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giovedì 21 luglio 2016

Tucidide, il mestiere dello storico malgrado l'uomo

Tucidide, per diversi e anche per il sottoscritto un nome piuttosto ispido e parecchie imprecazioni nei lontani tempi del liceo, per quelle versioni dal greco tutte in salita.

Così è, ma se qualcuno volesse saperne di più ecco un libro di Luciano Canfora, edito da Laterza, che ci dice molto, perfino troppo. E che, nella giungla delle fonti e delle molte interpretazioni che dell'uomo ci sono state date, ci restituisce anche il fascino e l'importanza dello storico.

Uomo di parte, Tucidide, discendente di famiglia importante nell'Atene del quinto secolo, personaggio di primo piano della politica, uomo con le mani in appalti e altri affari non del tutto trasparenti. Eppure in primo luogo storico. E storico di un genere particolare: non si tuffa in un passato lontano e ormai anestetizzato dal tempo trascorso, ma racconta esclusivamente ciò che avvenne ai suoi tempi.

E' lui che ci descrive con minuzia gli anni della guerra tra Atene e Sparta. Lui che mette al servizio della storiografia con un lavoro senza precedenti la geografia, l'economia, la scienza militare. Lui che  prova a individuare torti e ragioni, a volta costringendosi a risalire le correnti avverse delle appartenenze. Lui che prova a ricostruire i fatti senza le lenti distorte delle passioni.

Vai a sapere che uomo era davvero, Tucidide, come si comportò nella Grecia dei colpi di mano, delle disfatte in battaglia, dei tradimenti. Il sottotitolo del libro di Canfora - la menzogna, la colpa, l'esilio - qualcosa ci dice.

Eppure, pensate, fu questo ricco signore ostile alla democrazia a raccontarci per filo e per segno la
democrazia ateniese. Le cose, in fondo, non erano andate male sotto Pericle. Anche se forse più che la sostanza della democrazia erano state salvaguardate le forme.

Allo stesso modo fu lui, Tucidide, a indicarci i pericoli di una democrazia affidata solo alle maggioranze assembleari, dove chi ha ragione è spesso perdente. E raccontarlo non fu facile. Forse accompagnò le sue parole con un sorriso amaro o forse no.

Non so che uomo sia stato davvero, Tucidide, al di là di tutte le illazioni che non poteva non alimentare. Ma mi piace pensare che in lui si incarni lo storico quale essere: fedele a un lavoro di verità, malgrado tutto, malgrado anche se stesso.


venerdì 19 febbraio 2016

Il giro del mondo di libreria in libreria

Da piccolo, per molti anni, sognavo di fare due mestieri: lo scrittore e l'investigatore privato. Come avevo potuto dimenticarlo? Qualcosa di quella mia seconda vocazione si conserva ancora nella mia ossessiva attività di collezionista di storie e librerie. Chissà, forse noi scrittori siamo soprattutto detective di noi stessi.

Così si confessa Jorge Carriòn in Librerie (Garzanti), opera meravigliosa in cui, per quanto lontano ci porti,  tutto ruota sempre intorno all'autore e alla sua magnifica ossessione, coltivata da scrittore, investigatore, viaggiatore, collezionista di libri a ogni latitudine.

Storia straordinaria intrecciata a molteplici altre storie di librai, librerie e gente che, a vario titolo, quelle librerie le hanno frequentate. Viaggio, più che saggio, a dispetto anche del sottotitolo - Una storia di commercio e passioni. Invidiabile scorribanda da Atene a Londra, da San Francisco a New York, da Tangeri a Montevideo. Scoperta anche della fisicità del mondo del libro, perché se pure si pensa alla letteratura come qualcosa di astratto, in realtà c'è anche un'immensa rete di oggetti, di materiali, di spazi, di mani che sfogliano, di piedi che passeggiano tra gli scaffali, di occhi che si soffermano...
 
Viaggiamo per scoprire, ma anche per riconoscere, afferma Carriòn.

Non so dove abbia trovato il tempo e il denaro per girare il mondo così, non so dov'è che sia riuscito a stipare tutti i volumi messi insieme da una irresistibile propensione all'acquisto compulsivo. Però la chiave è senz'altro questa e anch'io mi ci riconosco: nelle librerie si scopre, nelle librerie ci si riconosce e ci si ritrova ancora di più con noi stessi.
 

sabato 19 maggio 2012

L'antica Atene che sapeva guardarsi dalle parole

Ho letto che nell'antica democrazia ateniese non si sottovalutava la forza della parola, la sua capacità di convincere, di imporsi, a volte anche di ingannare. Era un'arma potente, la voce, da trattare con rispetto e con cautela. Per questo si sentì il bisogno di regolarla.

