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giovedì 7 luglio 2016

Congo, questa è la nostra storia

Me l'avevano caldamente consigliato, solo che non ci credevo. Come si fa a leggere un libro sul Congo di quasi settecento pagine? Cosa ci sarà mai da raccontare sul Congo? E soprattutto, cosa c'entro io col Congo?

Ecco, domande così, giusto per mettere le mani avanti. Giusto per staccare un attimo, prendere fiato e azzardarmi in questo giudizio: signori, era vero, Congo di David Van Reybrouck è un capolavoro. Un libro da leggere e da regalare, a dispetto di tutto. Un libro che ci insegna come si può raccontare la storia di un paese, con tutte le storie che ci sono dentro. Mica solo quelle di un dittatore sanguinario, di qualche guerra incomprensibile e di un pugile che non era solo un pugile - si chiamava Muhammad Alì - che a Kinshasa entrò nella leggenda. 

Prima di tutto è una questione di sguardo. E' questione di sguardo sul nostro sguardo. Dici Congo e pensi a un esploratore che si chiamava Stanley, al celeberrimo "Dottor Livingston, suppongo?", galateo britannico in mezzo alla giungla, pensi a quell'incontro e al fatto che tutto sembra cominciato in quel modo. 

Bizzarro, però, cominciare la storia del Congo con un europeo, quando è qui cominciata la storia  dell'uomo.... E che bravo Van Reybrouck ad azzardare un colpo di occhio su ciò che c'è stato prima, per quanto se ne possa sapere, nel silenzio di ogni parola... "Allora non sapevamo che nel mondo esistessero persone con un colore della pelle diverso dal nostro... "

Questione di sguardo sul nostro sguardo, appunto. Il Congo, così remoto, così a parte, una sua storia, certo, ma una storia che non ci riguarda. E invece, ecco qui: la colonia personale del re del Belgio, il suo caucciù e il suo uranio che cambiano l'economia del mondo. Il crack di Wall Street del 1929 che arriva sin qui, le due guerre mondiali che anche il Congo combatte - perfino nelle trincee europee - e un vittoria sull'esercito fascista che fu uno dei peggiori - e più dimenticati - disastri del colonialismo italiano....

Solo per dire qualcosa, solo per dire che Congo è un grande mare in cui ci si può immergere e trovare l'insospettabile: fili che legano gli anni e che ci riportano a noi. 

Poi arrivate in fondo e capite finalmente che perfino la parola globalizzazione ha trovato un altro senso, che per capirla non importa andare a lezione dai grandi dell'economia. 

lunedì 29 febbraio 2016

Un libro sul Congo che è un miracolo (di Massimiliano Scudeletti)

 l'Africa in maniera non convenzionale.
Congo, il libro  di David van Reybrouck vincitore del premio Terzani 2015, uscito per Feltrinelli nel 2014, è un maledetto miracolo.

Settecento pagine di storia, (di questo si tratta anche se nell'edizione italiana manca il sottotitolo Una storia) dalla nascita dello stato coloniale africano ai giorni nostri,  raccontate con lo stile del reportage mescolando le voci di circa 500 intervistati. Un affresco corale che fuoriesce con la stessa potenza del fiume Congo che dal suo estuario intorbidisce le acque dell'oceano per chilometri e chilometri. Ma si sbaglierebbe a considerarla un opera di nicchia o riservata agli amanti dei reportage di viaggio: mezzo milione di copie vendute sono lì a testimoniare un successo di pubblico, vasto e trasversale. 

Anche la critica, solitamente ingenerosa con i successi commerciali, è rimasta muta: perché il libro è inappuntabile sul piano della scrittura, delle fonti, dell'apparato bibliografico e si legge bene, maledettamente bene. Le recensioni entusiastiche oramai si sovrappongono, ed è comunissimo trovarne citazioni in articoli e reportage che abbiano per oggetto, fateci caso, non solo l'Africa centrale, ma l'intero continente. D'altronde, perché spremersi a dire qualcosa d'intelligente quando altri l'hanno già fatto?

