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lunedì 13 ottobre 2014

Con Silvano Lippi e quella gavetta in fondo al mare

Ogni volta che se ne va uno dei testimoni ho più paura del silenzio e allo stesso tempo avverto su di me un'altra responsabilità.

E' quello che ho provato l'altro giorno venendo a sapere della scomparsa di Silvano Lippi, due volte scampato agli orrori della guerra, prima il naufragio dell'Oria (la più terribile e dimenticata delle tragedie del Mediterraneo, con le sue 4.200 giovani vite inghiottite) e poi il campo di concentramento di Mauthausen.

Da sopravvissuto, per una fortuita serie di circostanze, Silvano Lippi è stata voce necessaria per tessere quei pochi fili della memoria che, per quanto mi riguarda, ho provato a tenere insieme in La gavetta in fondo al mare: storia che, per un'altra fortuita serie di circostanze, è entrata nella mia vita e non mi ha più abbandonato. Le parole di quel monologo mi risuonano ancora dentro, sono ancora rabbia, indignazione, commozione. Ma non sono ancora niente rispetto alla sofferenza di Silvano Lippi, della sua lunga vita segnata per sempre e alleviata solo dalla possibilità della testimonianza.

Una nave è attraccata alla banchina in attesa dell'imbarco di questi soldati. Il piroscafo comincia ad inghiottire il suo smisurato carico umano. È subito incomprensibile come il ventre della nave possa contenere un così grosso numero di persone. Quando il carico è al completo viene chiuso ermeticamente il boccaporto. 

In realtà anche la sua vita forse è finita lì, quel giorno sulla banchina, quando fu tra gli ultimi a salire sull'Oria già stracolma, tanto che per lui non si trovò posto. Così fu fatto discendere, al contrario delle altre migliaia di ragazzi, pigiati nelle stive come sardine. 

In questo modo si salvò. O in questo modo morì lo stesso, per diventare un altro Silvano Lippi chiamato ad altre cose.

Ora non c'è più. Quel silenzio lo sento e ne ho davvero paura. Meno male che ha fatto in tempo a passare il testimone ad altre persone. Meno male che ovunque in Italia si stanno finalmente ritrovando e riconoscendo i familiari delle vittime dell'Oria: chi li fermerà più, a questo punto?

mercoledì 12 febbraio 2014

12 febbraio: ricordando i morti dell'Oria, 70 anni fa

È meraviglioso, questo mare.

I suoi colori, le sue onde come un respiro universale. Come un  sospetto di eternità.

L'Egeo, cioè gli dèi dell'antica Grecia. E i versi di Omero: le acque color del vino – del vino,  non del sangue.

L'Egeo che per uno della mia età sono anche le vacanze da sballo, i viaggi sul ponte del traghetto, chitarre e sacchi a pelo, i bicchieri di troppo e gli amori che svaniscono con l'estate.

L'Egeo che per forza mi rammenta un film di Gabriele Salvatores, la sua storia di soldati italiani tralasciati dalla guerra, su un'isola non distante da Rodi, un'isola che esiste solo nella fantasia di chi in Grecia verrà solo per agosto, parecchi anni più tardi. Perché solo nella fantasia esiste una storia così: la guerra non dimentica, la guerra non lascia in pace i soldati.

L'Egeo che può essere un sogno, un'utopia, una possibilità di fuga. Ma certo può essere anche tremendo.

Mare di tempesta, mare senza pietà.

Mare di morte già nel nome: Egeo e il suo mito.

Il re di Atene che dalle scogliere attende il ritorno del figlio Teseo. Vele bianche se avrà sconfitto il Minotauro, nere se è stato ucciso. E sono nere le vele, vai a sapere perché. Teseo è vivo, ma il vecchio si getta in mare e il mare da quel giorno sarà l'Egeo.

Mare tremendo, mare di morte. Mare che spesso pretende in tributo i figli piuttosto che i padri. 

sabato 9 novembre 2013

Applausi per una gavetta, un'umile gavetta

Gente che per decenni si è rassegnata alle sue ferite. Gente che non vuole vedere il mare o che non mangia il pesce – e neanche si rammenta più perché. Gente che un giorno si è sentita chiamare da un posto di cui nemmeno aveva mai sentito parlare.

 Gente che non si era mai vista prima, ma che si è riconosciuta all'istante, seduta intorno a un tavolo per la cena, una pizza al circolo offerta dal Comune, prima dell'incontro. Gente che poi ha applaudito a quell'immagine sullo schermo, pensate, una gavetta, un'umile gavetta

Quel giorno la gavetta di Dino Menicacci avrebbe meritato il posto di onore, nella sala del consiglio comunale. È stata brava a rammentare ciò che gli uomini si sono sforzati di dimenticare.

Ed è grazie a lei per cui oggi sono qui anch'io. Per quella gavetta e per quell'incontro.

Perché è così che è andata. Un giorno la storia della gavetta ha bussato alla mia porta e non mi ha più abbandonato.

E io sono entrato in punta di piedi dentro questa storia e non mi sono sentito un intruso.

E l'Oria lo sento anche mio, ora. E per questo sono grato a quella gavetta, per questo sono grato a Dino Menicacci. 

 (da Paolo Ciampi, La gavetta in fondo al mare, Romano editore)

mercoledì 3 luglio 2013

La gavetta in fondo al mare e i 4 mila dell'Oria

In 4 mila e più sono morti quel giorno.
Questa è la storia. Questo è quanto è successo. Il 12 febbraio del 1944.
Mare tremendo, mare di morte.
E quel campo di battaglia giù in fondo. Quel cimitero di guerra che non avrà croci, ma solo le coordinate che valgono per uno scoglio o una boa.
Latitudine 37° 39' nord, longitudine 23° 59' est.
Qui, dove le acque si sono richiuse sui corpi. Qui, dove la tomba è la profondità del mare. Qui, dove le onde per giorni, per settimane, restituiranno una parte dei corpi rubati.
Mare tremendo, mare di morte.
Allo stesso modo di una spiaggia di inverno, i tronchi e i rottami dopo una libecciata. 

(Paolo Ciampi, La gavetta in fondo al mare, Romano editore)

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  Ho dodici anni e passo spesso dietro il bancone , posso prendere qualsiasi cosa tranne gli alcolici naturalmente, ma mi piace guardare il ...