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venerdì 12 agosto 2011

Quel Muro che tagliava la carne viva

Era la mattina del 13 agosto, esattamente 50 anni fa, che i berlinesi si svegliarono e rimasero senza parole per quello che era stato eretto nella notte. Non era ancora il Muro come abbiamo imparato a conoscerlo attraverso tante dolorose fotografie, perché per il momento erano riusciti solo a cementare i primi mattoni e a stendere il filo spinato.

Però il Muro era già il Muro: un monumento planetario alla follia, una gigantesca lama per tagliare la carne viva dell'umanità.

Io e Tito Barbini due anni fa abbiamo scritto insieme Caduti dal Muro (Vallecchi), un libro a quattro mani ma soprattutto un viaggio in quella follia. Ne voglio riproporre un pezzettino scritto da Tito, una delle prime pagine.


Ti voglio raccontare di quando misi piede per la prima volta a Berlino, qualcosa come quaranta anni fa. Il Muro era stato tirato su da non troppo tempo.
 

Ancora oggi la cosa che mi ricordo meglio è la stazione di Friedrichstrasse, quella del famoso checkpoint Charlie, il posto di frontiera dal quale entrai nella Repubblica Democratica Tedesca: la DDR, tre lettere di una sigla che già mi pareva richiamasse la potenza delle acciaierie e la solennità delle parate militari.
 

E in realtà quello che avevo davanti agli occhi erano i riflettori da lager che gettavano ovunque i loro coni di luce, le torrette appollaiate sui blocchi di cemento armato, le lugubri fisionomie dei vopos, i guardiani della “cortina di ferro”.
 

Prima ancora di quello che tutto questo poteva e può simboleggiare, a colpirmi furono le caratteristiche della costruzione. Quando vi arrivai non era stata ancora completata quella che sarebbe stata presto ribattezzata la “striscia della morte”, un complesso di recinzioni, trincee anticarro, cavalli di frisia e barriere di filo spinato irrobustito da oltre trecento posti di guardia e da una trentina di bunker, il tutto ben delimitato da una strada per il pattugliamento sempre illuminata a giorno.
 

Però già allora si era dato fondo a enormi riserve di denaro e di ingegno per scongiurare e reprimere qualsiasi tentativo di fuga. Perché questo era il suo scopo, il suo unico scopo, altro che un muro di “protezione antifascista” per proteggersi dall’eventuale aggressione delle potenze occidentali.
 

Si diceva il Muro, ma in realtà si trattava di due muri.
Quello che guardava a ovest era di un colore molto chiaro per mostrare meglio il profilo dei fuggiaschi ed era sormontato da un tubo di cemento per impedire di arrampicarsi.
Dietro si celavano vari fossati e fili spinati con allarmi ottici e sonori. Una pista era destinata allo scorrimento dei guardiani e una a quello dei cani da guardia, con un lungo guinzaglio che scorreva su appositi binari.
 

L’ultima striscia, prima del muro orientale era una sorta di campo con punte di acciaio conficcate nel terreno. I berlinesi chiamavano questo spazio con un nome bizzarro, ma assolutamente evocativo: “erba  di Stalin”. 
 

Un gigantesco monumento alla follia e alla crudeltà, disteso per oltre 150 chilometri, ma in realtà ancora più lungo, tanto lungo e tanto massiccio da spaccare in due l’Europa, da dividere il mondo.  Da isolare e sigillare sotto vuoto il “blocco comunista”.
 

Se mi capita di inciampare ancora su questa espressione –  con quello di metallico, di spietato che mi richiama la parola “blocco”, una sorta di tagliola della voce – in realtà mi viene da pensare proprio al Muro.

Vedi, Paolo, la frontiera fa sempre un certo effetto.
 

La frontiera è tante cose insieme: paura e speranza, inquietudine e stupore, prigione e libertà. La frontiera non separa solo due lembi di terra, divide anche te a metà. Chiude una porta e ne apre un’altra.
Ma le emozioni più forti me le desta ancora oggi proprio questa frontiera che non c’è più e che un tempo tagliava il cielo di Berlino.
 

