anche maledettamente confortante.



 

venerdì 18 maggio 2012

Il libro con cui abbiamo scoperto gli adulti

Bella la domanda che qualche tempo fa Tuttolibri ha rivolto a Eric-Emmanuel Schmitt, l'autore di libri quali Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano, La parte dell'altro, La donna allo specchio:

E lei su quali libri ha scoperto il mondo adulto?

Ha risposto così, Eric-Emmanuel Schmitt:

Sui Tre moschettieri. Avevo nove anni, sono rimasto folgorato. Mi riconoscevo in ognuno di loro ed è allora che ho scoperto la molteplicità che c'è in ognuno di noi... La pena per la morte di D'Artagnan è stato il mio primo lutto. Poi, mi sono appassionato ai drammi di Shakespeare e Amleto mi ha lasciato il segno perché è la tragedia di chi non riesce a scegliere e dunque ad agire.

Bella domanda, domanda che mi piacerebbe posta a tutti gli scrittori. Anzi a tutti noi. Facciamocela, questa domanda. Tutti noi abbiamo il libro che ci ha spinto dentro il mondo adulto. Che ci ha cambiato, solo per il fatto di finire sotto i nostri occhi e di rubarci il sonno.

Quale libro, quali libri. Così ne sapremo di più anche su di noi.

venerdì 4 maggio 2012

I Caraibi con i versi di Omero e Dante

E' uno dei più grandi poeti viventi, premio Nobel per la letteratura 1992, viene da una periferia del mondo, anche se una periferia di mari cristallini e spiagge bianche, dove i nuovi villaggi turistici congiurano a far dimenticare le baracche di sempre.

E' di St. Lucia, isola dei Caraibi, il grande Derek Walcott, e nel suo sangue circola il sangue degli schiavi. La sua lingua - la lingua della sua poesia - è l'inglese: parole dei vecchi coloni bianchi per versi che hanno la forza del riscatto.

E' questo il mondo di Derek Walcott: i Caraibi, con le loro bellezze mozzafiato e le sconvolgenti sofferenze. Però provate a interrogarlo sui debiti della poesia del suo mondo, come ha fatto recentemente Paolo Bertinetti, per Tuttolibri:


Anche se siamo caraibici, per quanto riguarda la poesia Omero e Dante sono i nostri antenati, i nostri veri antenati.

Non so se noi europei riusciremmo mai a dire qualcosa del genere, e forse non importa. E non credo che sia cosa solo di Derek Walcott,cioé di chi, con Omeros, ci ha regalato una rivisitazione dei poemi omerici filtrata attraverso le luci e i suoni dei Tropici (scrivendola per di più nelle terzine che furono di Dante).

Vero, Walcott e Walcott. Però è bello pensare a una radice comune, a un tesoro di bellezza che è di tutti, che importano le lingue e le latitudini.

mercoledì 14 marzo 2012

Che sia stato Goethe a inventare il compleanno?

Happy birthday to you.... è il tuo compleanno e pare la più naturale delle cose che sia un giorno speciale, un giorno da segnare sul calendario, soprattutto da far segnare agli altri sul calendario, un giorno in cui è naturale lasciarci andare, auguri, regali e magari anche qualche pennellata di malinconia, al cospetto del tempo che passa, che poi passerà anche domani, e domani l'altro... happy birthday to you.

E invece no, che sia un giorno speciale non è scontato, non lo è scontato per lo meno guardando retrospettivamente alla nostra storia, visto che non è poi da molto che il compleanno viene ricordato e soprattutto festeggiato. In fondo è un'invenzione anche questa. E L'invenzione del compleanno, giustappunto, è il titolo del libro che un grande storico come Jean-Claude Schmitt ha pubblicato per Laterza.

