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domenica 25 settembre 2016

Stephen King e l'autobiografia del mestiere della scrittura


On writing. Autobiografia di un mestiere è il libro che non ti aspetti da parte di Stephen King, maestro del fantasy e dell'horror, l'autore che da decenni sbanca le classifiche di tutto il mondo, con le sue storie perfette anche per il cinema (solo Shakespeare l'ha battuto quanto ad adattamenti cinematografici).
ficile da catalogare,

Più facile dire cosa non è: ovvero non una vera un'autobiografia e tanto meno un manuale per aspiranti scrittori. O almeno non solo questo.

Certamente un libro bellissimo, affascinante, con cui l'uomo che ci ha regalato tanti brividi ora ci incanta con la magia: quella che trasforma le parole in una storia.

Un libro buono per chi si cimenti con la scrittura, ma anche per chiunque ami la lettura e voglia tornare ai suoi libri con uno sguardo più allenato, più consapevole, perchè ha acquistato confidenza con gli "attrezzi del mestiere".

Delle tre sezioni del libro – Curriculum vitae, La cassetta degli attrezzi, Sul vivere – emoziona soprattutto la terza. Il racconto di una rinascita dopo un terrificante incidente, di un ritorno alla vita grazie alla scrittura. E anche questo ha il suo significato.

A proposito, a vincere una certa mia ritrosia verso il campione dei best-seller è stato proprio il sottotitolo: "autobiografia di un mestiere". Scrittura insomma come qualcosa che se non può sostituirsi alla vita è in grado comunque di nutrire la vita. Ma soprattutto scrittura come mestiere, come lavoro, come fatica, come paziente tessitura di storie e di idee e di parole, il tutto cucito con l'ago della passione.

Ecco qui, c'è questo nel libro di King, ora riedito da Frassinelli, niente a che vedere con un manuale di scrittura creativa, per intendersi, o con qualche consiglio elargito dall'altro della cattedra...

Bello e spiazzante, davvero.

mercoledì 24 giugno 2015

L'autobiografia dà senso ai nostri giorni



C'è un momento, nel corso della vita, in cui si sente il bisogno di raccontarsi in modo diverso dal solito.

Sono queste le prime righe di Raccontarsi. L'autobiografia come cura di sé  di Duccio Demetrio (Raffaello Cortina editore), libro che può davvero schiudere nuovi orizzonti, con molti buoni consigli per riprenderci in mano la vita.

Attenzione al sottotitolo: racchiude davvero il senso di questa opera. Di questo si parla: dello scrivere non per mettersi in mostra, nella speranza di un editore e di un lettore. Ma per se stessi, affidando a questo lavoro la possibilità di dare un senso ai propri giorni, di ordinare il passato e in questo modo di attrezzarsi per il futuro.

Quante sorprese che ci possono essere in questo cammino. Per esempio capire che in realtà la nostra vita andrebbe declinata alla prima persona plurale, non per smanie di grandezza alla Cesare, ma semplicemente (diciamo così, semplicemente) perché noi stessi siamo una molteplicità di identità. Perché nello stesso nostro passato siamo stati altri.

Del resto scriveva Fernando Pessoa, il grande portoghese: E sento che chi sono e chi sono stato sono sogni differenti.

Ecco, scrivere è cura, è attenzione. E' scoprire questo nostro sogno - questi nostri sogni - e imparare a conviverci. 

martedì 18 novembre 2014

La notte di Romain sarà calma

Ci sono persone che conosco a malapena che si confidano con me con una facilità davvero sorprendente. Non so proprio perché lo facciano: sono portato a credere che sia perché sanno che non sono della polizia.

Il mestiere di madre, lo sai, è piuttosto mal pagato. La mia, almeno, ha avuto diritto a un libro.

Sì, odio ogni forma di intransigenza morale, l'umano è una festa popolare.

Tutti possono sbagliare, come diceva il porcospino scendendo da una spazzola per abiti.

Conosco un uomo molto distinto che in tutta la sua vita non è mai riuscito a votare, perché dare un voto a un altro che non sia lui lo manda in bestia.


Ecco, potrei continuare per un pezzo, anzi, allungarmi in un post dietro l'altro di questo blog, citazione dopo citazione, prima di finirla. Ovvero, prima di esaurire questa autentica miniera di saggezza e provocazione, buon senso e trasgressione che è La notte sarà calma di Romain Gary (Neri Pozza).

Solo uno come lui poteva scrivere un'autobiografia così, un'autobiografia che non è un'autobiografia, ma l'ennesimo tiro mancino che si è concesso, nel corso di una vita in cui, tra moltissime cose fatte, forse si è impegnato davvero solo per fuggire da se stesso.

Ebreo lituano naturalizzato, ma anche quintessenza del francese secondo ogni stereotipo e aspettativa. Raffinato intellettuale e sovvertitore di ogni discorso davvero serio. Eroe di guerra e diplomatico quasi contro se stesso e certamente per il gioco delle circostanze. Scrittore acclamato ma anche deciso a nascondersi sotto molteplici nomi fittizi. Innamorato della vita e suicida, un giorno a Parigi, poche ore dopo aver acquistato e indossato una magnifica vestaglia rossa per non far notare troppo il sangue.

Chi è stato davvero Romain Gary? Nemmeno questa autobiografia, che non è un'autobiografia, ci sazia con le risposte, al contrario. Semmai ci abbaglia, ci seduce, ci depista. Ci lascia andare e poi, un attimo prima che sia troppo tardi, ci riprende. Figurarsi, un'autobiografia che in realtà è una finta intervista, con la parte dell'intervistatore assegnata a un amico di infanzia.