Quando partiamo per leggere Congo, ci aspettiamo di risalire verso il cuore di tenebra dell'Africa con tutti i protagonisti che abbiamo conosciuto o immaginato. Non ne manca nessuno, allineati lungo il fiume della narrazione di  Reybrouck. Ecco Stanley, sì proprio quello de "il dottor Livingstone suppongo", e Leopoldo II del Belgio che ebbe il Congo come sua proprietà privata. I funzionari belgi e la loro polizia, i contadini vessati e torturati dalla sete infinita dell'occidente per il caucciù, per l'oro, i diamanti e tutto il resto. E poi Mobuto e Lumunba, prima amici e poi l'uno il carnefice dell'altro, descritti in un'incredibile corsa in motorino che vale l'intero libro. E la guerra fredda,  il post colonialismo e il saccheggio continuato di un paese troppo ricco per essere felice sia che si chiami Zaire o Congo. E ancora i conflitti razziali giunti a noi, l'altro mondo, con il suono dei machete dato che hutu e tutsi proprio in Congo ebbero le loro basi per colpire in Ruanda. Gli stessi hutu e tutsi che portarono sui loro scudi il nuovo padrone del paese: Kabila. E poi, l'oggi con le sue incertezze, tra il gigante cinese che fornisce a caro prezzo strade e infrastrutture, mentre la guerra per bande delle multinazionali usa i signori della guerra e i loro eserciti di soldati bambini per garantirsi l'approvvigionamento di tutte quelle materie preziose che da sempre l'occidente pretende.

C'è tutto il Congo e quindi gran parte dell'Africa centrale accompagnate da musica - una su tutti Indipendence Cha Cha Cha -, sapori e centinaia di storie tragiche, insanguinate, ironiche, allegre. Ma c'è di più ed è un vero miracolo in un epoca in cui l'originalità è merce rara, più del coltan.

Reybrouck ha un 'idea chiara, non convenzionale, del colonialismo e non la nasconde: L'occidente ha delle colpe terribili, ma la storia africana, a cinquant'anni dall'indipendenza, non è solo una reazione all'azione dei bianchi. Ci sono nobili cose ed enormi errori tutti africani: Lumunba, per esempio, osannato padre della nazione scelse, secondo l'autore, una via troppo rapida all'indipendenza, quando il paese non aveva ancora una struttura politica, economica e militare autonoma. Provocatorio denigrare un martire, padre della patria? Certo, ma non si ferma lì e ci descrive Mobuto non solo come il più longevo e sanguinario tra i dittatori, com' è stato in effetti, ma anche come lo statista che ha dato un'identità ad  una nazione grande come un continente(1). Sarebbe sbagliato leggervi in controluce una critica di un conterraneo di valloni e fiamminghi, ai vani sforzi della Comunità Europea di creare un sentimento di comune appartenenza in tutti questi anni?

Ma dove Congo lascia il segno è nello smontare la dialettica arcaico/moderno, africano/europeo tramite la strada più difficile, quella che passa per i conflitti interetnici. Proprio  quelli in cui anche l'occidente più liberale ha sempre visto una traccia selvaggia, tutta africana, direttamente collegata ad un oscuro tribalismo. 

Quando Reybrouck ce li descrive, nelle loro terribili manifestazioni, ma con le loro cause squisitamente economiche, scioglie l'inganno che vede quei conflitti come arcaici,- dettati quasi da una differente umanità - e quelli europei "le contrapposizioni identitarie", come moderni (è sufficiente parlare di Balcani, di Ucraina o dell'egoismo odierno dei paesi europei?).
E questa è forse la descrizione più tenebrosa che Reybrouck ci lascia cadere nel piatto, un mondo "uguale" dove gli stessi fattori (stati in grave difficoltà economica, corruzione, leadership immature o miopi, circolazione delle armi e ricerca del profitto ad ogni costo), portano allo stesso risultato, né antico né moderno, solo spietato.

(1) molto chiara in questo senso l'intervista di Guido Caliron all'autore per il Manifesto del 2/10/2014

Massimiliano Scudeletti

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