E dunque nel Medioevo non c'è proprio traccia di festeggiamenti. Sant'Agostino si opponeva fermamente al festeggiamento. E non era certo la classica voce fuori dal coro. Come ricorda Stefania Bertola su Tuttolibri in generale i cattolici trovavano più opportuno festeggiare il giorno della morte, in assenza del festeggiato.

E dal punto di vista di chi non crede all'altra vita: perché festeggiare un giorno che, nel caso, più degli altri pare avvicinarti alla fine di tutto?

E' nel Cinquecento e nel Seicento che le cose cambiano. E' un lungo cammino, che alla fine molto deve a Goethe, proprio lui, e alla sua singolare decisione di festeggiare il compimento dei 53 anni in famiglia, con tanto di candeline: un gesto di sconsiderato e amorevole ottimismo, un caparbio attaccamento alla vita così com'è e che duri il più possibile.

venerdì 17 febbraio 2012

Ma dov'è l'Ulisse di James Joyce?

Dicono che sia una festa per i filologi ma che per tutti gli altri le questioni che pone sono da rompersi la testa.

Dicono che per quanti sforzi si faccia per restituirlo alla sua versione originale non si arriverà mai da nessuna parte, perché è impossibile provare a ricostruire un testo perfetto che non esiste o non esiste più.

Dicono che non ci si può fare proprio niente, perchè lo stesso James Joyce continuò a correggerlo e ricorreggerlo senza sapere più, a un certo punto, cosa aveva davvero tra le mani.

E comunque c'è poco da fare, tanto è un libro che è un'impresa leggere, lasciato lì anche da alcuni dei più grandi estimatori. Lo stesso Hemingway si sperticava in lodi ma lo lasciò dopo poche pagine.

Chissà quante cose si può dire e non dire dell'Ulisse di Joyce. Tutto questo, tra l'altro, me lo rende quasi divertente.


Tuttolibri ha parlato recentemente della nuova edizione proposta dalla Newton Compton, proponendo il confronto tra il suo incipit e quello della classica traduzione di Mondadori, una cinquantina di anni fa.

Così cominciava quest'ultima:

Solenne e paffuto, Buck Mulligan comparve dall'alto delle scale, portando un bacile di schiuma su cui erano posati in croce uno specchio e un rasoio. Una vestaglia gialla, discinta, gli levitava delicatamente dietro.

E così comincia la nuova traduzione:

Statuario, il pingue Buck Mulligan spuntò in cima alle scale, con in mano una ciotola di schiuma su cui giacevano in croce uno specchio e un rasoio. La vestalia gialla, slacciata, era lievemente sostenuta alle sue spalle dall'aria delicata del mattino.

Ma di quale libro stiamo parlando?





lunedì 30 gennaio 2012

Lo storico che scelse il Medioevo per un frigorifero

E dunque, per prima cosa invidia, perchè darei molto per entrare anch'io nella casa di Jacques Le Goff, a Parigi, diciannovesimo arrondissement, anche solo per smarrirmi tra gli scaffali, indugiare tra i suoi libri e le sue pipe, centellinare quell'idea di silenzio profondo, laborioso, da cui sono germogliati libri che ci hanno raccontato il Medioevo come se ci si fosse dentro.

Però messa da parte l'invidia, è da leggere tutta la bella intervista che al grande storico ha fatto Alberto Mattioli, pubblicata sull'ultimo numero di Tuttolibri.

E per dire, è con queste righe che ho imparato che se il grande storico ha scelto la storia è per merito di un frigorifero.

A me piace la storia che ti vedi passare davanti agli occhi, afferma Le Goffe, raccontando della sua vita da ragazzino, anni Trenta, quando nella città dove abitava, Tolone, le ghiacciaie cominciarono a sparire, sostituite dai frigoriferi.

Era un avvenimento storico, perché cambiava la vita quotidiana, la vita delle persone, molto più delle guerre e dei Re.

Un frigorifero, ma poi anche un libro, Ivanhoe di Walter Scott. Uno di quei libri che leggi da ragazzo e che ti possono conquistare. Fino a scegliere di dedicare un'intera vita al Medioevo, come ha fatto Le Goff.

