Ora siamo qui, seduti al ristorante dell'albergo, una bellissima
terrazza coperta con vista sul mare. Il giorno sta scivolando via.
Dalla veranda si scorgono i due fari del porto che hanno cominciato a
lampeggiare, il primo con una lucina rossa, l’altro, più distante,
con un verdolino che va e viene. Vai a sapere se questi colori e
queste intermittenze significano qualcosa.
Mi sono sempre interrogato sul linguaggio dei fari, sul modo con cui
comunicano quello che devono comunicare ai naviganti che li scorgono
a distanza. Attenti, non lì che ci sono gli scogli. Nemmeno di là,
con quel banco di sabbia che non aspetta altro che fregarvi. Passate
di qua. Già, davvero, vai a sapere come fanno.
Insomma, ci sono i fari che compiono il loro lavoro, c’è il
silenzio rotto dalle grida dei gabbiani, c’è una nave che proprio
ora ha sciolto gli ormeggi e ha preso a dirigersi al nord di questo
nord, lenta e inesorabile come una pellicola che scorre fotogramma
per fotogramma. C’è anche una candela accesa al nostro tavolo
perché da queste parti funziona così, trovatelo voi un ristorante
in cui per prima cosa non vi accendono una candela, siate o non siate
una coppia di sposini novelli, prima di chiedervi cosa volete da bere
e quindi di porgervi la Speisekarten, cioè il menù.
C’è tutto questo e c’è anche una sala, accanto alla nostra
terrazza, che è stata occupata per intero da una tavolata di persone
di una certa età. Sbircio dalla porta lasciata aperta. Non è il
circolo dei pensionati in vacanza.
Hanno appena sollevato in un brindisi i calici riempiti di un bel
vino rosso rubino. Qualche colpettino di tosse, più che altro per
schiarirsi la gola. Poi attaccano, tutti insieme. Intonano un canto,
bellissimo. Una melodia che si alza dai cuori, più che dalle bocche.
Pare abbracciare tutto.
Solo ora lo noto, ognuno di loro accanto al piatto ha un libro di
canto. Non sono sicuro, però mi sembrano inni sacri. E sarà che sui
sentimenti religiosi di questi posti ho meditato anche prima, davanti
a uno splendido kindergarten evangelico giusto dietro
l'albergo, con un giardino che Ernesto fino a qualche anno fa si
sarebbe legato al cancello piuttosto di farsi trascinare via. Però
a contare ora è solo questo canto allo stesso tempo dolce e solenne,
sarà che il tedesco aiuta.
Avverto una strana fitta. E
laicamente intuisco: queste sono comunità dove la religione è
ancora un collante che tiene.
Religione, etimologia che rimanda alla possibilità di stabilire
legami. Non solo con Dio, anche con gli uomini. Forse è proprio
questo che mi manca, un'appartenenza che non sia solo articolo di
fede o liturgia, che sia sentirsi parte di una comunità viva,
solida, autentica.
Bisogna aver premura di se stessi per far crescere comunità così.
Scavare in profondità dentro per ricavarne un canto come questo,
capace di farsi coro. Sì, è questo che mi manca davvero. E sarà la
mia fantasia, ma al Nord mi sembra più facile riconquistarlo.
Per fortuna la nostra vista sul giorno che finisce non è uno scorcio
di architetture del primo Novecento, non è un viale alberato o la
fontana di un parco. Preferisco questo porto senza fronzoli, non
rifatto a uso e consumo di yachtmen e turisti di passaggio, con i
depositi in mattone annerito e sbrecciato, i muletti e le gru a
testimoniare che qui c'è peso da sollevare, quindi lavoro vero,
quindi fatica.
Dopo la cena, di grande sostanza, siamo usciti nel giardino
dell'albergo, che è un'altra terrazza sul mare, questa volta
scoperta. Per la prima volta mi sono seduto su una
strandkorbe, anche se l'espressione più giusta forse è:
dentro una strandkorbe. Ingombrante sarà ingombrante,
però è piuttosto comoda. Rintanarsi in essa – ecco, questa è
l'espressione giusta – è piacevole e a suo modo indispensabile per
queste latitudini. Basta abituarsi all'idea di una visuale bloccata
ai lati, che non è poco, per chi appartiene alla civiltà delle
sedie a sdraio.
Intanto Ernesto ha recuperato energie insospettate e ora salta su un
tappeto elastico come un apprendista acrobata. Non so più se
guardare lui o piuttosto una barca a vela che è spuntata dal
niente.
Ancora una volta, in questo viaggio, ho il mare davanti. Il mare che
non appartiene all’uomo ma che è ricco di storie dell’uomo.
Storie che come navi vanno alla deriva o si incagliano. Che arrivano
felicemente a destinazione o che arrivano dove non dovevano arrivare,
complice un vento che cambia, una corrente inattesa, un guasto a
bordo.
Lo dico io che ho più confidenza con la montagna e non sono mai
salito su una barca a vela: il mare è il miglior elemento per un
uomo che voglia accogliere sogni. Non dico realizzare sogni, dico
accoglierli.
E ho Ernesto accanto a me. Ernesto che ora mi sembra grande e piccolo
insieme, come se diverse età convivessero insieme. Cosa che in fondo
vale anche per me e forse per per tutti. Quante volte mi succederà
ancora di sentirmi ragazzino e poi magari di scontarla con i crampi
allo stomaco?
Ernesto. Mi sembra impossibile aver generato questo bambino, così
cresciuto, così bambino e così cresciuto.
Vorrei poter ascoltare la risacca, giù in fondo, cullarmi nel ritmo
dell’acqua avanti e indietro. Mi approprio almeno di una frase di
Victor Hugo: I fenomeni s’intersecano; vederne solo uno equivale
a non vedere nulla. Strano, sembra più di un monaco buddista che
di uno scrittore dell'Ottocento francese.
E acchiappo la sensazione che tutto è come davvero deve essere.
I gabbiani non si sono zittiti. In qualche modo io sono quella nave
che mezz’oretta fa si è staccata e ora non si vede più. Sono
quella nave ghermita da un nord più al nord, in questo mare che pare
una lastra di marmo.
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