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lunedì 27 maggio 2019

Due ragazzi, due amici, nell'inferno a Est

Non c'era quasi vento e aveva smesso di nevicare; a una certa distanza, dove il fumo dello scappamento del taxi soffiava sulla strada, il negozio di fiori risplendeva illuminato, e sebbene i fiocchi di neve fossero caduti senza rumore, disperdendosi muti, a un tratto ci fu ancora più silenzio.

Da dove cominciare? Forse proprio dalla fine, da un mazzo di fiori portato in un cimitero una sera di inverno, tanti anni dopo. Oppure no, meglio cominciare da dove la storia comincia davvero, dalla primavera che sboccia e da due amici che si affacciano alla vita, Walter e Fiete. 

Germania del Nord, anno 1945, ultimi terribili mesi di una guerra che i nazisti hanno perso ma che intendono combattere fino alla fine, senza risparmiare e risparmiarsi nessun crimine. Walter e Fiete sono ragazzi di campagna, mungono mucche, sognano ragazze, fanno discorsi che sono i discorsi della loro età: forse la guerra gli passerà sopra o a lato, ci si può illudere.

Un giorno, strano, le SS organizzano una festa, ci sono barili di birra, un'orchestrina per ballare: però è solo un modo per reclutare chi ancora può servire all'esercito di Hitler. La Wehrmacht ormai è ridotta a questo, a spedire al fronte adolescenti senza peli della barba e dai corpi che spariscono in divise troppo larghe.

Dell'inferno che Walter e Fiete troveranno in Ungheria - gli ufficiali che tirano bombe sui talloni dei ragazzi per spmgerli all'attacco, le carneficine di un esercito allo sbando, i massacri di poveri contadini - non risparmia niente  Morire in primavera di Ralf Rothmann (Neri Pozza e poi Beat): per me uno dei libri più belli e toccanti sulla guerra di Hitler e sulla barbarie che inondò l'Europa. 

E già dire così mi sembra dire poco, senz'altro meno del dovuto: perché questo è anche un romanzo, scritto splendidamente, sulla giovinezza che è primavera di vita a volte destinata a pagare la sua esuberanza; sui sogni violati degli adolescenti; sull'amicizia che sa farsi coraggio; su ciò che rimane, malgrado tutto.

E sì: è un libro che mi piacerebbe suggerire ai ragazzi e alle ragazze di un'Europa sempre più smemorata.



 


 

domenica 17 febbraio 2019

Indagine sul padre, criminale di guerra

Per anni avevo esitato a svolgere queste indagini, forse per un inconscio timore di imbattermi, seguendo le sue tracce, in scoperte che avrebbero superato le mie aspettative, senz'altro giù cupe. 

Già in altri libri, su tutti Paesaggi contaminati, Martin Pollack non si è certo sottratto alla verità e al suo orrore. Qui però gioca davvero a carte scoperte, lasciandosi alle spalle ogni imbarazzo, più forte di ogni ricatto degli affetti e delle emozioni.

E forse ha esitato a lungo, prima di accingersi alla più difficile delle sue indagini, provare a fare verità anche tra le pareti di casa. Però dopo aver deciso è andato in fondo: il Morto nel bunker (Keller editore) è uno dei libri più intensi e veri su ciò che ha significato essere nazisti e far parte della macchina di sterminio di Hitler.

6 aprile 1947: in un bunker dalle parti del Brennero viene ritrovato il corpo di un uomo assassinato. E' il padre di Martin Pollack e lui non ha dubbi fin dall'inizio. La sua morte violenta - spiega - era la conclusione di una vita in cui la violenza aveva giocato un ruolo di primo piano.

Indagine su mio padre, così recita il sottotitolo di un libro che non fa sconti. Quel padre Martin Pollack non l'ha mai conosciuto, eppure la sua ombra - l'ombra di ciò che ha fatto negli anni più terribili - fin dall'inizio si è stesa su di lui. Il padre, ufficiale della Gestapo, membro delle forze speciali responsabili delle esecuzioni di massa dietro la linea del fronte, criminale di guerra.

Indagare sul padre, però, significa anche indagare su una famiglia dove il nazismo è riuscito a piantare radici salde. La cronaca familiare si mescola all'affresco storico, alle vicende di comunità di lingua tedesca fuori dalla Germania che dopo la dissoluzione dell'impero asburgico sono entrate in rotta di collisione con il mondo slavo, consegnandosi ai sentimenti nazionalistici più esasperati.