 Pensare che oltre il Muro c’era solo un tavolo piazzato in mezzo a una stanzone grigio. Grigio come le uniformi delle guardie che ti scrutavano, grigio come le nuvole che per molti giorni all’anno sostano sopra Berlino, grigio come i tristi caseggiati di tanta edilizia socialista. 
 

L’unica macchia di rosso era lo striscione che ti dava il benvenuto.
 

Ti prendeva il cuore e lo stomaco, per forza.

mercoledì 30 dicembre 2009

Quella volta del Dalai Lama a Firenze


Ci sono persone che più di altre sembrano incarnare la possibilità concreta di un mondo migliore per tutti noi. Penso a Daisaku Ikeda, a Nelson Mandela, al Dalai Lama, solo per fare qualche nome. Riporto qui sotto il racconto dell'unica volta che ho avuto modo di incontrare, anche se marginalmente, uno di questi personaggi. Ancora una volta è una pagina tratta da Caduti dal Muro, il libro scritto con Tito Barbini per Vallecchi.
Auguri e arrivederci al 2010!



Successe tanti anni fa, quando venne invitato a Firenze e io collaboravo da qualche tempo con un quotidiano cittadino. Ero solo quello che allora si chiamava un “abusivo”, cioè uno di quei ragazzi che passavano le giornate a faticare in redazione contando solo su una vaga speranza di assunzione, prima o poi.
Non è che il caporedattore si fosse particolarmente appassionato all’idea di questa visita. In ogni caso assai meno che per un consiglio comunale o per un campionato regionale di pallavolo vinto dalla squadretta di quartiere. E insomma, la tanto decantata informazione locale è anche questo, le radici nella realtà le affondi ma poi ti capita di non guardare che cosa c’è oltre la chioma del tuo alberello.
E insomma, fu per questa ostentata indifferenza che all’incontro con il Dalai Lama nella chiesa di San Miniato venne spedito il povero collaboratore, non un “vero” giornalista a ben altre notizie destinato.
Così una mattina che ricordo decisamente grigia il sottoscritto si ritrovò in prima fila ad accogliere la massima autorità spirituale tibetana, che si presentò senza scorta e senza un codazzo esagerato di discepoli e accompagnatori.
E io allora ero piuttosto indifferente a certe persone e a certi discorsi, il Tibet avrei fatto fatica a indicarlo su una carta geografica e il Dalai Lama era sicuramente una brava persona, ma con il quale avevo poco a che fare e a cui comunque non avevo affidato la mia speranza per il mondo.
Certo, ero così allora, impermeabile alle cose dello spirito. Però ora, proprio grazie a te Tito, recupero questo fotogramma che avevo abbandonato a se stesso: rivedo il Dalai Lama che fa il suo ingresso, la testa rasata e la semplice tunica ad avvolgerlo, gli occhiali che non celavano occhi vispi e curiosi.
E rammento come chinò il capo più volto in segno di rispetto per tutti i presenti, che incontrava per la prima e presumibilmente per l’ultima volta. Rammento che a un certo punto il suo sguardo scivolò su tutto noi, però non era uno sguardo che racchiudeva tutti in un abbraccio collettivo, no, era uno sguardo che si soffermava e staccava, uno sguardo che procedeva solo dopo aver creato un contatto. Uno sguardo che diceva: anche tu sei importante per me.
E lo diceva solo con un sorriso.
Il sorriso di cui pure a me il Dalai Lama fece dono.

sabato 7 novembre 2009

Quella notte a Berlino, 20 anni dopo


Lunedì 9 ci fermeremo tutti almeno per qualche momento per ricordare ciò che avvenne 20 anni fa, quando tutto il mondo fi preso alla sprovvista dalla caduta del Muro di Berlino e fece festa con il popolo tedesco per quell'evento epocale. Quante cose che ci sarebbero da dire su quel giorno e su quanto è cambiato (o forse no?) questo nostro pianeta da allora... Mi piacerebbe che questo blog potesse ospitare anche qualche vostro pensiero a riguardo. Intanto, su Berlino, riporto una pagina del libro Caduti dal Muro (Vallecchi editore) scritto a quattro mani con Tito Barbini. Per la precisione, qui sotto è Tito che parla in prima persona.


