Nell'agosto del 1992, quando la canicola cominciò ad
allentarsi, intrapresi un viaggio a piedi attraverso la contea di Suffolk
in East Anglia con la speranza di sfuggire al vuoto che si stava
diffondendo in me dopo la conclusione di un lavoro piuttosto
impegnativo. Una speranza che sino a un certo punto si è anche
realizzata, perché di rado mi sono sentito così libero come in quel
periodo, durante le ore e i giorni passati a vagabondare.
Comincia così Gli anelli di Saturno (Adelphi), libro scritto in cammino attraverso il Suffolk - un posto che in effetti non verrebbe mai in mente di scegliere per un viaggio, almeno "prima" di questo libro - ma in realtà attraverso tutto il tempo e lo spazio che può abbracciare un viaggio, un viaggio che sa farsi spessore, profondità, squarcio, lampo di luce.
Chilometri lenti, chilometri a piedi, chilometri in paesaggi dai contorni sfumati dalla bruma, chilometri con i piedi gonfi e l'umidità che entra nella ossa. Altri avrebbero la sensazione di non arrivare mai da nessuna parte, ma W. G. Sebald, uno di cui chissà perché non viene di scrivere il nome per intero, fa venire il capogiro da quanto riesce ad arrivare lontano.
E dunque qui c'è perfino l'Africa nera di Joseph Conrad, c'è perfino la Cina al tramonto del Celeste Impero.
E tutto regge, tutto si tiene, tutto rimanda a tutto, nel passo leggero che si fa parola sommessa, ipnotica, coinvolgente, parola che sostiene a sua volta il cammino.
E l'ultima cosa che viene in mente, o forse la prima, non è che Sebald ci ha lasciato troppo presto, privandoci di vai a sapere quali altri libri. Ma che uno scrittore in cammino come lui non poteva che morire così, spazzato via in un incidente automobilistico, estrema beffa di una storia che lui avrebbe saputo raccontare perfino troppo bene.
Comincia così Gli anelli di Saturno (Adelphi), libro scritto in cammino attraverso il Suffolk - un posto che in effetti non verrebbe mai in mente di scegliere per un viaggio, almeno "prima" di questo libro - ma in realtà attraverso tutto il tempo e lo spazio che può abbracciare un viaggio, un viaggio che sa farsi spessore, profondità, squarcio, lampo di luce.
Chilometri lenti, chilometri a piedi, chilometri in paesaggi dai contorni sfumati dalla bruma, chilometri con i piedi gonfi e l'umidità che entra nella ossa. Altri avrebbero la sensazione di non arrivare mai da nessuna parte, ma W. G. Sebald, uno di cui chissà perché non viene di scrivere il nome per intero, fa venire il capogiro da quanto riesce ad arrivare lontano.
E dunque qui c'è perfino l'Africa nera di Joseph Conrad, c'è perfino la Cina al tramonto del Celeste Impero.
E tutto regge, tutto si tiene, tutto rimanda a tutto, nel passo leggero che si fa parola sommessa, ipnotica, coinvolgente, parola che sostiene a sua volta il cammino.
E l'ultima cosa che viene in mente, o forse la prima, non è che Sebald ci ha lasciato troppo presto, privandoci di vai a sapere quali altri libri. Ma che uno scrittore in cammino come lui non poteva che morire così, spazzato via in un incidente automobilistico, estrema beffa di una storia che lui avrebbe saputo raccontare perfino troppo bene.
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