Una spirale di odio e violenza che culmina appunto nella carriera del padre. Sarebbe potuto andare diversamente? A quali condizioni?

Anche da queste domande si lascia inseguire Martin Pollack, senza perdere mai di vista il punto di vista di chi da quella macchina è stato stritolato.

Per la prima volta vedevo davanti a me delle vittime di mio padre e degli uomini ai suoi ordini, per a prima volta, belli o straziati, ebbero dei volti. 

Il resto è pietà, il resto è dovere della memoria: ovvero questo libro  crudele e appassionante. 

martedì 1 maggio 2018

Mengele, cuore di tenebra dall'Europa al Sudamerica

Questa è la storia di un viaggio che non avrebbe dovuto esserci, ma che andava comunque raccontato. La storia di un uomo - un uomo? - che cambia continente e identità per sottrarsi alle sue tremende responsabilità. E anche la storia di un altro viaggio, che è dell'autore e che deve essere di tutti noi, non tanto negli orrori del Novecento - per i quali non mancano certo i libri - quanto in quel mondo, tra Europa e America del Sud, dove complicità, amnesie e tornaconti vari hanno dato una nuova possibilità ai peggiori criminali.

E' un gran libro, La scomparsa di Josef Mengele di Olivier Guez (Neri Pozza), che ci restituisce la storia del medico che più di tutti ha rovesciato e sporcato il senso della medicina: il macellaio di Auschwitz, il custode della purezza della razza, l'uomo degli sperimenti più criminali sui bambini e le bambine.

Per raccontare non c'è bisogno di passare per i lager, il prima è appunto ciò che è prima, si dà per acquisito. Questo è un libro sul dopo, sulla fuga e sulla nuova vita di Mengele, tra Argentina e Paraguay. Sulle sue sconvolgenti convinzioni che nemmeno il crollo del Reich ha rimesso in discussione, non l'incrinatura di un dubbio, non un sussulto di rimorso. Sui tanti che nell'immensità del Sudamerica, protetti da troppi, hanno ricavato angoli di Baviera nazista, tra nostalgie per il passato e trame per il futuro. Su un mito - quello di Mengele criminale svanito nel nulla - che poche ragioni ha di essere, visto che fino alla sua morte naturale il diretto interessato è rimasto in contatto costante con la famiglia, una volta è anche tornato in Europa.

E meno male che c'è almeno un destino che si compie e che ha il gusto amarognolo di un conto comunque pagato: nell'ultimo lembo di vita, Mendele ormai uomo solo, malato, in guerra con tutti e soprattutto con se stesso.

Per raccontare tutto questo ci voleva una grande penna, ma anche una penna misurata, capace di mostrare il cuore di  tenebra senza effetti speciali. Perché la storia parla da sé se si lascia parlare: ed è quanto Olivier Suez ha fatto, ottimamente.  

martedì 28 marzo 2017

Un depresso per il libro più antidepressivo del mondo

Quando andai a guardate fuori di notte, era ancora là seduto su quella sedia. Stava giusto cadendo una stella dorata ed era più bella e forse perfino più giusta di tutte le stelle su questa strana terra. 

Prendete un uomo che è nato a Praga, ma non ai tempi di Praga magica, quelli dell'imperatore asburgico e del tirare a campare alla meno peggio. No, un uomo che appartiene a una famiglia ebrea ai tempi dell'occupazione nazista, con diversi familiari che finiranno nei campi di concentramento. Lui si salverà per uno strano caso - pare che si fossero dimenticati di circonciderlo - però la liberazione sarà anche l'inizio dei tempi cupi del socialismo reale, quando c'era ancora un paese comparso dalle carte, la Cecoslovacchia.

Aggiungete che questo uomo, appassionato di hockey su ghiaccio, riuscì a diventare un bravo cronista sportivo. Tuttavia poco più che trentenne una grave malattia mentale lo catturò e non lo lasciò più libero, per i pochi anni che gli rimasero da vivere.

E dunque, quale libro può venire fuori da tutto questo? Auschwitz più pazzia, voi che dite? Lui si chiamava Ota Pavel - il realtà uno pseudonimo. La morte dei caprioli belli è il suo esile romanzo, pubblicato da Keller. E contro ogni pronostico: per qualcuno è il libro più antidepressivo del mondo.

Pensare che c'è molto della sua storia della famiglia - ebrei sotto il tallone della Storia del Novecento. Eppure è chiaro che cosa vi rimarrà impresso di questo libro.