Berlino è ancora un grande cantiere a cielo aperto.
Dopo la riunificazione è cominciata la più grande operazione di rinascita di una città dopo quella realizzata, sempre a Berlino, sulle macerie della seconda guerra mondiale. E ancora non è finita.
I lavori proseguono e gli ultimi casermoni socialisti, con quei cubi di cemento che ricordano i pezzi di una costruzione Lego, lasciano inesorabilmente spazio alle nuove forme dell’architettura moderna.
Berlino non è certo povera di motivi di interesse e di seduzione per ogni genere di visitatore: non lo è mai stata.
Però oggi regala un’occasione irripetibile: la possibilità di compiere una sorta di pellegrinaggio in una città che cambia freneticamente, attraverso spazi conquistati e trasformati, idee che si trasformano in opere, squarci di meraviglia per un nuovo che è anche bello, architetture leggere e trasparenti che acquistano volume e fisionomia grazie ai progetti di maestri quali Rogers, Piano, Eisenman, Grassi.
Non credo che tutto questo durerà per molto tempo ancora: se non sei stato ancora a Berlino, non perdere altro tempo.

E così ora cammino per questa città che, nel bene e nel male, è stata al centro delle tragedie e delle speranze, dei crimini e dei desideri di riscatto della nostra epoca.
Guardo la Berlino che una volta c’era e che non c’è più, la Berlino protagonista della Storia e quella che dalla Storia è stata brutalizzata.
L’arietta frizzante, le vetrine illuminate, la gente che si affolla pacificamente alle fermate dei tram, la composta allegria degli imbiss - i chioschetti dove ti puoi sempre fermare per una birra e un panino al wurstel - l’eleganza dei ristoranti di Oranienburger Strasse… tutto questo certo non aiuta a capire.
Per quanto mi riguarda la testa mi gira a forza di pensieri. Mi ritrovo a Postdamer Platz e medito su quella che fu una terra di nessuno.
Mi godo la bellezza della cupola trasparente del Reichstag e ritorno all’incendio che un giorno appiccarono i nazisti, lugubre avvisaglia della successiva catastrofe.
Penso al 9 novembre del Muro fatto a pezzi, strappato con le mani, a martellate, a colpi di piccone, e solo dopo con le ruspe, però poi mi lascio folgorare dal ricordo di un altro 9 novembre, quello della Notte dei Cristalli: la notte di un’altra frenesia collettiva, quella della caccia all’ebreo e delle sinagoghe rase al suolo.
E godo della libertà ritrovata, ma non posso fare a meno di pensare alle tortuosità della Storia, alle sue crudeli contraddizioni, alle inesauribili possibilità di sofferenza che è in grado di infliggerci.
È finita l’epoca del socialismo, che sicuramente non è mai stato il Paradiso in terra, e la disillusione è già in agguato dietro l’angolo, perché anche l’Occidente non è rose è fiori, non è solo supermercati strapieni di delikatessen e pubblicità con sorrisi e promesse di felicità.
È anche miseria, è anche fatica, è anche iniquità.
Pensi almeno di aver girato pagina una volta per tutte ed ecco che le città dell’est, soprattutto le periferie più degradate, si popolano di inquietanti bande naziste. E i “nostalgici”, chiamiamoli così, cominciano a entrare nei parlamenti regionali.
Proprio mentre sono qui viene pubblicato un’inquietante ricerca del centro studi della Spd, il grande partito socialdemocratico della Germania: almeno 15 tedeschi su cento, leggo, potrebbero riconoscersi in un partito di estrema destra, addirittura il 20 per cento coltiverebbe pregiudizi antisemiti…
Come se niente fosse successo… un colpo di spugna sulla tragedia più immane del Novecento.