Racconta Roberto Mancini, in La lingua degli dei:

Per evitare gli effetti di una cattiva persuasione, l'oratore avrebbe dovuto sottostare a due regole: in primo luogo durante un discorso avrebbe dovuto mantenere un atteggiamento il più possibile "statico" e avrebbe dovuto controllare i toni della sua voce valorizzando il più possibile pause e stile laconico.


A fronte della consueta e fragorosa presenza di oratori alla tribuna, dediti a suscitare il "tumulto" e l'"urlo" come taluno fece osservare, si diffuse ora un sentimento di fastidio per queste voci smodate e cominciò a farsi strada una voglia di quiete e di silenzio.

Che sorpresa, l'antica democrazia che preserva il valore del silenzio e sa che la parola non può essere abusata, proprio perché la parola è importante.

E quale lezione, in questi nostri tempi di parole ridondanti e inflazionate, di dichiarazioni su tutto e su nulla, di politica ridotta a circo massmediatico, dove non si esiste se non si parla, e non basta nemmeno parlare, bisogna parlare a voce più alta, coprire le altre voci.

Che differenza con questa nostra politica bravissima a parlare, meno ad ascoltare.

Forse democrazia è anche esercitare l'arte del silenzio.

venerdì 23 luglio 2010

Omero, il poeta cieco che è in noi

Lo diceva Victor Hugo:
Il mondo nasce, Omero canta. È l’uccello di questa aurora

Omero, dunque. O meglio, l’uomo che abbiamo imparato a chiamare Omero. L’antico greco che ci ha regalato i poemi con cui inizia la storia della nostra letteratura e forse della nostra bellezza. Il poeta cieco, che non aveva occhi per guardare, ma che proprio per questo sapeva guardare più lontano di chiunque altro e staccare dal suo silenzio parole che risuonavano a lungo nel cuore degli uomini.

Tutto questo è Omero: la grandezza dei versi dell’Iliade e dell’Odissea e, nel ricordo di molti di noi, il busto di un anziano dall’espressione saggia e solenne, e poi magari le traduzioni e gli studi dei tempi di scuola.

Penso spesso a lui, credo che si sia in diversi a farlo. Eppure, cosa si sa davvero di Omero?

Già nell’antichità si erano moltiplicate le biografie, le vite immaginarie, le leggende. E già allora non si contavano le città che si contendevano il vanto di avergli dato i natali, da Atene a Rodi, da Argo a Chio e Smirne. Città, per inciso, quasi tutte dell’Asia Minore, tanto per destarci il sospetto che la nostra poesia in effetti sia arrivata da lontano, dall’Oriente.

Qualcuno assicurava che Omero era nato pochi anni dopo la guerra di Troia, altri che era nato parecchio dopo. Anche sul significato del suo nome ci si accapigliava: discendeva da una parola con cui i greci si riferivano ai non vedenti o dalla parola che indicava, più misteriosamente, un ostaggio?

Ce n’è voluta per iniziare a convincersi che forse Omero non è mai esistito. Anzi, che non è mai esistito perché in realtà di Omero ce ne sono stati centinaia, migliaia.

Infiniti Omero prima di Omero che hanno raccontato di Achille e di Ettore, del re Agamennone e dell’astuto Ulisse. Infiniti poeti che hanno cantato nelle feste e nei banchetti, hanno improvvisato versi che poi sono passati di bocca in bocca, hanno tramandato la memoria delle gesta, delle imprese e delle miserie dei loro eroi.

Così la più grande poesia della nostra letteratura è nata dalla parola leggera, imprendibile, evanescente di tanti poeti senza volto e senza nome.

Ed è bello pensare a tutto questo e poi pensare ai nostri nonni e ai nostri bisnonni, alla nostra Toscana contadina dove si passava le sera a veglia alzandosi in piedi per una rima, per un’ottava improvvisata da chi non sapeva né leggere né scrivere. Credo che sia per questo che qualche tempo fa mi è venuto di scrivere Beatrice: un modo per provare a saldare qualche debito di gratitudine.

È bello pensare a tutto questo, perché permette a ognuno di noi di ritrovare il dono della parola. Perché aiuta ognuno di noi a sentirsi un po’ Omero.

Pensate, ognuno di noi come il grande poeta cieco.

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...