Il babbo di Ota, per esempio, commesso viaggiatore e sognatore, donnaiolo impenitente e impenitente artefice di variegati disastri imprenditoriali, si tratti di un laghetto per la pesca come di un allevamento di maiali. E la mamma, certo, la mamma, così solida e paziente, la parte della famiglia con il buon senso da vendere, ma anche con una stupefacente capacità di rinnovare il sentimento e ricominciare. E poi questo sguardo sulla vita, questa leggerezza, questa capacità di stupore. Questa luce capace di rischiarare anche i giorni più cupi. Di strappare un sorriso malgrado tutto.

Già, il libro più antidepressivo del mondo: o comunque tra i più meritevoli, in questa speciale classifica. Curioso che a scriverlo sia stato un malato di depressione. Ma questo è il potere della scrittura. Questa è la rivelazione di un uomo che lasciò scritto:

Mi piacerebbe guadagnare tanti soldi nella vita da avere sempre qualche spicciolo avanzato per un mazzo di fiori da mettere sulla mia scrivania.

giovedì 12 maggio 2016

Il testimone impostore, Don Chisciotte del Novecento

Io non volevo scrivere questo libro. Non sapevo esattamente perché non volessi scriverlo, oppure lo sapevo ma non volevo riconoscerlo o non osavo riconoscerlo; o non del tutto. Il fatto è che per più di sette anni mi sono rifiutato di scrivere questo libro.

Comincia in questo modo L'impostore di Javier Cercas (Guanda), scrittore che avevo già avuto modo di conoscere con Soldati di Salamina e Anatomia di un istante. Un libro scritto malgrado tutto: malgrado le amnesie e gli inganni della memoria, malgrado un protagonista da cui è normale sentirsi traditi, malgrado il sentimento di empatia che viene fuori e che si vorrebbe in tutti i modi cacciare via.

Malgrado tutto, certo: e per fortuna che malgrado tutto Cercas è arrivato fino in fondo.

Romanzo senza finzione, in cui la verità irrompe proprio nel momento in cui viene meno. Romanzo-inchiesta che attraversa la storia della Spagna e raccoglie le voci di molti senza nascondere la parabola dell'autore. Romanzo-biografia, all'inseguimento di un uomo che è un enigma. Difficile incasellare L'impostore, più facile fissare un punto di partenza, che in effetti è solo una domanda.

Chi è Enric Marco, l'uomo che si è inventato un passato eroico di deportato sotto il nazismo e poi di strenuo oppositore al regime di Franco? Perché ha mentito, perché si è inventato persecuzioni che non ha sofferto? Proprio lui che va nelle scuole, che partecipa alle cerimonie, che prende la parola come testimone. Lui che è la memoria e la coscienza pulita del suo paese, il sopravvissuto del lager....

Un impostore, appunto, come tale alla fine smascherato. E tuttavia non c'è mai fondo alle sorprese, quando si inizia a scandagliare le profondità di un uomo. Si comincia a provare qualcosa di buono anche per chi ti ha profondamente deluso.

Eric Marco, che alla fine affronta con dignità la tempesta delle accuse e delle offese, senza scappare, senza cercare alibi, semmai con un sorriso stupito. Eric Marco, che forse aveva solo bisogno di restituire un senso a una vita con un copione da fallito. Eric Marco, che ha attraversato le tragedie del Novecento, come Don Chisciotte ha fatto con l'epoca della cavalleria, inventando una vita che era solo nei sogni e nei libri. 

mercoledì 3 giugno 2015

L'uomo che salvò l'arte di Firenze in guerra

In tempi in cui l'orrore della guerra e del fanatismo pretende il suo tributo non solo di vite ma anche di opere d'arte - pensiamo a Mosul o a Palmira - mi ha fatto bene leggere questa storia di un uomo che la guerra - un'altra guerra, ma non importa - ha attraversato con la sola missione di salvare l'arte.

Bella lettura, L'arte fiorentina sotto tiro di Frederick Hartt (Clichy), la storia, raccontata in prima persona, di un giovane storico dell'arte che dal New England sbarca in Italia con l'esercito alleato: uno dei "monument men", ovvero degli uomini che si spingeranno in prima linea per salvare il nostro immenso patrimonio dalle distruzioni dei combattimenti e dalle razzie dei nazisti.