Tutto è in movimento, in questa straordinaria città, tutto è pronto a stupirti perché cambia, non perché rimane uguale a se stesso.
A Berlino Est, però, resiste ancora un grande fantasma di pietra.
La vecchia Stalin Allee, oggi Karl Marx Allee, è certamente la strada più ideologica della Germania e insieme una metafora della nostalgia.
Su questo grande viale, lungo due chilometri e largo più di cento metri, si affacciano gli esempi più classici dell’edilizia socialista. I palazzi, completamente restaurati e ben conservati, riprendono i canoni austeri e compatti dell’edilizia sovietica, senza tuttavia rimuovere completamente l’eredità architettonica della Berlino di Bismarck.
Nel complesso non è male, il colpo d’occhio è tutt’altro che sgradevole, almeno nella misura in cui è possibile serbare uno sguardo freddo, distaccato.
Se le emozioni prendono quota, come succede a me ora, il discorso è un altro.
Questa strada, lo so bene, per oltre cinquant’anni ha impegnato in estenuanti dibattiti urbanisti e architetti di tutto il mondo. Però quanto mi si agita dentro non è certo un dilemma estetico.
Oggi, quasi per un’intera giornata, l’ho percorsa avanti e indietro, all’ombra dei tigli, indugiando su particolari e pensieri. Più volte mi sono soffermato a contemplare i simboli che evocano il regime tramontato.
Anche in altre città della Germania orientale lapidi e monumenti sono stati risparmiati dalla furia iconoclasta, ed è giusto, perché la distruzione di oggi non aiuterà certo la memoria di domani.
Però tutto quello che si vede, che si respira, che si può perfino toccare in questa strada ricorda quel passato: assieme a quel poco che ormai rimane del Muro la Karl Marx Allee ci riporta davvero ai tempi della guerra fredda e dei blocchi contrapposti.
È solo in questa strada che si comprende davvero cos’era Berlino quando era divisa nel cielo e in terra, quando il Muro tagliava quartieri, separava famiglie, lasciava finire nel nulla strade che un tempo congiungevano.
Tutto mi ricorda qualcosa.
Le panchine dei giardinetti a lato, per esempio, sono decisamente affollate. A occuparle non sono i turisti, si capisce al volo, ma gli inquilini dei grandi palazzi che si affacciano sulla strada.
Fossimo in qualsiasi altra parte del pianeta, non ti verrebbe da pensare a nient’altro che a pensionati che ammazzano pigramente il loro tempo al tepore di un pallido sole nordico.
Però non si può abitare per caso in quella che un tempo portava orgogliosamente il nome di Stalin Allee.
Gli alloggi, qui, venivano assegnati a chi aveva acquisito particolari benemerenze nei confronti del regime e del partito. Un appartamento in questa strada era un premio. No, non necessariamente un privilegio riservato a carrieristi e opportunisti, perché c’era anche chi ci credeva, c’era chi avrebbe dato la vita per il socialismo…
Tra questi vecchietti probabilmente c’è anche qualcuno dei “pionieri” che nel dopoguerra accorsero a Berlino da volontari, per spazzare via le macerie e ricostruire una città degna di una patria nuova, di un uomo nuovo…

venerdì 23 ottobre 2009

Emilio Salgari per compagno di viaggio


In questi giorni in giro con Tito Barbini per presentare Caduti dal Muro capita spesso di parlare di viaggi veri e viaggiatori immaginari, di persone che macinano chilometri e di persone che macinano sogni con le loro letture (è successo anche ieri sera, alla Libreria Marzocco, con gli amici di Avventure nel mondo). Ed è un tema che mi ha sempre fatto pensare molto.