Tanto anche questa può essere storia che vedi passare davanti agli occhi. Anche questa è storia che puoi abitare. Dipende solo da te.

sabato 24 dicembre 2011

Il Golfo dei Poeti e il mare degli antichi Greci


Fa impressione incontrare sulla spiaggia di Lerici, dove è nato e vive, un personaggio così fuori del tempo.

E che emozione, quell'incontro, così come lo racconta Alessandra Iadicicco, sulle pagine di Tuttolibri, e che nonè con un autore di best-seller, uno di quelli che scala le classifiche e va in televisione. Angelo Tonelli, figurarsi, è un filologo, mestiere oscuro e faticoso, anche se dalla splendida etimologia: amico della parola. E' stato allievo del filosofo Giorgio Colli, da sempre si immerge nelle pagine di Kant, Nietzsche e Schopenhauer (e non so se questo possa essere misura di una vita serena), ma soprattutto è il grande traduttore dei Greci classici. Con undici anni di paziente lavoro ha consegnato alla nostra lingua tutte le tragedie di Eschilo, Sofocle, Euripide.

Non possiedo nessuna competenza che possa arrivare all'altezza delle sue scarpe. Ma mi piace quell'incontro, mi piace quella scelta di vita non in una città di librerie ed editori, ma là, con il Mar Ligure davanti, e Portovenere, le Cinque Terre, il Golfo dei Poeti che Tonelli ha ribattezzato Golfo degli Dei, perchè a volte la mitologia riesce anche in questo, riesce a stendere la sua tavolozza dei suoi colori anche sul mondo in cui viviamo.

E allora il Mar Ligure potrebbe davvero essere l'Egeo, il mare solcato dagli eroi della guerra di Troia. Quel mare, o un altro mare, quello delle parole che possono essere oceano e viaggio che dura una vita.

martedì 13 dicembre 2011

Thoreau e i suoi 700 volumi in soffitta

Consoliamoci, nemmeno il grande Henry David Thoreau, l'autore del Walden, classico della letteratura americana, in vita riuscì a godere di meritata fortuna.

Lo ricorda Gianni Riotta, su Tuttolibri, nell'ottimo articolo La ruvida America e il suo profeta, in cui ci presenta l'edizione italiana di un suo intrigante reportage, Cape Cod, uscito per Donzelli.

Intendiamoci, a complicare le cose ci si mise anche un carattere che proprio mite non doveva essere, se è vero, per esempio, che una volta Thoreau troncò brutalmente e irrevocabilmente i rappori con la rivista Atlantic per una riga, una riga sola, tagliata in un intero lavoro.

Fatto sta che in vita riuscì a pubblicare appena due titoli. E per uno di essi - Una settimana sui fiumi Concord e Merrimack - l'insuccesso fu tale che l'editore costrinse Thoreau a ricomprarsi le 706 copie invendute delle mille stampate.

Che l'amarezza del commento di Thoreau aiuti almeno a non deprimersi troppo per i tempi correnti, tanto non è che altri tempi fossero assai meglio:

Ho adesso in soffitta una biblioteca di 900 volumi: 700 scritti da me


giovedì 1 dicembre 2011

Quell'autobiografia è prima di tutto una copertina

Che bello andare così in controtendenza. Mentre tutti cantano le magnifiche sorti e progressive del libro smaterializzato, della parola strappata alla carta e lasciata andare libera sulla Rete, da qualche tempo su Tuttolibri spicca una bella rubrica di Marco Belpoliti: La copertina.

Insomma, non una rubrica sui libri, nel senso di quello che c'è dentro: saggio o poesia o romanzo, trama e personaggi e così via. Ma il libro inteso, amato, raccontato nella sua splendida materialità. Oggetto che è bello guardare, toccare, sfogliare, sistemare al posto giusto in libreria.