 Scritto anche bene, questo libro, diario e cronaca ma anche avventura appassionante. Con momenti di straordinaria commozione: il giorno in cui i ponti e le torri medievali di Firenze furono spazzate via dalle mine naziste, ma anche il giorno, poco dopo la Liberazione, in cui proprio Hartt caricò un intero treno di opere che a Firenze erano state sottratte: e quello fu anche il primo convoglio civile a riattraversare il Po dopo la guerra.

E bella la figura di Hartt, che a Firenze tornerà per l'alluvione del 1966 - altra ferita enorme alla nostra arte - per poi esservi anche seppellito.

Che poi lo so che a uno viene da domandarsi: pensare ai quadri, alle statue, nell'orrore della guerra? E le vite umane?

E io dico: sì, proprio così. Anche questo è opporre la civiltà alla barbarie e aprirsi un varco verso il futuro.

lunedì 19 maggio 2014

Noi che chiedevamo il meglio alla vita


Come chi veda, mentre fissa uno scenario di bellezza, avvicinarsi le nubbi e debba a malincuore allontanarsi se il temporale irrompe, così noi, che avevamo la vita davanti e i cuori fecondati dalla luce del sole, dovemmo abbandonare sulle colline i libri e i fiori e inabissarci ed essere uccisi.

Non scrivete sulla pietra tristi parole, ma solo di opportuna gioia - perché noi che chiedevamo il meglio alla vita, abbiamo anche saputo come offrirla.

(Frank William Thompson, volontario inglese contro il nazismo, ucciso nel 1944. Citato da Corrado Augias in I misteri di Londra)

venerdì 9 maggio 2014

Era San Pietroburgo, anzi Leningrado, l'inverno del 1941...

San Pietroburgo, che allora chiamare San Pietroburgo era un insulto e presumibilmente anche un reato, San Pietroburgo che allora era orgogliosamente, tenacemente Leningrado. Oppure, familiarmente, Piter. Inverno 1941, una città che è l'estrema trincea opposta ai nazisti. L'assedio che sarà una delle pagine più terribili e cruente di un secolo, il Novecento, che in questo non ha certo scherzato.

E' questa l'ambientazione di uno splendido romanzo su cui ho posato gli occhi solo grazie al suggerimento di un amico - e davvero, quanto è prezioso il passaparola per le nostre letture. La città dei ladri di David Benioff, lo stesso autore della Venticinquesima ora, il libro da cui è stato tratto il film di Spike Lee.

Con questa ambientazione, che cosa vi aspettereste? Solo macerie e corpi straziati, solo dolore o retorica, immagino. E invece quante cose, che ci sono dentro queste pagine. La storia di due ragazzi, amici in tempo di guerra, ma anche molto di più. Humour, emozione, implacabile suspense fino all'ultimo rigo. Una scrittura che lascia parlare la storia, mai sopra le righe, ma sempre capace di arrivare al cuore.

Vaffanculo a Mosca. La sensazione diffusa a Piter era che se doveva esserci un assedio, era meglio che fosse capitato a noi, perché saremmo sopravvissuti a qualsiasi cosa, mentre quei porci della capitale, senza la loro razione settimanale di storione, si sarebbero arresi al primo Oberstleutnant. "Sono peggio dei francesi" diceva sempre Oleg, anche se perfino a lui sembrava un'esagerazione.

Ecco, appena un saggio di scrittura. E ancora rimpiango di essermi lasciato alle spalle un personaggio come Kolja, affabulatore, venditore di fumo, artista della parola e poeta della vita. E ancora stento a credere di aver finito questo formidabile romanzo picaresco, proprio così, picaresco, però ambientato non nella Spagna di Don Chisciotte, ma nella Leningrado del 1941.

mercoledì 26 febbraio 2014

Il comandante di Auschwitz e il suo lavoro ben fatto

Non sarà un capolavoro, però è un libro che ti prende per mano, per accompagnarti attraverso l'orrore più indicibile della storia che abbiamo alle spalle, fino al ciglio dell'estrema miseria e dell'estrema grandezza dell'uomo, là dove sembra di scorgere una possibilità di risposta a ciò che in effetti è resterà sempre mistero, doloroso mistero.

E' questo che succede leggendo Il comandante di Auschwitz di Thomas Harding (Newton Compton), libro che racconta la vita in parallelo del criminale nazista Rudolph Hoss e dell'ebreo tedesco che, con la divisa dell'esercito inglese, alla fine della guerra riuscì a catturarlo.

