
E' questa la prima immagine di un libro sorprendente, distillato di parole ed emozioni che ci porta nella Manciuria occupata dal Giappone. La giocatrice di go di Shan Sa (Bompiani) è un romanzo che in realtà è due romanzi, intreccio di due storie: lei la ragazza cinese che gioca a go, una vittoria dopo l'altra sotto lo sguardo diffidente e perplesso dei suoi connazionali; lui, il soldato dell'esercito imperiale che abbandona Tokio promettendo alla madre di scegliere la morte piuttosto che la vergogna.
Due persone che più distanti non si potrebbe immaginare: ma che gli eventi della Storia e le circostanze della vita avvicinano passo dopo passo, con la forza dell'ineluttabilità.
Sono loro, le pedine disposte nella scacchiera. Loro il bianco e il nero che mani invisibili muovono nel contesto di un gioco troppo grande e troppo crudele che mette di fronte due culture e due paesi in guerra.
Non ho più paura di nulla. Questa esistenza è solo una partita a go!
Un turbinio di eventi e di scelte che non sono scelte, fino al riconoscimento del destino che è al varco, fino all'accettazione di ciò che dovrà accadere.
E così arriva dalla Cina e mi prende di sorpresa una voce che mi porta lontano, alla ricerca di sintonie e corrispondenze. Fino in Argentina, fino al grande Borges, ai suoi scacchi, a quella scacchiera dove noi siamo i pezzi, mossi da giocatori che non sapremo mai riconoscere.
Forse era proprio questo, José Raùl Capablanca, uno dei più grandi campioni di scacchi di tutti i tempi, ma anche un uomo - e un personaggio - assolutamente distante dall'idea che abbiamo del campione di scacchi. Non una sorta di computer con i neuroni al posto dei bit, non una macchina pensante capace di calcoli ma non di emozioni.
Capablanca era ben altro, lo era già nelle sue origini, nel suo appartenere a un'isola come Cuba che pare non avere niente a che vedere con gli scacchi, perché gli scacchi, uno pensa, stanno bene in una Siberia dello spirito, freddo fuori e silenzio intorno a te, non al caldo dei Tropici, dove la vita scorre per strada, ed è pulsare di sangue, frenesia, passione accesa...
Così si pensa e invece ecco Fabio Stassi che con La rivincita di Capablanca (Minimun Fax) ci racconta una splendida storia di genio e sregolatezza.
Non un libro sugli scacchi, però: nessuna descrizione di partite, nessuna disquisizione su gambetti e arrocchi. Piuttosto una storia sulle passioni che possono annidarsi nel cuore dell'umano e segnarne la vita irrimediabilmente. Una storia di rivalità, di destini incrociati, di traguardi che si allontano all'ultimo istante, di obiettivi che sfumano come miraggi.
Capablanca e il suo avversario di sempre Aleksandr Aljechin, il russo che lo aveva battuto e che poi si rifiutò di accordargli la rivincita.
Una partita che non ci sarà mai - o forse sì, chissà. Perché gli scacchi sono come la vita, in cui non sai mai cosa è sogno, cosa realtà. Perché la vita - e qui mi tornano in mente gli scrittori del sogno mitteleuropeo, come Stefan Zweig e Arthur Schnitzler - è spesso davvero una partita a scacchi. E a volte è la possibilità di una partita, a volte una rivincita che non viene accordata.