Guardate per esempio come Belpoliti parla di Prima della fine di Ernesto Sabato, libro che inaugura la più che promettente collana-casa editrice Sur:

Per comporre nome dell'autore e titolo si usano solidi caratteri commerciali ottocenteschi, un egizio e un bastone condensato, e un Bodoni Poster per il numero sul dorso; mentre nell'interno il testo è in un attualissimo Miller del 1997 disegnato da Matthew Carter con capolettera nella prima pagina

Non sono sicuro di aver capito tutto, però c'è qualcosa di straordinariamente bello in tutto questo. Anche senza pensare che questo è un libro del grande Sabato, un'autobiografia scritta sul ciglio dell'esistenza, una doccia di malinconia che il giallo della copertina sembrerebbe quasi scacciare, benché il giallo, a ben vedere, sia anche il colore degli esclusi e degli emarginati.

lunedì 10 ottobre 2011

La vera amicizia che sa dirsi addio

In attesa di cercarmelo in libreria leggo su Tuttolibri quanto Marco Belpoliti ci dice de Gli amici non si danno del tu di Bruno Moroncini (edizioni Cronopio).

A dire il vero, Belpoliti parla soprattutto dell'eleganza e dell'equilibrio della copertina pensata da questa piccola casa editrice. E mi piace che in questi tempi in cui si parla - e straparla - di editoria digitale ci sia ancora possibilità per una riflessione che ci ricorda che un libro è anche la carta (e il cartoncino della copertina) con cui è fatto, è oggetto che si presta al tatto, è piacere per tutti i sensi.

Ma questo è un altro discorso, quello che mi intriga davvero di questo testo è il suo girare intorno al concetto di amicizia, relazione oggi assai meno oggetto di attenzione di altre, di interesse o di amore che siano. E lo fa recuperando la vita e l'opera di Maurice Blanchot, intellettuale francese scomparso nel 2004 e ormai uscito dal cono di luce.

Blanchot era uno che affermava che sono i compagni e i camerati che si danno del tu, mentre gli amici usano rigorosamente il lei. Cosa che suona strana, solo che poi aggiungeva che l'idea di amicizia oggi dominante deriva dall'idea greca di philia, cioé rimanda alla reciprocità e alla simmetria, però quello che conta è piuttosto l'alterità. La vera amicizia si basa non sul riconoscersi uguali, ma sulla differenza.

Ce n'è da meditarci sopra. L'amicizia non è un colpo di fulmine, diceva Blanchot. Vera amicizia è solo quella che sa dirsi addio. Quante cose che ci possono essere in poco più di 40 pagine... 

lunedì 4 luglio 2011

La Cornovaglia, il corvo e la mia immaginazione

Ha cominciato il suo volo nella stagione indefinita del mito, quando il suo corpo è diventato l'involucro che ripara l'anima di re Artù. E', si dice, la ragione per cui i corvi volano per il cielo d'Inghilterra indisturbati, nessuno li tocca, ignorando quale di loro sia il mitico sovrano che un giorno tornerà in fattezze umane a regnare sul paese

Che bello il viaggio immaginario che rileggo in un vecchio numero di Tuttolibri. Marta Morazzoni lo dedica a una delle terre che più di tutte pare svanire dietro le nebbie dei tempi remoti e delle leggende, la Cornovaglia. Dimostrazione, ancora una volta, che ci sono molti modi di viaggiare; e che uno dei migliori è senz'altro conquistarsi un posto sul tappeto volante dell'immaginazione.

Non mi sono mai spinto in quella punta estrema dell'antica Britannia, protesa nell'Atlantico con la determinazione di un Occidente che non accetta niente oltre di sé: e prima o poi, voglio sperare, riuscirò a colmare questa lacuna. Eppure in Cornovaglia mi pare di essere stato molte altre volte, sfidando gli scogli battuti dall'Oceano e molte altre insidie. Ho inseguito re Artù senza mai sospettare che potesse essere un corvo che volava alto. Mi sono accompagnato ai cavalieri della Tavola Rotonda. Ho cercato la mia Camelot, reggia fantastica che è un po' il Santo Graal dei castelli.