Pascal affermava: “La sventura del mondo viene perché gli uomini non riescono a rimanere ventiquattr’ore nella stessa stanza”,
Robert Louis Stevenson, quello dell’Isola del tesoro,invece sosteneva: “Non c’è miglior materia per i sogni che una mappa” .

Quando mi tornano in mente frasi come queste ripenso a questo signore che vedete nella foto qui sopra: un signore che mi ha fatto viaggiare per il mondo come se avessi valanghe di biglietti aerei regalati e giorni liberi infiniti.

Ripenso a questo signore che si faceva chiamare capitano di lungo corso, che raccontava a tutti di mirabolanti imprese e spedizioni ai quattro angoli del pianeta, che girava in bicicletta per la sua città con in testa un turbante da maharajà e che la domenica gli piaceva portare i figli in scampagnate fuori porta dove poteva inventarsi gigantesche cacce alla tigre.

So che questo signore da ragazzo si ritrovò al Lido di Venezia, in lacrime perché era stato respinto all’esame che gli avrebbe dovuto dare la licenza nautica e un futuro marinaro. Se ne stette ore a guardare il mare che non avrebbe più potuto solcare come un capitano.

Da allora questo signore gettò l’ancora nelle biblioteche di mezza Italia e cominciò a navigare sui libri, macinando di tutto, guide, atlanti, mappe, resoconti di viaggio, bollettini, lettere di esploratori.

Così cominciò a viaggiare e divenne un formidabile viaggiatore sulla carta.
Poi cominciò a scrivere. E in questo modo mi ha regalato Sandokan e i tigrotti della Malesia, ma soprattutto mi ha regalato Mompracem, un’isola per me nella vastità dei mari.

Questo signore, che anche per suicidarsi non scelse un colpo di rivoltella ma fece harakiri come un samurai, si chiama Emilio Salgari. E quando ripenso a lui mi rivedo ragazzino a girare per il mondo solo con le sue pagine e la mia fantasia. Sono contento di aver parlato di lui in un mio libro, Gli occhi di Salgari. Di lui e del suo modo di viaggiare con la fantasia.

Confucio diceva che il modo migliore per conoscere il mondo è quello di non uscire mai dalla propria casa. E forse questo è troppo.
Però in effetti si può viaggiare in molti modi. E viaggiare con la fantasia, solo con la fantasia, non è certo il peggiore.

sabato 17 ottobre 2009

In giro con Tito per Caduti dal Muro

More about Caduti dal muroNon è che a me piacciono molto anniversari e commemorazioni, ma a questo ci credo, soprattutto come occasione per riflettere e confrontarsi su cose che non sono lontane da noi, che comunque ci riguardano.

Se ne parla da diversi mesi, ma ormai ci siamo: tra qualche settimana saranno passati esattamente 20 anni dalla caduta del Muro di Berlino, da quello straordinario evento con cui non cadeva soltanto il simbolo della Guerra Fredda e delle sue divisioni.

Finiva un impero che da Berlino arrivava fino alle sponde del Pacifico, tramontava di colpo il “sole dell'avvenire”, cambiavano all'improvviso mappe geografiche, bandiere, nomenclature, ma andava a pezzi anche la speranza di chi aveva creduto nel socialismo, veniva meno una possibilità di futuro per tanti.

Su questo anch'io e Tito Barbini abbiamo scritto un libro, Caduti dal Muro, pubblicato per Vallecchi.

In primo luogo, va detto, è un libro di viaggio, che ci porta dall'Europa orientale alla Russia, dalla Cina fino al Vietnam, alla Cambogia e al Tibet. E per la verità è Tito che ha viaggiato sul serio, da grande viaggiatore qual è, io l'ho accompagnato con le mie email, le mie letture, la mia musica.

E poiché i viaggi di Tito non sono mai solo il resoconto di un itinerario, in queste pagine c'è anche il racconto di un uomo alle prese con le grandi questioni, sia politiche che esistenziali.

Ne è venuto fuori un dialogo tra diversi, sul passato ma soprattutto sul presente, e anche un po' sul futuro. A me è servito, spero che sia utile anche per altri.