Storia appassionante, coinvolgente, anche quella del cacciatore di nazisti. Ma come distogliere lo sguardo dal comandante di Auschwitz, dall'abisso senza fondo di un uomo che si è reso responsabile della morte di milioni di altri uomini, senza fare una piega, con la convinzione del lavoro fatto e fatto bene?

Rudolph Hoss, che voleva fare il missionario e finì per arruolarsi nelle SS. Che sognava una fattoria in campagna e volle un orto e un giardino per la sua casa con vista sui forni crematori. Che la sera tornava a casa dalla routine del massacro e leggeva fiabe ai bambini.

Rudolph Hoss, che con le sue confessioni dopo la cattura fornì prove decisive per inchiodare altri criminali nazisti, prima di essere impiccato in Polonia, in quello stesso lager di cui era stato comandante e boia.

Raccontò molto di sé, Rudolph Hoss, ma nessuna parola che possa davvero illuminare ciò che davvero lo ha fatto diventare ciò che è stato.

mercoledì 29 gennaio 2014

Raimondo Ricci e il giornalismo al servizio della memoria

Ecco, allora il senso vero di questo libro. Dare forza alle parole quando le forze del corpo sono sempre più ridotte. 
Lasciare traccia.
E non per sé ma per chi ancora può agire.

Devo ringraziare due colleghi come Domenico Guarino e Andrea Marotta per avermi voluto insieme a loro nella presentazione di Io, Raimondo Ricci, Memorie da un altro pianeta (Sagep edizioni), il libro in cui hanno raccolto l'ultima testimonianza di uno straordinario protagonista del Novecento. Raimondo Ricci, appunto: un uomo che, dopo essere scampato alle rappresaglie dei nazisti e a Mauthausen, ha vissuto molti anni ancora impegnando per intero la vita che gli era stata restituita. Come presidente nazionale dell'Anpi e non solo.

Ringraziarli, è ovvio, non tanto per la mia presenza, che certo non ha aggiunto nulla. Ma per avermi permesso di entrare in contatto con la figura di Raimondo Ricci e con la straordinaria lezione che ci ha dato: sul coraggio necessario, sulla coerenza che è una medicina per tante ferite, sulla bellezza che, a coltivarla, è il peggiore smacco per gli assassini.

Ringraziarli, soprattutto, per la prova di buon giornalismo che hanno dato. Penso a un giornalismo che sa andare oltre la notizia del giorno, senza appiattirsi solo sul presente. Che sa dare spessore, profondità, tempo al suo lavoro, facendosi carico anche della responsabilità della memoria. Un giornalismo responsabile, rispetto al dovere della testimonianza e a ciò che dovrà comunque rimanere quando anche l'ultimo testimone non ci sarà più. Sembra retorica. Però basta aprire una di queste pagine senza fronzoli, di Raimondo Ricci e su Raimondo Ricci, per comprendere che è questa la sostanza di una professione che appartiene al tempo.



mercoledì 15 maggio 2013

In Brasile, tra futuro e nazismo

Laddove, in questi nostri tempi difficili, scorgiamo una speranza per un futuro migliore in zone semi-sconosciute, è nostro dovere additarle, indicandone le possibilità. E' per questo motivo che ho scritto questo libro.

In questo modo Stefan Zweig, l'autore della Novella degli scacchi e di altri splendidi libri, presentava il suo ultimo libro, così impastato, fin da queste parole, dal senso della fuga e dalla speranza di una nuova vita in un accogliente altrove.

E già questo fa pensare. Stefan Zweig è tra gli scrittori che più di tutti sembrano legati alla cara vecchia Europa sul ciglio della catastrofe. Anzi a quel sogno incastonato dentro un continente, che fu la Mitteleuropa. Un mondo forse già finito con la Grande Guerra ma che poi il nazismo annichilì con la sua barbarie.

Per Stefan Zweig, ebreo di Vienna, rimase appunto solo la possibilità della fuga, l'ipotesi di una nuova vita. Per esempio in Brasile, terra tutto sommato ancora semisconosciuta dagli europei, dove forse avrebbe potuto reinventarsi.

Speranza che vibra ancora nel titolo di un libro che ora la casa editrice Eliot ripropone al lettore italiano: Brasile, terra del futuro.

E in effetti terra del futuro il Brasile lo è stata per tanti. Non per Stefan Zweig, però. Uomo che apparteneva al passato, uomo che così aveva scritto in Il mondo di ieri, titolo quanto mai eloquente.