Per quello che valgono i buoni propositi, questo inverno voglio anche rituffarmi nei romanzi cortesi di Chrétien de Troyes, così da ritrovarmi con vecchi amici quali Lancillotto e Percival.

E insomma, vedremo: ma è bello che esistano terre straordinarie anche solo per ciò che evocano.

Ps: a proposito di corvi e di Cornovaglia, come non dimenticare anche Gli uccelli di Daphne du Maurier, da cui il grande Hitchcock trasse ispirazione per uno dei più terribili incubi cinematografici? Ci sono molti modi per viaggiare, ma anche molti modi in cui i sogni possono declinarsi...

sabato 25 giugno 2011

Se la lingua è la prigione del traduttore

Lo sapete, il mestiere del traduttore mi ha sempre affascinato, sarà che personalmente ho sempre zoppicato con le lingue, sarà che mi sembra di cogliere nel passaggio di un libro da una lingua all'altra qualcosa che sa allo stesso tempo di magia e di invenzione.

Ora su Tuttolibri mi sono imbattuto su una bella intervista di Alberto Papuzzi a Lodovico Terzi, scrittore ma, nel caso, soprattutto grande traduttore di classici inglesi (Defoe, Stevenson, Swift, per dirne solo alcuni).

E' un modo per entrare nel retrobottega di questo mestiere e magari per capire come tradurre possa diventare davvero un mestiere. Dice Terzi che la sua prima traduzione de L'isola del tesoro la fece da ragazzo, dopo aver conosciuto una coetanea inglese, tanto per addestrarsi all'uso della lingua. Pensate, se oggi possiamo godere delle sue traduzioni forse lo dobbiamo solo a una cotta estiva....

E questo mi piace. Ma il passo più interessante dell'intervista ha a che vedere con quella che è di fatto una battaglia di libertà. Dice Terzi:

Siccome ogni lingua è un universo che non coincide mai con l'universo di un'altra lingua, una cosa importante che ho imparato traducendo è che una lingua non è soltanto un meraviglioso strumento per esprimersi, ma anche una prigione, un vincolo, un limite all'espressione. Il lavoro del traduttore è di trascendere questo limite, di aprire questa prigione

Bella questa idea di una lingua come di un universo e allo stesso tempo come di una prigione. Bella l'idea che il traduttore sia la persona che può offirci la chiave per aprire quella prigione e consegnarci a quell'universo.

giovedì 19 maggio 2011

Quando l'"invincibile" è proprio Don Chisciotte

Non inseguite i vincitori, perché i vincitori prima o poi cadono, i vincitori finiscono sempre per assaggiare la polvere, per masticare amaro, per misurare il vuoto che si spalanca improvviso. Cercate altri eroi, altri modelli: più inattuali forse, più veri certamente. I perdenti che si rialzano, per esempio. Chi cade e si rimette in piedi pronto a cadere di nuovo, nel caso. Don Chisciotte, per esempio. Anzi Chisciotte, senza nemmeno il Don.

E' un buon consiglio che ci arriva da Erri De Luca, a cui Tuttolibri ha chiesto un libro di ieri per i giovani di domani. E lui si è ricordato di Nazim Hikmet e di quel verso - tu sei il cavaliere invincibile degli assetati - dedicato appunto a Chisciotte

Invincibile lui che ha perso tutte le sue battaglie: possibile? Sicuro: invincibili non sono quelli che detengono primati e supremazie, perché da quei gradi e gradini presto o tardi rotolano giù. E si sgretolano come le meringhe, i pretesi vincenti. Invincibili sono al contrario quelli come Chisciotte, vinti innumerevoli volte che si rialzano e si battono di nuovo. Invincibili sono quelli che non si danno per vinti

Personaggi inattuali, vien da dire. O forse no.... Forse più attuali che mai. Più necessari che mai.

giovedì 5 maggio 2011

Con i libri la seconda volta è un delitto

Attenzione a rileggere i libri che anni fa ci hanno fatto sognare....

