martedì 17 luglio 2012

Sono quella nave ghermita da un nord più a nord


Ora siamo qui, seduti al ristorante dell'albergo, una bellissima terrazza coperta con vista sul mare. Il giorno sta scivolando via. Dalla veranda si scorgono i due fari del porto che hanno cominciato a lampeggiare, il primo con una lucina rossa, l’altro, più distante, con un verdolino che va e viene. Vai a sapere se questi colori e queste intermittenze significano qualcosa.
Mi sono sempre interrogato sul linguaggio dei fari, sul modo con cui comunicano quello che devono comunicare ai naviganti che li scorgono a distanza. Attenti, non lì che ci sono gli scogli. Nemmeno di là, con quel banco di sabbia che non aspetta altro che fregarvi. Passate di qua. Già, davvero, vai a sapere come fanno.
Insomma, ci sono i fari che compiono il loro lavoro, c’è il silenzio rotto dalle grida dei gabbiani, c’è una nave che proprio ora ha sciolto gli ormeggi e ha preso a dirigersi al nord di questo nord, lenta e inesorabile come una pellicola che scorre fotogramma per fotogramma. C’è anche una candela accesa al nostro tavolo perché da queste parti funziona così, trovatelo voi un ristorante in cui per prima cosa non vi accendono una candela, siate o non siate una coppia di sposini novelli, prima di chiedervi cosa volete da bere e quindi di porgervi la Speisekarten, cioè il menù.

C’è tutto questo e c’è anche una sala, accanto alla nostra terrazza, che è stata occupata per intero da una tavolata di persone di una certa età. Sbircio dalla porta lasciata aperta. Non è il circolo dei pensionati in vacanza.
Hanno appena sollevato in un brindisi i calici riempiti di un bel vino rosso rubino. Qualche colpettino di tosse, più che altro per schiarirsi la gola. Poi attaccano, tutti insieme. Intonano un canto, bellissimo. Una melodia che si alza dai cuori, più che dalle bocche. Pare abbracciare tutto.
Solo ora lo noto, ognuno di loro accanto al piatto ha un libro di canto. Non sono sicuro, però mi sembrano inni sacri. E sarà che sui sentimenti religiosi di questi posti ho meditato anche prima, davanti a uno splendido kindergarten evangelico giusto dietro l'albergo, con un giardino che Ernesto fino a qualche anno fa si sarebbe legato al cancello piuttosto di farsi trascinare via. Però a contare ora è solo questo canto allo stesso tempo dolce e solenne, sarà che il tedesco aiuta.
Avverto una strana fitta. E laicamente intuisco: queste sono comunità dove la religione è ancora un collante che tiene.
Religione, etimologia che rimanda alla possibilità di stabilire legami. Non solo con Dio, anche con gli uomini. Forse è proprio questo che mi manca, un'appartenenza che non sia solo articolo di fede o liturgia, che sia sentirsi parte di una comunità viva, solida, autentica.
Bisogna aver premura di se stessi per far crescere comunità così. Scavare in profondità dentro per ricavarne un canto come questo, capace di farsi coro. Sì, è questo che mi manca davvero. E sarà la mia fantasia, ma al Nord mi sembra più facile riconquistarlo.

Per fortuna la nostra vista sul giorno che finisce non è uno scorcio di architetture del primo Novecento, non è un viale alberato o la fontana di un parco. Preferisco questo porto senza fronzoli, non rifatto a uso e consumo di yachtmen e turisti di passaggio, con i depositi in mattone annerito e sbrecciato, i muletti e le gru a testimoniare che qui c'è peso da sollevare, quindi lavoro vero, quindi fatica.
Dopo la cena, di grande sostanza, siamo usciti nel giardino dell'albergo, che è un'altra terrazza sul mare, questa volta scoperta. Per la prima volta mi sono seduto su una strandkorbe, anche se l'espressione più giusta forse è: dentro una strandkorbe. Ingombrante sarà ingombrante, però è piuttosto comoda. Rintanarsi in essa – ecco, questa è l'espressione giusta – è piacevole e a suo modo indispensabile per queste latitudini. Basta abituarsi all'idea di una visuale bloccata ai lati, che non è poco, per chi appartiene alla civiltà delle sedie a sdraio.
Intanto Ernesto ha recuperato energie insospettate e ora salta su un tappeto elastico come un apprendista acrobata. Non so più se guardare lui o piuttosto una barca a vela che è spuntata dal niente.
Ancora una volta, in questo viaggio, ho il mare davanti. Il mare che non appartiene all’uomo ma che è ricco di storie dell’uomo. Storie che come navi vanno alla deriva o si incagliano. Che arrivano felicemente a destinazione o che arrivano dove non dovevano arrivare, complice un vento che cambia, una corrente inattesa, un guasto a bordo.
Lo dico io che ho più confidenza con la montagna e non sono mai salito su una barca a vela: il mare è il miglior elemento per un uomo che voglia accogliere sogni. Non dico realizzare sogni, dico accoglierli.
E ho Ernesto accanto a me. Ernesto che ora mi sembra grande e piccolo insieme, come se diverse età convivessero insieme. Cosa che in fondo vale anche per me e forse per per tutti. Quante volte mi succederà ancora di sentirmi ragazzino e poi magari di scontarla con i crampi allo stomaco?
Ernesto. Mi sembra impossibile aver generato questo bambino, così cresciuto, così bambino e così cresciuto.
Vorrei poter ascoltare la risacca, giù in fondo, cullarmi nel ritmo dell’acqua avanti e indietro. Mi approprio almeno di una frase di Victor Hugo: I fenomeni s’intersecano; vederne solo uno equivale a non vedere nulla. Strano, sembra più di un monaco buddista che di uno scrittore dell'Ottocento francese.
E acchiappo la sensazione che tutto è come davvero deve essere.
I gabbiani non si sono zittiti. In qualche modo io sono quella nave che mezz’oretta fa si è staccata e ora non si vede più. Sono quella nave ghermita da un nord più al nord, in questo mare che pare una lastra di marmo.


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