 Inerme e impotente, dovetti essere testimone della inconcepibile ricaduta dell'umanità in una barbarie che si riteneva da tempo obliata e che risorgeva invece col suo potente e programmatico dogma dell'anti-umanità.

In Brasile, il 23 febbraio 1942, si suicidò, insieme alla sua giovane moglie. 

lunedì 3 settembre 2012

Sorpresa, ai nazisti fece paura anche Bambi

Povero Bambi, cucciolo costretto a guardarsi dalla furia nazista, non solo dalle pallottole dei cacciatori....

Non la sapevo, questa storia, e sono contento di averla scoperta sul supplemento della domenica di Repubblica, grazie a un articolo di Mario Serenellini.

E dunque Bambi, prima di diventare il tenero film della Walt Disney, è stato un libro di successo di uno scrittore austriaco conosciuto come Felix Salten che, con i dovuti distinguo, è stato una sorta di Carlo Collodi mitteleuropeo, solo che dalla sua penna intinta nella fantasia non è venuto fuori un burattino di legno, ma questo piccolo cerbiatto.

Fu uno straordinario successo internazionale, Bambi, pubblicato per la prima volta a Vienna nel 1923. Ma chi se lo sarebbe mai aspettato che anni più tardi i nazisti lo avrebbero proibito e perfino condannato al rogo?

Successe proprio questo: e non solo perché Felix Salten si chiamava in realtà Siegmund Salzmann ed era un ebreo di origine ungherese. E' anche che i nazisti intravidero nella storia di Bambi cose che non c'erano nemmeno nell'intenzione dell'autore, non fosse altro che il libro era stato scritto quando per Hitler la cancelleria era ancora un miraggio. Bambi, insomma, sapeva troppo di allegoria politica sulla persecuzione degli ebrei.

Ci sarebbe molto da dire su questa storia. Sui libri che sono davvero barche in balia di venti e correnti che di volta in volta le spingono verso significati nuovi e talvolta inattesi. Sulle dittature che sfoderano il pugno di ferro ma in realtà hanno paura di tutto. Sul nazismo, con cui non poteva finire in altro modo, se agli inizi non seppe far altro che prendersela con un cerbiatto.

E certo che ci penso e ci penserò. Ma ora mi viene in mente anche un'altra cosa. Bambi, il film, è del 1942. La Walt Disney lo produce nel bel mezzo della guerra. Che anche il cucciolo, con tutti i suoi amici della foresta, sia stato chiamato in causa per resistere a Hitler?

domenica 25 marzo 2012

La terra di Siberia dove si parla ancora la lingua morta

Ho sempre pensato che Hitler avesse perso le sue scommesse: cancellare gli ebrei dalla faccia della Terra e trasformarli in qualcosa di diverso dagli essere umani. Credevo però che su un punto avesse avuto successo: distruggere una civiltà ebraica, la civiltà dello yiddish.

Così scrive Marek Halter, scrittore e anche fondatore del movimento SOS Racisme e anch'io avevo sempre pensato così: che con i villaggi dell'Europa dell'Est spazzati via, con quel popolo sparito nelle camere a gas, fosse svanita una volta per tutte una civiltà, e quindi una lingua, una letteratura che ci aveva reso tutti più ricchi.

Che sorpresa, dunque, leggere il reportage che lo stesso Halter ci ha regalato dopo essersi spinto in una terra dal nome impossibile, Birobidzhan. Non ne avevo mai sentito parlare, ma questo è il nome della repubblica autonoma ebraica istituita nella Siberia sovietica qualcosa come 80 anni fa. La volle Stalin, presumibilmente per liberarsi degli ebrei che aveva intorno e che non poteva tutti rinchiudere nei gulag. E così si inventò questa repubblica ritagliandole alcune terre della sterminata Siberia, là dove scorre il fiume Amur.

Da allora c'è stato Hitler e l'yiddish è stato spazzato via. L'Unione Sovietica è morta e sepolta, Israele è nata ed è viva e vegeta. Del Birobidzhan nessuno (o almeno il sottoscritto) ha sentito parlare. Ma sorpresa esiste ancora: esiste ancora un paese dove l'yiddish è addirittura lingua ufficiale.

