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sabato 11 giugno 2016

Annie Ernaux, per salvare il tempo in cui non saremo mai più

Salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più.

Questo è il tempo, questo fa il tempo. Col tempo svaniranno le nostre immagini, le foto che custodiamo gelosamente nei nostri album, le foto con cui siamo finiti negli album degli altri, svaniranno come stanno svanendo, come sono svanite, le foto dei nostri genitori, dei nostri nonni.

Questo è il tempo, questo fa il tempo. Col tempo si annienteranno le parole con cui abbiamo nominato le cose, le persone, le azioni e i sentimenti, le parole con cui cui abbiamo provato a dare un senso, se non un ordine, al mondo.

Questo è il tempo, questo fa il tempo. Però poi ci sono altre parole, che il tempo lo riescono a raccontare. Certo non lo fermano il tempo, però sono come acqua nel grande fiume. Fanno in modo che anche noi si sia acqua che discende e va verso il mare. Senza sofferenza, senza nemmeno eccessi di nostalgia.

Parole come queste. Parole di un libro che considero un capolavoro: Gli anni di Annie Ernaux (L'Orma editore).  Parole, pagine in cui mi son tuffato. Poi la corrente mi ha portato via dolcemente per consegnarmi all'ultima riga. Questa, appunto:

Salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più.

Libro che non so nemmeno definire, come succede con i libri più grandi. Libro che non è né autobiografia né saggio né cronaca collettiva, ma qualcosa di tutto questo e altro ancora. Certo straordinariamente capace di amalgamare in un'unica narrazione i fatti della vita privata e i fatti della storia. Di alternare la terza persona singolare alla prima persona plurale (mai la prima persona singolare): e anche questo qualcosa vorrà dire.

Libro che è semplicemente la vita. La mia stessa vita, anche se non sono una donna, non sono francese e ho qualche anno in meno. La mia vita, quale vorrei raccontare. Sicuro dello stesso epilogo:

Sarà il silenzio, e nessuna parola per dirlo, Dalla bocca aperta non uscirà nulla. Né io né me. La lingua continuerà a mettere il mondo in parole.

Sicuro di questo epilogo, ma senza rimpianto.




martedì 3 settembre 2013

Le fotografie del "pericolo pubblico numero uno"

In più qualche vecchia foto, anch'essa con i segni del tempo: i contorni che hanno perso il nitore, il bianco e nero ingrigito, le screpolature che solcano i volti e le fisionomie, inevitabili malgrado tutta la cura con cui sono state custodite. Allo stesso modo delle foto conservate negli album dei vostri nonni. Quelle che ogni tanto saltano fuori dai bauli in soffitta o dalle pagine di un libro dove sono rimaste per mezzo secolo. E che capita di trovare anche ai mercatini delle pulci, nelle scatole da scarpe dove una volta si raccoglievano le cartoline postali.

Mi intriga il mistero delle vite fermate in un'inquadratura. Soprattutto ai tempi in cui la fotografia era una posa, un'occasione speciale, una cerimonia da abito buono. Mica come oggi, con gli scatti a ripetizione degli apparecchi digitali o dei cellulari, che è un po' la pesca a strascico delle immagini.
 

Ora punta il dito, Bruna. Quindi me la porge, indice e pollice a stringere con delicatezza l'angolo: è questa la fotografia che vuole mostrarmi. Quasi facesse le presentazioni. E in un certo senso è così: lo vedo per la prima volta.
 

È lui, il babbo di Bruna: Ubaldo Cecchi.
 

Il delinquente di cui nel frattempo ho appreso qualcos'altro.
 

Ubaldo Cecchi: il grande ricercato, nella Firenze del dopoguerra. Colui che poliziotti e cronisti ebbero gioco facile a indicare come il pericolo pubblico numero uno.
 

Proprio così si diceva allora. Allo stesso modo che nel Far West di Tex Willer. 
Il pericolo pubblico numero uno.
 

Ubaldo Cecchi, il delinquente.
 

Distinto com'è, con quel sorriso da maschio latino, quell'espressione di chi la sa lunga, non si direbbe.

(da Paolo Ciampi, Il babbo era un ladro, Romano editore)

venerdì 18 marzo 2011

Quante donne che ci sono in Tina

Tina Modotti. Tina fotografa, Tina attrice, Tina rivoluzionaria, Tina amante appassionata, Tina che incrocia i luoghi e gli eventi della grande storia, Tina che dall'Italia degli emigranti arriva a Hollywood, Tina che incrocia la storia dell´Unione Sovietica, Tina semplicemente donna...

E quante donne che ci sono in Tina, quante storie, quanti sentimenti, quante possibilità di vita, quanti sogni e quante delusioni...

Ancora una volta c´e´ un libro che, raccontando la storia di questa vita mi permette di ritrovare qualcosa di Tina accanto a me. Lo ha scritto Pino Cacucci, si chiama semplicemente Tina, è bellissimo.

Una biografia che è più di una biografia e che infatti si legge come un romanzo. Perchè la vita di Tina Modotti è questa, una storia che non leggi e poi lasci lì, una storia che ti rimane dentro, a meditare cosa si vanifica e cosa può lasciare il segno in questa esplosione di creatività, di sensualità, di fame di riscatto sociale...

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...