In una bella intervista su Tuttolibri Massimo Carlotto racconta delle molte letture che lo hanno accompagnato nel periodo in cui, ingiustamente accusato, è stato in carcere. Libri che davvero hanno dato sostanza a quanto affermava, tra gli altri, anche Cesare Pavese:

La letteratura è in grado di rappresentare una difesa contro le offese della vita

E parla di uno dei libri che hanno segnato anche i miei giorni da ragazzo, Massimo Carlotto, e dice:

Mi aveva poi conquistato  "Cent'anni di solitudine" di Gabriel Garcìa Marquez che ho ripreso in mano di recente e ho trovato di una noia mortale

Noia mortale? Possibile?

Possibilissimo. Ed è per lo stesso motivo che quel libro non lo più nemmeno avvicinato, semmai insistendo a ripetere tra me e me frammenti di frasi ed emozioni, accarezzando magari l'idea di pagine come quella del colonnello (era colonnello?) Aureliano Buendia, con i suoi pesciolini e le sue trentadue (trentadue?) rivoluzioni fallite. Per lo stesso motivo nemmeno ai miei amatissimi libri di Emilio Salgari sono più voluto tornare, eh sì che sono ancora con me.

Con i libri che ci hanno fatto sognare, con i libri in cui siamo precipitati dentro, ne sono sicuro, non dobbiamo essere il postino che suona due volte. Non dobbiamo mai tornare sul luogo del delitto, per scoprirci colpevoli almeno almeno di un tradimento.

giovedì 17 marzo 2011

Se il nemico di turno non è l'Austria

Pasquale Villari, un conservatore illuminato che sapeva mettere il dito nella piaga, pochi anni dopo l'Unità di Italia (qualcosa devo dire anch'io, in questo giorno in cui si celebrano i 150 anni), diceva che c'era nel seno della nazione un nemico più potente dell'Austria, la nostra ignoranza.

Allora tre italiani su quattro erano analfabeti e bisognerà aspettare gli albori del Novecento per scendere sotto la soglia del 50 per cento (ricavo questi dati da un bell'articolo di Giovanni Solimine su Tuttolibri). Le biblioteche dell'intero Regno erano solo 250, per di più non certo pensati per diffondere la cultura, piuttosto per tenere sotto chiave volumi preziosi.

Se uno sta a questi numeri, le cose oggi sono cambiate, come no. Sulla carta le biblioteche sono circa 16 mila, eppure, eppure, quanto siamo lontani da tanti altri paesi della nostra Europa. Solo l'11 per cento frequenta una biblioteca e del resto solo il 46,8 per cento degli italiani ha letto almeno un libro: e che tristezza, in quell'almeno.

Uno potrebbe dire, almeno ci sono le biblioteche, questi presidi di civiltà, questi avamposti di una società davvero civile. Poi si legge che la Nazionale di Firenze, la più importante istituzione bibliotecaria di Italia, ha un bilancio di soli 2 milioni di euro, contro i 254, per dire, dell'analoga realtà di Parigi.

Credo che il confronto sia ugualmente impietoso, scendendo alle piccole biblioteche di paese o di quartiere.

E oggi? Oggi pare che il 70 per cento degli italiani non sappia comprendere un semplice testo o compilare un modulo (non dico capire una lettera della nostra burocrazia, che si sa, quella è l'antilingua di Italo Calvino).