E che belle le parole di Halter, alla scoperta di questo paese dove si parla ancora la sua lingua madre, la lingua che lui stesso dava per morta. Che bella la sua conclusione, quasi un atto di riparazione della storia:

Seppellire la memoria, e in particolare la memoria di una lingua, è più difficile che seppellire i corpi.

venerdì 4 febbraio 2011

Sorpresa, c'era l'amore nel ghetto di varsavia

Hendusia avrebbe potuto uscire, salvarsi, sopravvivere. Ma non voleva che i bambini avessero paura, che piangessero. E rimase con loro, pur sapendo che cosa sarebbe accaduto. Per senso del dovere o per amore dei bambini? All'epoca era la stessa cosa

Il ricordo di Marek Edelman è un fascio di luce rapido, nervoso, incostante. Indugia per un attimo, poi si sposta per frugare altrove, perché non c'è tempo per tutti i volti, le storie, i dolori, le vite inghiottite. Si sposta e quanto c'è dietro ritorna nell'oscurità, per rimanerci fino a che qualcuno non arriverà su quella pagina, non si soffermerà su quel nome.


Marek Edelman non è uno scrittore, non lo hai mai voluto essere. Marek Edelman è stato uno dei comandanti dell'insurrezione del ghetto di Varsavia, orgoglio estremo e disperato degli ebrei che presero alla sprovvista la più micidiale delle macchine di sterminio.

Marek Edelman è uno che ha visto andare alla morte qualcosa come 500 mila uomini e donne e bambini, e che poi, dopo che tutto questo era finito, non se n'è più voluto andare dalla Polonia svuotata della sua civiltà ebraica (e ancora contaminata dall'antisemitismo), perchè ne doveva presidiare le tombe abbandonate.

Era anche un uomo che per tutta la lunga vita che gli è rimasta ha saputo coltivare la memoria senza pretendere di parlare a nome delle vittime:

Non ho diritto di parlare a nome loro, perché non so se morivano nell'odio oppure perdonando i loro carnefici. E nessuno ormai lo potrà sapere. Ma ho il dovere di vegliare affinché il ricordo di loro non scompaia.

Ed era anche un uomo che si voltava indietro per guardare meglio anche al presente, ad altre guerre, ad altri crimini dell'umanità, ad altre ingiustizie.

In tutto questo a me piace ricordare anche Marek Edelman uomo schivo che ha saputo comunque donarci parole preziose. Come queste, racchiuse in C'era l'amore nel ghetto (Sellerio), un libretto che non so bene come definire, tutto fuorché una cronaca, un diario, un romanzo.

Se proprio proprio direi che anche questa è in qualche modo letteratura di viaggio, perché anche la memoria può rappresentare un viaggio. Un viaggio nell'inferno del ghetto. Ma non solo nell'inferno, perché come il viaggiatore è tale se è capace di guardare l'umanità che abita (e abitare è verbo diverso da popolare) le terre che attraversa, così lo sguardo di Marek Edelman ci porta testimonianza di umanità, prima ancora che di crudeltà.

Grazie a lui ho capito che è si fa un torto a semplificare, generalizzare, ridurre. Che non ci si può accontentare solo del termine di vittime per le vite che fiorivano nel ghetto.

C'era l'amore nel ghetto, appunto. Anche nel ghetto si sognava, si sperava, si faceva politica, si scriveva, ci si innamorava. Ed è proprio per tutto questo che l'orrore dello sterminio fa ancora più orrore.

giovedì 4 marzo 2010

L'ufficiale delle SS che "fece il suo lavoro"


Mamma mia, che dire di un libro come questo? Tutto e il contrario di tutto, come è necessario per un libro insieme disturbante e ipnotizzante, spaventosamente crudele eppure poetico, vero nella sua follia e nello stesso tempo tradito dalla sua stessa letterarietà. Perché tutto questo è Le benevole di Jonathan Littel.

Mi ha fatto paura fin dalle prime righe, questo romanzo fluviale di quasi mille pagine fitte fitte. Ho fatto mie tutte le critiche che a esso sono state rivolte, a più riprese ho provato risentimento e irritazione. Quasi tutte le sere ho avuto la tentazione di abbandonarlo, per poi riprenderlo sempre. Magari centellinandolo, assumendolo a dosi controllate, unico modo per non esserne travolto. Poi ieri sera l'ho terminato, dopo quasi due mesi che incombeva dal mio comodino. E oggi già mi manca.

Mi resterà a lungo dentro, Maximilian Aue, l'ufficiale delle SS che racconta in prima persona la follia criminale dello sterminio degli ebrei e della guerra nazista. Dentro, con la sua efferatezza, la sua spiazzante lucidità, il suo granitico rifiuto di ogni interrogativo morale, la sua incapacità di chiedersi semplicemente perché, il ribollire di pulsioni e istinti che accompagnano l'orrore.

