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lunedì 22 maggio 2017

Il pastore che racconta il Lake District al posto dei poeti

Dici Lake District e pensi a uno dei posti più incantevoli dell'Inghilterra e dell'intera Europa, un paradiso per i camminatori e in particolare per quanti amano leggere un territorio attraverso la cultura che esso ha ispirato. Lake District: i laghi tra cui trovarono pace e ispirazione William Worsdsworth e tanti altri poeti, gli scenari naturali rappresentati da tanti pittori romantici che, tra le altre coxe, ci hanno regalato anche l'aggettivo "pittoresco".

Del Lake District diceva appunto Wordsworth: Al fondo di queste Vallate si trovava una perfetta Repubblica di Pastori e di Agricoltori. Poche parole per seminare l'invidia di un posto idilliaco, buono per ogni tentazione bucolica. Ma proprio questo è il punto, che il Lake District è stato sempre raccontato dai poeti, dai pittori, da chi comunque è arrivato da Londra o da altre città e che il Lake District l'ha scoperto e quindi scelto. Non da chi da sempre lo abita, tosando pecore invece di maneggiare penne e pennelli.

Per questo è sorprendente - oltre che incredibilmente affascinante - un libro quale La vita del pastore (Mondadori) di James Rebanks, che pastore lo è sempre stato e lo è ancora, nonostante le parabole della vita lo abbbiamo portato a laurearsi a Oxford.

Pensare che Rebanks, discendente di una famiglia che alleva pecore da seicento anni, a scuola non voleva nemmeno andare: in aula si raccontava un mondo che non era il suo, la sua storia, il suo mestiere, i suoi monti pareva non avessero diritto di cittadinanza tra quei banchi. Poi è andata come è andata e lui ha saputo andare avanti nella vita senza tagliare le radici.

Eccolo allora il suo mondo, che ancora resiste malgrado tutto, tra pascoli, rocce e pub dove la trattativa per un buon animale si conclude con una stretta di mano e una pinta di birra. Un mondo dove i terreni comuni e le regole comunitarie che ne disciplinano l'uso non sono stati spazzati via e dove i nomi dei padri sono interscambiabili con quelli dei figli, tanto quello che conta è il nome della fattoria. Dove  anche ai tempi del web 2.0 il lavoro è segnato dal sorgere e dal tramontare del sole.

Il Lake District: non solo un luogo letterario o la destinazione di uno splendido viaggio. Piuttosto un luogo che è il risultato del lavoro di secoli, la sommatoria di infiniti gesti, azioni, scelte. La vera storia della nostra terra dovrebbe essere la storia dei suoi perfetti sconosciuti. Vero, verissimo.

Come è vero che i libri costruiscono l'immaginario di un luogo. Per questo è importante che i libri siano scritti. E che siano scritti anche dalle persone che a quel luogo appartengono.

lunedì 23 settembre 2013

Il ritorno a casa di Tito Barbini

Per quanto un albero possa diventare alto, le sue foglie, cadendo, ritorneranno sempre alle radici. Tra le infinite citazioni sul senso e sul sentimento del viaggio, è con questo antico proverbio cinese per la testa che ho terminato la lettura di Le rughe di Cortona, l'ultimo libro di Tito Barbini (Romano editore).

Come capita spesso con la saggezza orientale, le parole sono semplici ma ciò a cui fanno riferimento è senz'altro più complesso. Siamo noi, quell'albero. Siamo noi quelle foglie che ritornano alle radici.

Semmai è quel “per quanto un albero possa diventare alto” che mi convince meno. Non “per quanto”, ma “proprio perché”: questo è come la vedo io. Proprio perché si cresce, proprio perchè con le nostre foglie si tocca il cielo, è ovvio, naturale, necessario tornare alle radici.

È esattamente quello che penso a proposito di Tito Barbini, scrittore e viaggiatore, o viaggiatore e scrittore, nell'ordine che si preferisce, ma anche persona che da lungo tempo ho avuto la fortuna di conoscere. È un albero cresciuto alto, Tito. Un albero che ha saputo liberarsi da ciò che lo appesantiva e lo piegava.

A un certo punto della vita Tito ha smarrito la strada – ed era una strada chiaramente segnata, apparentemente obbligata. A posteriori è stata la sua fortuna. È da allora che si è messo davvero in cammino: con i viaggi – che lo hanno portato verso le mete più remote e affascinanti – e con le parole – che certo sono un altro modo di viaggiare.

Per tutto questo oggi può tornare alle radici. Può cioè vivere l'esperienza più importante per il viaggiatore: il ritorno.

Non è affatto scontato, anche se è un pezzo che Tito ripete, a beneficio di tutti noi, che il viaggio è vero viaggio solo se implica il ritorno. Altrimenti è fuga, esperienza legittima, a volte necessaria, ma che non è il viaggio. Oppure è partenza fittizia, che non chiama in causa ciò che siamo e che possiamo diventare: turismo di molti chilometri e poca sostanza.

Non credo sia un caso che la letteratura – almeno la nostra letteratura – diventa davvero tale con una storia di un viaggio, l'Odissea. Un viaggio, prima ancora che una guerra. E non è un caso che questo viaggio sia in realtà un lungo, faticoso, contrastato ritorno.

E lo so che è un paragone ingombrante, ma con queste pagine Tito si è seduto accanto a me come un Ulisse con cui posso condividere parole e storie. E Cortona – straordinaria città che più volte ho avuto modo di visitare – ha progressivamente perso i suoi contorni per sfumare nel mito e diventare un'Itaca di Toscana.

Dopo averci accompagnato nelle estreme propaggini della Terra del Fuoco, sulle vette dell'Himalaya o alle sorgenti del Mekong, Tito ci ha fatto il regalo più bello: il ritorno a casa.

Il regalo più complesso, anche, perché penso che per uno scrittore di viaggi non ci sia niente di più difficile che raccontare il ritorno.

Vero che Tito è uno scrittore di viaggi molto particolare, che rifugge il diario, il resoconto, la narrazione lineare nel tempo e nello spazio. In particolare, con Antartide. Perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo, il grande vuoto artico e il silenzio dei ghiacci avevano permesso di scavare impietosamente dentro e di amputare tutto ciò che alla vita non è davvero essenziale.

Ed ecco, mi sembra che Le rughe di Cortona possano riallacciarsi solo a quel libro, tra quanti ne ha pubblicati Tito in questi anni. Come se sulle mappe della vita avesse saputo tracciare una rotta diretta tra l'Antartide e Cortona. Anche questo un viaggio per sottrazione, per rarefazione. Ma solo per ritrovare l'origine, il porto sicuro, ciò che ha permesso tutto ciò che è venuto dopo.

E come non è diario il viaggio, non è autobiografia ciò che è stato. È assai di più, il lavoro della memoria – e non a caso Tito afferma all'inizio: la memoria è tutto ciò che siamo.

Diceva William Wordsworth: Il bambino è padre dell'uomo adulto.  Si comincia così e il resto è viaggio – l'albero che cresce – il resto è ritorno e memoria – le radici.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...