In fondo, lo stesso gioco degli pseudonimi con cui beffò perfino i giudici del Goncourt. La vita come un gioco maledettamente serio. Come del resto pretende anche il cognome, quello autentico. In russo bari non vuol dire forse "brucia"? La vita come gioco, la vita come fuoco.

Fiamme che a volte se ne stanno buone tra gli alari di un caminetto. E che altre volte non si lasciano controllare.

lunedì 11 marzo 2013

Quando Borges si ritrovò il suo primo libro

Il libro fu stampato in gran fretta in cinque giorni perché si rendeva necessario un nostro nuovo viaggio in Europa... fu pubblicato con grande disinvoltura.

Non c'era un indice e le pagine non erano numerate. Mia sorella fece una xilografia per la copertina, e ne feci stampare trecento copie. In quei giorni pubblicare un libro era un'avventura piuttosto privata.

Non mi venne neanche in mente di mandare delle copie alle librerie o ai critici. La maggior parte le regalai.

Ricordo uno dei miei metodi di distribuzione. Avendo notato che molti di quelli che andavano negli uffici di "Nosotros" (una delle più vecchie e più serie riviste letterarie dell'epoca) lasciavano i cappotti appesi agli attaccapanni dell'anticamera, portai cinquanta o cento copie ad Alfredo Bianchi, uno dei redattori.

Bianchi mi guardò stupefatto e disse: Non ti aspetterai mica che venda questi libri, vero? 

No, risposi, non sono pazzo fino a questo punto, pensavo di chiederti il favore di infilarne qualcuno nelle tasche di quei cappotti. Lui lo fece.

(Jorge Luis Borges, Abbozzo di autobiografia, a proposito della sua prima raccolta, Fervor de Buenos Aires, 1923)


mercoledì 14 novembre 2012

Quando Darwin smise di leggere Shakespeare

La domanda non è originale, ma vera e tale rimane anche se più volte me la sono posta: perché gli scienziati spesso e volentieri finiscono per voltare le spalle alla letteratura e all'arte?

(ovviamente vale anche il contrario: perché gli artisti e i letterati spesso e volentieri si dimostrano allergici alla scienza?)

Domanda che mi è balzata di nuovo incontro la scorsa domenica, leggendo la splendida pagina che su Repubblica Alessandro Baricco ha dedicato all'Autobiografia di Charles Darwin. C'è un passo, di Darwin e non di Baricco, che mi ha particolarmente colpito:

La mia mente sembra diventata una specie di macchina per estrarre delle leggi generali da una vasta raccolta di fatti, ma non riesco a capire perché ciò debba aver causato l'atrofia di quella parte del cervello da cui dipende il gusto estetico.

Da ragazzo Darwin era uno che leggeva Shakespeare e che si faceva conquistare da quelle pagine. Ma ora il giudizio su Shakespeare è terribile: lo trovo così insopportabilmente pesante da trarne disgusto. Che cosa è successo in mezzo, a parte il fatto che è diventato  lo scienziato che ha rivoluzionato le nostre idee?

Non ho letto l'autobiografia, mi sembra di capire che da essa emerga la figura di un uomo sereno, tutto sommato in pace con se stesso. Però proprio su questo si avverte un crampo di rimpianto:

La perdita di questi gusti è una perdita di felicità.

Ed eccolo Darwin, il grande scienziato, eccolo che si guarda indietro, senza che possa davvero tornare indietro, ecco ripromettersi ciò che non potrà più fare: se vivessi un'altra volta, mi costringerei a leggere poesia e ascoltare musica almeno una volta alla settimana.

Per non perdere questi gusti. Per non perdere la felicità. In un'altra vita.

giovedì 11 agosto 2011

Rudyard Kipling e le parole che lo rendevano felice

E così mi misi a fare esperimenti con il peso, il colore, il profumo e la qualità delle parole tra loro, sia leggendole ad alta voce affinché colpissero l'orecchio, sia sparpagliandole sulla pagina per attirare l'occhio. Non c'è un mio verso di poesia o prosa che non abbia rigirato in bocca fino a che la lingua non l'avesse limato e la memoria, dopo tutto questo recitare, non avesse automaticamente omesso il superfluo più evidente.
Erano queste le cose che mi tenevano occupato e mi rendevano felice


Questo era Rudyard Kipling, un grandissimo che troppe volte in Italia abbiamo frettolosamente catalogato come uno scrittore per ragazzi, quasi si volesse ostinatamente resistere alla magia della letteratura, alla sua capacità di rapirci, di portarci lontano, di portarci nel bel mezzo di storie buone per ogni età.

Ci ha fatto un bel regalo l'editore Barbés a riproporci questa autografia che Kipling scrisse solo pochi mesi prima di morire, senza aver il tempo di concluderla e correggerla, lui che le parole doveva rigirarsele in bocca.


Meglio così, se questo ci offre un racconto in prima persona che non sceglie strade oblique e persegue la sincerità sempre e comunque. E' vero, dal limite della vita ci si può confessare per quello che siamo, senza secondi fini. E Kipling lo fa con il giusto distacco e una bella dose di ironia (e autoironia), che serve, come no.

Senza presunzione, e con la consapevolezza di aver beneficiato dei numeri giusti sulla ruota della vita.
(Se ripenso al passato, adesso che ho settant'anni, mi sembra che ogni carta della mia vita lavorativa mi sia stata distribuita in modo tale da non poter fare altro che giocarla così come veniva)

Con questa consapevolezza, ma tenendosi ancora ben stretto il tesoro della sua infanzia. Datemi i primi sei anni della vita di un bambino, afferma Kipling, e tenetevi pure il resto.

E forse è proprio questo che facciamo anche noi, quando ancora una volta ci lasciamo incantare dal Libro della Giungla o dalle storie del folletto Puck.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...