"Non ho alcun rimpianto: ho fatto il mio lavoro, tutto qui". E quel lavoro Littel lo ricostruisce con un'attenzione a ogni particolare che toglie il respiro, proprio perché la sua parola non si limita a raccontare, e nemmeno a mostrare, fa di più, scaraventa dentro l'orrore. E' facile indovinare dietro tutto questo un pazzesco lavoro di documentazione, spinto fino allo studio del più piccolo tassello della macchina della morte.

Ma poi, detto questo, il fascino di questo libro è esattamente agli antipodi. Littel ci porta oltre la storia, arriva dalle parti del mito, il più orrendo e devastante dei miti. Il suo romanzo diventa tragedia a tutti gli effetti, tragedia della discesa all'inferno, tragedia che non si nega niente, nemmeno l'incesto, il massacro dei genitori, l'attrazione sessuale per il corpo di una impiccata.

E si possono perdonare gli eccessi verbali e qualche effetto speciale che fa un po' scuola di scrittura. Sono abbondantemente ripagati dall'incubo dei capitoli che descrivono le esecuzioni di massa degli ebrei nell'Europa orientale oppure l'assedio di Stalingrado. Che voglia di dimenticarmene, che voglia di rileggerlo.

venerdì 29 gennaio 2010

Ebbene sì, c'era l'amore nel ghetto


Hendusia avrebbe potuto uscire, salvarsi, sopravvivere. Ma non voleva che i bambini avessero paura, che piangessero. E rimase con loro, pur sapendo che cosa sarebbe accaduto. Per senso del dovere o per amore dei bambini? All'epoca era la stessa cosa

Il ricordo di Marek Edelman è un fascio di luce rapido, nervoso, incostante. Indugia per un attimo, poi si sposta per frugare altrove, perché non c'è tempo per tutti i volti, le storie, i dolori, le vite inghiottite. Si sposta e quanto c'è dietro ritorna nell'oscurità, per rimanerci fino a che qualcuno non arriverà su quella pagina, non si soffermerà su quel nome.

Marek Edelman non è uno scrittore, non lo hai mai voluto essere. Marek Edelman è stato uno dei comandanti dell'insurrezione del ghetto di Varsavia, orgoglio estremo e disperato degli ebrei che presero alla sprovvista la più micidiale delle macchine di sterminio. Marek Edelman è uno che ha visto andare alla morte qualcosa come 500 mila uomini e donne e bambini, e che poi, dopo che tutto questo era finito, non se n'è più voluto andare dalla Polonia svuotata della sua civiltà ebraica (e ancora contaminata dall'antisemitismo), perchè ne doveva presidiare le tombe abbandonate.

Era anche un uomo che per tutta la lunga vita che gli è rimasta ha saputo coltivare la memoria senza pretendere di parlare a nome delle vittime: "Non ho diritto di parlare a nome loro, perché non so se morivano nell'odio oppure perdonando i loro carnefici. E nessuno ormai lo potrà sapere. Ma ho il dovere di vegliare affinché il ricordo di loro non scompaia".
Ed era anche un uomo che si voltava indietro per guardare meglio anche al presente, ad altre guerre, ad altri crimini dell'umanità, ad altre ingiustizie.

In tutto questo a me piace ricordare anche Marek Edelman uomo schivo che ha saputo comunque donarci parole preziose. Come queste, racchiuse in un libretto - C'era l'amore nel ghetto, pubblicato da Sellerio - che non so bene come definire, tutto fuorché una cronaca, un diario, un romanzo.

Se proprio proprio direi che anche questa è in qualche modo letteratura di viaggio, perché anche la memoria può rappresentare un viaggio. Un viaggio nell'inferno del ghetto. Ma non solo nell'inferno, perché come il viaggiatore è tale se è capace di guardare l'umanità che abita (e abitare è verbo diverso da popolare) le terre che attraversa, così lo sguardo di Marek Edelman ci porta testimonianza di umanità, prima ancora che di crudeltà.

Grazie a lui ho capito che è si fa un torto a semplificare, generalizzare, ridurre. Che non ci si può accontentare solo del termine di vittime per le vite che fiorivano nel ghetto.

C'era l'amore nel ghetto, appunto. Anche nel ghetto si sognava, si sperava, si faceva politica, si scriveva, ci si innamorava. Ed è proprio per tutto questo che l'orrore dello sterminio fa ancora più orrore.

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