In ogni caso io e Tito saremo parecchio in giro per parlare di Caduti del Muro e di tutto quello che quella notte di novembre del 1989 ha significato per tutti noi.

Qui, intanto, vi inserisco alcune date di questo ottobre:


il 19 a Montale Villa Smilea ore 21.00

il 20 alla Biblioteca Comunale di Scandicci ore 17.30

il 21 a Modena Caffè Letterario Avventure nel mondo ore 20.30

il 22 a Prato Libreria Marzocco

il 23 a Mirandola per la rassegna Libri al Castello. 17.30

il 28 a Guidonia ore 18 per “ Progetto Culturale Storia del 900”

il 29 a Montevarchi Sala Bartolea ore 18

venerdì 28 agosto 2009

C'era una volta la DDR

More about C'era una volta la DDR“Ossessionata dai dettagli, la Stasi fallì clamorosamente nel prevedere la fine del comunismo, e con essa la fine del paese. Tra il 1989 e il 1990 fu rovesciata come un calzino: un giorno organizzazione di spie staliniste, il giorno dopo museo. Nei suoi quarant’anni... aveva prodotto l’equivalente di tutti i documenti della storia tedesca a partire dal Medioevo. Disposti uno accanto all’altro, i fascicoli che la Stasi teneva sui suoi concittadini, uomini e donne, avrebbe formato una fila di centottanta chilometri”

Ci si sta avviando verso due mesi che pulluleranno di iniziative per commemorare i 20 anni dalla Caduta del Muro e da tutto quanto quell'evento ha significato, perché con quel Muro si sbriciolò un impero che da Berlino arrivava al Pacifico, tramontò di colpo il "sole dell'avvenire", sparirono mappe geografiche, bandiere, nomenclature.

Non mancheranno certo le occasioni per ricordare questo evento. Da andare a Berlino (io parto la prossima settimana) fino a leggere il libro che ho scritto assieme a Tito Barbini, Caduti dal Muro. Ma non voglio promuovermi, piuttosto oggi voglio segnalarvi quest'altro libro, un buon viatico per prepararsi all ventennale. E' C'era una volta la DDR, è uscito per la Feltrinelli e l'autrice è una giornalista australiana, Anna Funder.

Non so se di questo libro mi abbia colpito più l'insostenibile normalità di un regime dove un cittadino ogni 63 era un agente o un informatore della polizia segreta. Oppure l'incredibile rapidità con cui questo sistema che sembrava costruito con gli stessi materiali del Muro di Berlino si squagliò, creando un vuoto pneumatico laddove fino a poche settimane prima c'erano schiere di fedelissimi.

Non so neppure se quella sia stata una rivoluzione - l'unica, sostiene la Funder, che i tedeschi siano riusciti a portare a termine in tutta la loro storia - così come non so cosa si nasconda dietro l'Ostalgie di oggi: moda o effettivo disagio del presente?

Però questo è un buon libro, un reportage ricco di umanità e senza eccessive pretese. Anche con qualche pecca, senz'altro, o cose che forse potevano essere più approfondite - per esempio il sostegno al regime degli "idealisti": un libro comunque non scontato e utile.

venerdì 3 luglio 2009

Caduti dal muro - in viaggio con Tito


Questo è il primo blog che apro e allora comincio così, quasi per prova, pubblicando la copertina del libro che ho scritto assieme a Tito, racconto di un viaggio che lui ha fatto chilometro dopo chilometro nei paesi dell'ex socialismo. Io l'ho accompagnato rimanendo tra il computer e la mia biblioteca: anche questo, penso, un modo di viaggiare.
Vorrei che questo blog potesse diventare una piccola isola nell'oceano della rete per accogliere molti altri libri, storie, viaggi.
Buone letture e buoni viaggi a tutti

La Terapia del bar: Massimiliano Scudeletti racconta il circo che si fece bar

  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...