Sono orgoglioso della mia libreria come di poche altre cose di casa. È
bella, sa di antico. Castagno stagionato, aria di solidità, la
semplicità che ha l’eleganza delle cose che sono come devono essere,
senza artifici, senza strane pretese. Farebbe la sua figura in una
vecchia biblioteca, di quelle con un odore particolare, che non so se è
della carta o dell’inchiostro o della cera con cui si tratta il legno,
ma che è quello e solo quello. L’odore delle vecchie biblioteche.
Pensare che è costata il giusto, forse addirittura meno del giusto. Trovata e presa da un vecchio rigattiere che a sua volta l’aveva trovata e presa come un’occasione irripetibile. L’intero archivio di un comune alluvionato, dato via per poco o niente come se il fango gli avesse inferto danni irreparabili.
Due scaffali sono solo per loro, i libri di Emilio. Le vecchie edizioni illustrate che mi sono trovato in casa, forse di mio padre, forse addirittura di qualche mio nonno; i meravigliosi cofanetti della Mondadori, uno per ciclo, che per qualche anno mi vennero regalati per Natale; i libriccini della Mursia, assai meno pretenziosi, con quei caratteri fitti fitti e quelle pagine così leggere che a volte girandole si strappavano; i volumi che più tardi amici come Tito mi hanno portato di ritorno dai loro viaggi. Questo ti piacerà, l’ho trovato in una bancarella di Buenos Aires...
Due scaffali possono non essere un granché per chi ama i libri, per chi li ama anche a prescindere dalla lettura, per chi li ama di un amore fisico, come oggetti del desiderio da guardare, toccare, annusare, sfogliare. Sono qualcosa di enorme se dentro ci sono tutte le ore che un ragazzino ha passato a leggere e fantasticare.
Come diceva Cicerone? Una casa senza libri è come un corpo senz’anima. Oggi capisco meglio cosa voleva dire.
Per l’ennesima volta ora li abbraccio con uno sguardo che ancora non è routine. L’indice corre lungo le coste, come a controllare che negli ultimi giorni qualche titolo non sia sparito.
Qui sono custoditi lunghi pomeriggi d’estate su una sdraio in giardino, per terra un altro libro in attesa e la caraffa del tè freddo di mia madre. E anche tante sere di inverno, la pioggia battente e io sotto le coperte: la mia cameretta come la cabina del comandante e fuori il fortunale che imperversa.
(da Paolo Ciampi, I due viaggiatori, Mauro Pagliai editore)
Pensare che è costata il giusto, forse addirittura meno del giusto. Trovata e presa da un vecchio rigattiere che a sua volta l’aveva trovata e presa come un’occasione irripetibile. L’intero archivio di un comune alluvionato, dato via per poco o niente come se il fango gli avesse inferto danni irreparabili.
Due scaffali sono solo per loro, i libri di Emilio. Le vecchie edizioni illustrate che mi sono trovato in casa, forse di mio padre, forse addirittura di qualche mio nonno; i meravigliosi cofanetti della Mondadori, uno per ciclo, che per qualche anno mi vennero regalati per Natale; i libriccini della Mursia, assai meno pretenziosi, con quei caratteri fitti fitti e quelle pagine così leggere che a volte girandole si strappavano; i volumi che più tardi amici come Tito mi hanno portato di ritorno dai loro viaggi. Questo ti piacerà, l’ho trovato in una bancarella di Buenos Aires...
Due scaffali possono non essere un granché per chi ama i libri, per chi li ama anche a prescindere dalla lettura, per chi li ama di un amore fisico, come oggetti del desiderio da guardare, toccare, annusare, sfogliare. Sono qualcosa di enorme se dentro ci sono tutte le ore che un ragazzino ha passato a leggere e fantasticare.
Come diceva Cicerone? Una casa senza libri è come un corpo senz’anima. Oggi capisco meglio cosa voleva dire.
Per l’ennesima volta ora li abbraccio con uno sguardo che ancora non è routine. L’indice corre lungo le coste, come a controllare che negli ultimi giorni qualche titolo non sia sparito.
Qui sono custoditi lunghi pomeriggi d’estate su una sdraio in giardino, per terra un altro libro in attesa e la caraffa del tè freddo di mia madre. E anche tante sere di inverno, la pioggia battente e io sotto le coperte: la mia cameretta come la cabina del comandante e fuori il fortunale che imperversa.
(da Paolo Ciampi, I due viaggiatori, Mauro Pagliai editore)
E' questa la terribile domanda a cui prova a rispondere Vito Mancuso, uomo che sente profondamente che la cultura non può essere solo erudizione, perché la cultura deve fare bene alla vita, deve crescere con la vita, - altrimenti a che serve?
Uomo ma anche teologo che si interroga sul dolore, anzi, sul dolore degli innocenti: che poi è interrogativo che spesso e volentieri proprio la teologia ha rimosso o trattato con imbarazzo.
Questo libro, Il dolore innocente, varrebbe anche solo per questo: per la tensione etica che chiede di porre il problema e poi di spremere tutte le risposte che sono dovute, senza ipocrisie, senza scorciatoie. Tensione che ne fa lettura importante anche per chi, come il sottoscritto, di teologia non si è mai occupato.
E che riflessione sul dolore, che scaturisce da queste pagine. Un atto di accusa contro il dolore colpevole, contro il dolore necessario. Ma anche una riflessione utile a tracciare un orizzonte dove dignità, rispetto, sentimenti puliti sonodavvero le sole cose a contare davvero.
Ps: fino all'Ottocento il portatore di handicap era designato con il termine mostro. Mostro, dal verbo latino monstrare. Diceva Cicerone: I mostri sono chiamati mostri proprio perché mostrino qualche cosa che deve avvenire. Anche su tutto questo ci sarebbe di che dire....