giovedì 21 febbraio 2013

Le bugie del babbo nato con la camicia

Si può raccontare l'orrore della persecuzione razziale con la dolcezza di una favola, capace di schiuderti il mondo tenero e fragile dell'infanzia?

Sì, se sei una scrittrice come Irene Dische. Sì, se hai l'umiltà di non tentare il capolavoro, il libro definitivo, perché non è di questo che c'è bisogno, perché a volte è più importante essere esili, allusivi, muoversi leggeri come un pattinatore sulla superficie del ghiaccio.

Come nelle Lettere del sabato, come con questo padre che non si stanca di ripetere: Sono nato con la camicia, figurarsi, lui ebreo che negli anni Trenta si trasferisce dall'Ungheria a Berlino, staccando così il suo biglietto per l'inferno.

E c'è Peter, il figlio, che prima lo segue, rimanendo affascinato dalla grande città, dai suoi cinema e dalle sue feste, e che poi viene mandato via, e chissà perché, chissà perché deve ritornare con il nonno, accontentarsi di questa Ungheria che è sbadiglio, che è provincia, che è distacco.

Però ci sono le lettere del babbo, che dice che tutto va bene, che a Berlino la grande vita prosegue, che un giorno anche lui potrà tornare.

Quando le bugie servono. Quando le bugie sono un atto di amore.

Quando c'è solo il desiderio di proteggere i bambini, di allontanare il loro sguardo dalle brutture del mondo.

Nell'uomo c'è, ci può essere anche questo desiderio: ed è un modo per riscattarci.

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