E ci sarebbe bisogno di nuovi Pasquale Villari, a mettere il dito nella piaga, a proclamare che no, no davvero, il nemico non è l'Austria, né paese equipollente.

sabato 18 dicembre 2010

Aldo Nove e la vita salvata da Hegel

Voi dite, come si fa a salvarsi la vita con Hegel? Come si fa non dico a cogliere nei rigori della sua filosofia un orizzonte, una possibilità, un'alternativa che abbia a che vedere con i nostri giorni, non dico questo, ma solo a trovare tra le sue pagine un porto sicuro, l'ombra di un sollievo?

Non mi verrebbe mai in mente. Hegel sono le interrogazioni da evitare al liceo. Gli sbadigli per prepararsi a quelle stesse interrogazioni. L'idealismo tedesco da rifuggire come la peste, tanto sono elevate e distanti quelle idee, idee tanto idee che assomigliano alle pareti dell'Himalaya.

Eppure sentiti che racconta a Tuttolibri uno come Aldo Nove, scrittore che voglio conoscere di più, vita che ha conosciuto altre vite - immagino sciagurate - prima di quella dello scrittore affermato:

Allora l'eroina sembrava una forma di vita alternativa a differenza della cocaina che aiuta a integrarti, a lavorare. C'era anche la musica a farmi compagnia: i Joy Division, The Cure, Lou Reed e David Bowie. Ascoltavo e mi immergevo nei Paradisi artificiali di Charles Baudelaire, nelle Confessioni di un mangiatore d'oppio di Thomas de Quincey, mi gustavo  Timothy Francis Leary, il guru delle droghe psichedeliche, e Aldous Huxley, gran sostenitore degli allucinogeni e "padre spirituale" del movimento hippie. Però ero anche innamorato della filosofia di Hegel, delle sue bellissime pagine sulla natura. E proprio questo interesse mi portò fuori dalla tossicodipendenza

Non so voi, ma queste parole mi hanno gettato una nuova luce su Hegel. Ora sto scrutando i suoi ritratti con una certa curiosità. Con una certa gratitudine, anche. Come se le sue pagine fossero una delle migliori dimostrazioni  - se anche con Hegel ci si riesce... - che i libri, davvero, i libri possono cambiarci la vita, mica scherzi...

lunedì 13 settembre 2010

Azar e quella libertà che scorre nelle vene

Leggevo sotto le coperte, con la borsa dell'acqua calda. A pancia in sotto. Abbracciavo i libri, mi ci scaldavo

Poi c'è chi dice che sono solo libri. Che magari sono un buon modo di ammazzare il tempo, di farlo in modo perfino elegante, però insomma, c'è ben altro nella vita. Se ne può prescindere, no? Anche per arredare il salotto ormai funzionano meno.

A chi così dice vorrei trasmettere tutta l'emozione che a mia volta è riuscita a trasmettere la bella intervista di Giovanna Zucconi a Azar Nafisi, pubblicata da Tuttolibri con un titolo che già la dice molto lunga:  I libri? Sono la libertà che corre nelle vene

Azar Nafisi forse non è un nome conosciutissimo in Italia, ma per quanto mi riguarda è lei che mi ha regalato una delle letture più intense e commoventi degli ultimi anni: Leggere Lolita a Teheran (Adelphi). Un libro che mi ha fatto capire più di tante altre cose che leggere può essere pratica di libertà, battaglia di dignità, possibilità di dare parola alla parte migliore di noi stessi.

Azar Nafisi è nata a Teheran, è stata la prima donna eletta nel Parlamento iraniano e ha anche insegnato all'Università prima di esserne espulsa.

Nella sua intervista a Giovanna Zucconi parte dalla scoperta, fatta insieme al babbo, della parola scritta:

Quando ero piccolissima, avevo forse tre anni, mio padre alla sera si sedeva accanto al mio letto e mi leggeva Ferdusi, il grande poeta epico iraniano di oltre mille anni fa. E' la poesia, la nostra identità

Abbiamo bisogno di voci così, pulite e coraggiose. Abbiamo bisogno di atti di amore per i libri.

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...